Di chi sono i brevetti?

“Le invenzioni sono degli inventori”. Ecco lo slogan lanciato nel programma di governo dei primi cento giorni in tema di ricerca scientifica. Un’affermazione che rivendica la proprietà dei brevetti da parte dei ricercatori che ‘da soli o in équipe, all’interno di Università o di laboratori pubblici, registrano invenzioni brevettabili o registrabili’. Così da permettere agli scienziati di aprire i loro cassetti e tirare fuori i numerosi brevetti che, così argomenta il testo programmatico di Forza Italia, lì giacciono a causa dell’ “indeterminatezza sulla questione fondamentale della loro proprietà”. Peccato che nessuno sia in grado di dire quanti siano le invenzioni a cui abbiamo rinunciato finora. Gli unici dati disponibili sono quelli dell’Eurostat, l’ufficio statistico dell’Unione europea, che parla dell’Italia come della quarta nazione impegnata a depositare brevetti in Europa, dopo Germania, Francia, e Regno Unito. In attesa di una normativa che trasformi la legge in vigore, Galileo ha raccolto l’opinione di alcuni ricercatori, direttamente coinvolti nella questione.

“Oggi”, spiega Ranieri Cancedda, vicedirettore scientifico dell’Istituto nazionale per la ricerca sul cancro di Genova, “se un’invenzione avviene all’interno di un istituto pubblico, il brevetto viene depositato a nome dell’università, mentre per quanto riguarda i ricavi, la legge prevede un ‘equo premio’ per l’inventore che viene quantificato dai regolamenti stabiliti dalle università”. Secondo lo standard europeo, la ripartizione attribuisce il 33 per cento dei ricavi all’inventore, il 33 per cento al dipartimento di appartenenza e il 33 all’ufficio brevetti. Tuttavia in Italia la quota del ricercatore varia dal 30 a 50 per cento. Lo slogan berlusconiano invece prevede che il 100 per cento dei ricavi vada al ricercatore? I politici non hanno ancora dato una risposta precisa. Ma gli scienziati hanno le idee chiare: “bisogna comunque trovare un equilibrio fra chi affronta le spese della ricerca e chi ci mette l’ingegno, anche se va riconosciuto l’interesse non solo intellettuale ma anche materiale del ricercatore”, afferma Luciano Caglioti membro della commissione brevetti dell’Università La Sapienza di Roma e coordinatore di un progetto del Consiglio Nazionale delle Ricerche per la collaborazione tra ricerca scientifica e impresa. Gli fa eco Giuseppe Macino del Dipartimento di biotecnologie cellulari ed ematologia dell’Università “La Sapienza” di Roma, “l’università paga servizi e personale ed è giusto che gli si riconosca una parte degli eventuali ricavi”.

Pareri contrastanti invece sull’efficienza dell’ufficio brevetti. “Oggi i ricercatori spesso svolgono anche il lavoro che spetta agli uffici competenti: promuovono i brevetti e contattano le industrie che lo sfrutteranno. Gli uffici inoltre sono spesso formati da burocrati che non sono in grado di valutare le potenzialità di una ricerca ”, afferma Macino. Mentre ha un’opinione diversa Caglioti: “la commissione di esperti si assume il rischio di puntare su una ricerca piuttosto che un’altra. Inoltre l’ufficio aiuta il ricercatore a scrivere la domanda in modo corretto e si prende carico delle spese”.Ma la commissione brevetti è una realtà che appartiene soltanto alle università più organizzate. Che hanno riformato ruoli e funzionamento dell’ufficio brevetti. Un esempio è quello dell’Università di Pavia: “prima di prendere una decisione del genere, commissioniamo ricerche di mercato per capire se esistono studi analoghi nel mondo o se qualcuno ha già brevettato invenzioni simili in altri paesi”, spiega Francesca Negri dello sportello università-imprese. E aggiunge: “valutiamo questi elementi per decidere se investire o meno su un brevetto”. Dopo aver accolto il brevetto, l’ufficio si fa carico di tutte le spese e le trafile burocratiche necessarie per presentare, mantenere ed eventualmente estendere il brevetto (spese che possono arrivare anche a 100 milioni). Si tratta comunque di uffici riformati recentemente. Quando, cioè anche nell’Unione Europea si è compresa la necessità di concentrare l’attenzione sulla ricaduta economica delle invenzioni. Molte realtà pubbliche continuano però a vivere un paradosso: una ricerca di alto livello e un’applicazione scarsa.

La questione dei brevetti attende quindi una normativa chiara ed equa. Ma è davvero così importante da essere posta fra le priorità di governo? “Se lo sia in generale non spetta a me giudicarlo, certo nel campo della ricerca è una questione che va affrontata quanto prima, occorre fare chiarezza con l’adozione di regole chiare per tutti” va avanti Cancedda. “Comunque lo slogan mi sembra piuttosto semplicistico”. Soprattutto se è importante valorizzare le ricadute economiche della ricerca, non si può trascurare la ricerca di base. Una voce assente dal programma di riforma. “Adoperarsi solo per la ricerca applicata e non per quella di base sarebbe miope da parte dei politici”, conclude Cancedda. “Non si tratta infatti di due campi contrapposti, dove si fanno delle scoperte c’è anche una vivace ricerca di base. L’obiettivo deve essere quello di creare un meccanismo virtuoso per cui i finanziamenti ottenuti attraverso applicazioni potrebbero essere utilizzati anche per studi non finalizzati”.

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