Dio, un’ipotesi ingombrante

Nel ragionare dei rapporti tra scienza e fede, generalmente ci si sente in due posizioni assai diverse tra loro. C’è chi, particolarmente se non è credente, ritiene che possano “incontrarsi” -se si incontrano -su una qualche frontiera che delimita due domini ben separati; c’è chi, all’opposto, essendo credente, si preoccupa di conciliarne ogni proposizione in modo che condividano un qualche contenuto comune di “verità”. È evidente che la separazione in domini, nel primo caso, nasce da un forte sospetto di incompatibilità piuttosto che di complementarità; e il non-credente propende per una soluzione in cui si riconosca che il dominio della fede è, in realtà, vuoto, sebbene riempito di affermazioni umane di tipo suggestivo. Nel secondo caso, invece, la fede induce il credente a ritenere che essa sia la chiave interpretativa di ogni “verità”, dunque anche delle verità naturali, che sono viste come un sottoinsieme più vasto che include quello che, non a caso, è chiamato soprannaturale.

Gli atteggiamenti degli scienziati su questi problemi sono, almeno a prima vista, diversi; ma la distinzione non sembra passare tra credenti e non-credenti, Per esempio, il biologo François Jacob ha scritto (1): “Quel che ha reso possibile la scienza moderna è senza dubbio la struttura del mito giudaico cristiano, La scienza occidentale infatti è fondata sulla dottrina monistica di un universo ordinato, creato da un Dio che resta fuori della natura e la governa secondo leggi accessibili alla ragione umana”. Al contrario, il fisico Alan Cromer sostiene (2): “L’ebraismo, il cristianesimo e l’Islam sono religioni monoteistiche basate sugli insegnamenti dei profeti […]. Il pensiero scientifico non si è evoluto – e non poteva evolversi – dalla tradizione profetica del giudaismo e del cristianesimo; è derivato da una tradizione totalmente differente”. Devo ammettere che l’affermazione di Cromer mi è decisamente più congeniale, sulla scorta di altre fonti, anche se la frase di Jacob, su cui tornerò tra un momento, tolta dal contesto, non rende giustizia all’autore. Tra le fonti, importante mi sembra John William Draper che scriveva (3): “Il partito pagano […] sosteneva che la conoscenza va conseguita solo tramite l’uso solerte dell’osservazione e della ragione umane. Il partito cristiano sosteneva che ogni conoscenza va ricercata nella Scrittura e nelle tradizioni della Chiesa; e che, nella rivelazione scritta, Dio ci ha dotati non solo di un criterio di verità, ma ci ha anche muniti di tutto ciò che Egli voleva che noi conoscessimo. Perciò, la Scrittura contiene la totalità, il fine di ogni conoscenza. Il clero, spalleggiato dall’Impero, non avrebbe tollerato concorrenza intellettuale alcuna […]. [La Chiesa] divenne uno scoglio per il progresso intellettuale europeo per oltre un millennio”.

L’affermazione di Draper, ben presto rinforzata da argomenti ben illustrati da Aridrew Dickson White (4), viene vigorosamente contestata o ammorbidita da una pletora di studiosi o religiosi ma, dice Lindberg (5), “nell’opinione popolare la tesi Draper-White è ancora prevalente”. Che vi fossero difficoltà è innegabile. A me ha sempre fatto impressione un espediente retorico inventato quasi mille anni fa da Guillaume de Conches e ricordato da Pierre Duhem (6); è forse una delle migliori “definizioni” di quale sia la differenza tra aspirazioni della religione e aspirazioni della scienza: “So benissimo che Dio, se vuole, può fare nascere un vitello da un albero; a me però interessa sapere perché non lo ha mai fatto”. Con questo, posso tornare a Jacob. Uno dei problemi presenti nell’epistemologia ancora oggi è quello della natura metafisica dell’esistenza di leggi fisiche, cioè di un sistema coerente di regole interpretative dell’ordine naturale (7). Si dice che l’idea di ordine naturale e quindi dell’esistenza di leggi che lo regolano discenda dall’idea della creazione perfetta dovuta alla divinità. Naturalmente, si può bene obiettare che il rapporto leggi-divinità è affatto gratuito e che, come sarebbe piaciuto a David Hume, l’esistenza delle leggi è un dato empirico, come la ripetibilità dei fenomeni a parità di condizioni; perciò, non si può dire che Jacob creda nella concezione divina delle leggi ma solo che ne ricorda una certa compatibilità con le opinioni cristiane. Infatti, Jacob si affretta ad aggiungere (8): “Probabilmente, è un’esigenza della mente umana avere una rappresentazione del mondo unificata e coerente. Se manca, compare l’ansia e la schizofrenia. E bisogna pur riconoscere che in fatto di unità e di coerenza la spiegazione mitica vince di molto su quella scientifica. La scienza infatti non mira subito a una spiegazione completa e definitiva dell’universo […]. Si accontenta di risposte parziali o provvisorie. Magici, mitici o religiosi che siano, gli altri sistemi di spiegazioni invece abbracciano tutto, sono applicabili in ogni campo e danno conto dell’origine, del presente e persino del futuro dell’universo […] essi rispondono a ogni problema e risolvono ogni difficoltà con un unico e semplice argomento “a priori””.

Dunque, l’accusa al sistema di spiegazioni della religione è quella di banalità intellettuale; ma si tratta della stessa “banalità virtuosa” che è usata per fare passare principi morali che, in parte, sono regole di convivenza e in parte sono meri indicatori di controllo dell’obbedienza alla gerarchia ecclesiastica (le questioni patibile circa il sesso, l’osservanza dei riti, la confessione e la preghiera, ecc.). Non si capisce, perciò in che senso possa, essere mai stato vero (e oggi non più) ciò che afferma un teologo del rango di Joseph Ratzinger quando dice (9): “Rivolgendo lo sguardo indietro, possiamo dire che la forza che ha trasformato il cristianesimo in una religione mondiale è consistita nella sua sintesi tra ragione, fede e vita, è precisamente questa sintesi che è sintetizzata nell’espressione “religio vera”. E a maggior ragione si impone allora la domanda: perché questa sintesi non convince più oggi? Perché la razionalità e il cristianesimo sono, al contrario, considerati oggi contraddittori o addirittura reciprocamente esclusivi? Che cosa è cambiato nella razionalità? Che cosa è cambiato nel cristianesimo?”. Nel suo sorprendente procedere, la scienza va verso l’accumulo delle conoscenze sulla realtà naturale, delle quali non dichiarerà mai che sono “vere” ma solo “plausibili”, spesso “altamente plausibili”. La parola verità può essere usata solo in relazione alle strutture simboliche della matematica, nel qual caso sta a significare che il risultato è coerente, in corrispondenza uno a uno, con le premesse: quasi un gioco di tautologie, se non fosse che la forma in cui i risultati si presentano è così varia e ricca da offrire continuamente nuovi problemi.

La plausibilità prevede che tutti possano verificare, che i risultati siano trasparenti e non mostrino parti oscure o misteriose: questo genera un’etica speciale, tutta interna alla scienza, l’etica della credibilità (10). Uno scienziato che non documenti credibilmente i suoi risultati è immediatamente un reietto e sarà espulso dalla comunità. Queste parole, credibilità, plausibilità, evocano costantemente il dubbio e la natura assai concreta dell’indagine scientifica. Detto questo, cercare ragioni di fede nelle scienze della natura, per confronto con metafore anche reinterpretate ma conservate nella narrazione e nei catechismi, è, per la religione, non soltanto troppo difficile (salvo nelle argomentazioni rivolte agente di scarsa sensibilità e cultura), ma anche assai rischioso.

Ovviamente, la storia degli smacchi delle verità rivelate a fronte dei risultati delle scienze è tanto nota che, se non la si usa pesantemente nelle scuole e in ogni pubblica occasione per ridicolizzare il “sistema di spiegazioni” religioso è solo per un tradizionale fair-play dei laici, forse non del tutto immemori di passati rischi (Giordano Bruno, Galileo Galilei, per restare a due nomi centrali). C’è tuttavia un rigurgito recente in questa direzione, e viene dallo stretto ambito scientifico: il principio antropico, secondo il quale l’universo che conosciamo per esperienza diretta è il solo compatibile con l’esistenza dell’intelligenza umana, il che ripropone il “progetto”, la “finalità”, quindi il superiore progettista, Dio. Tuttavia, John D. Barrow, uno degli autori (11) dei principio, è categorico nel rifiutare questo uso: ”… le coincidenze antropiche forti non possono costituire la base di una persuasiva argomentazione a favore dell’esistenza di Dio che parta dall’apparente progetto antropocentrico dell’universo”.

In ultima analisi, il principio antropico non “dimostra” oggi che esiste Dio più di quanto lo facessero le eleganti leggi all’epoca di Newton, a meno di non sottolineare daccapo narcisticamente che l’uomo è lo scopo del creato (12). Più sottile può apparire il tentativo di affidare la verità alla logica simbolica o a sue parafrasi metaforiche, la dimostrazione dell’esistenza di Dio con un argomento che consenta l’identificazione degli elementi che fanno da supporto a una conclusione del tipo vero/falso. Ma di prove ontologiche è stato già detto tutto quello che si poteva dire e ripetere gli argomenti che le rendono non credibili è assolutamente superfluo oltreché noioso. Piuttosto, io credo che gli atei, in questo, se la potrebbero passare male per un motivo che sinora non mi è capitato di incontrare nella letteratura (13) ma che mi sembra assai interessante, una specie di quelli che i miei colleghi chiamano “no-go theorems”. Penso che non esista possibile dimostrazione della non esistenza di una cosa che non esiste. Già così, suona vagamente antinomica. Forse assomiglia al paradosso di Hempel sui corvi (14) (“Tutti gli oggetti non neri non sono corvi” non prova induttivamente che “Tutti i corvi sono neri”). Si potrebbe dare un esercizio per studenti di filosofia: “Dimostrare che non esiste il re degli Elfi”, ecc. Dunque, se un interlocutore credente mi dice che crede per fede nell’esistenza di Dio e che questo lo esonera da ogni dimostrazione a mio uso, sono alla paralisi; non ho niente da dimostrargli a mio modo. Ovvero, posso piantarlo in asso, rompere i rapporti con lui, il che potrebbe spiacermi per altri motivi; meglio di tutto sarebbe fare un accordo, quello di regolare ogni nostro problema etsi deus non daretur, il che potrebbe essere da lui accettato se veramente sentisse che Dio guida comunque la sua coscienza anche quando non tenta di usarlo con me come principio regolatore (ma dubito che i credenti engagés siano così discreti). Bisognerebbe comunque insistere sul fatto che il concetto di “esistenza” ha un chiaro significato solo in relazione a realtà finite, che hanno in comune cioè il concetto concreto di finitezza, quasi un certificato d’esistenza.

La pervasività universale non è un buon punto di partenza per l’identificazione: come nel principio di Pierre Curie secondo il quale solo le simmetrie rotte sono osservabili (15). Lo sanno persino i poeti come Robert Frost che ha scritto: Stai cercando, caro Joe, / Cose che non esistono. / Intendo gli inizi./ La fine e l’inizio./ Fine e inizio: non esistono / cose del genere / Esiste solo ciò che è in mezzo.

Essendomi occupato di fisica per tutta la vita, ho accumulato motivi forti per non credere e per sentirmi laico senza incertezze. Ma so che la laicità è un fatto personale, è solitudine; che non impedisce di avere salde regole di convivenza, magari attribuendole a qualche forma di altruismo sociobiologico di cui già si parla e su cui varrebbe la pena di riflettere. Dunque, parlare di laicità serve a poco. Ma questo non corrisponde a totale indifferenza verso le incursioni delle religioni nei propri campi di interesse. Verso la pretesa di introdursi nelle scuole e di “indottrinare i minori non in grado di intendere e di volere”; verso le difficoltà psicologiche create con la confusione tra colpa e peccato, specie nei problemi del sesso; verso gli anatemi su settori di ricerca (biotecnologie, per esempio) assai delicati; verso la copertura offerta a prelati che contravvengono alle leggi del paese che li ospita; verso l’indulgente atteggiamento nelle manifestazioni più assurde della superstizione popolare; verso le discriminazioni tra chi crede echi non crede in tanti settori della vita pubblica. In parole povere, sono convinto del fatto che, oggi, non serva dichiararsi laico, ma sia indispensabile dichiararsi anticlericale. È un po’ come una dichiarazione di resistenza a un invasore; cioè, a un potere estraneo e non generalmente condiviso, l’ultima manifestazione indisturbata di autoritarismo al mondo; e gli estremismi dominanti, per esempio, in Iran o in Afganistan, non fanno altro che esemplificare di che cosa sarebbe capace ogni sistema religioso monoteista governato da sacerdoti se non fosse tenuto a bada da forze progressiste nei paesi sviluppati. Alla formazione della mentalità libera di queste forze, che includono fortunatamente molti credenti, ha certamente contribuito il pensiero scientifico nel suo sviluppo storico, ahimé, ancora recente: non contrapposto ma, essenzialmente, indifferente. Si invera così nella pratica la risposta di Pierre Sirnon de Laplace a Napoleone che lo interrogava commentando il suo Exposition du système du monde: “Dio? non abbiamo bisogno di questa ipotesi”.

BIBLIOGRAFIA

1) Jaccob F., Il gioco dei possibili, Mondadori, 1983, p. 22.

2) Cromer A., L ‘eresia della scienza, R. Cortina, 1996, pp. 99-100.

3) Draper J. W., History of the Conflict between Religion and Science, King H.S., 1876; citato da LINDBERG D.C. in Dio e Natura, a cura di LINDBERG D.C. e NUMBERS R.L, La Nuova Italia, 1994, pp. 1-2.

4) WHITE A.D., A History of the Warfare of Science with Religion in Christendom, D. Appleton & C., 1876; in italiano a cura di PERONI G., Storia della Lotta della scienza con la teologia nella Cristianità, Utet, 1902.

5) LINDBERG D.C., cit. nota 3), p. 3.

6) Duhem P., Le système du monde, tomo III, Hermann, 1958; cf. anche Thuillier P., “La “revolution scientifique” du XII siècle”, La Recherche, n. 136, 1982.

7) BERNARDINI C., Il non fisico della fisica, in Aa. Vv., Il mondo nascosto, Laterza, 1997.

8) Jacob F., cit. nota (1), pp. 22-23.

9) RATZINGER J., “La verità cattolica”, Micromega, 2/2000, p.

10) BERNARDINI C., Limiti soltanto d’uso, in Scienza e etica. Quali limiti?, a cura di Jader Jacobelli, Laterza 1990.

11) BARROW J. D., TIPLER F. J., The Anthropic Cosmological Principle, Oxford U.P., 1986.

12) Vedi anche però: MURATORE S. J., L ‘evoluzione cosmologico e il problema di Dio, Ed. AVE, 1993.

13) Ma vedi BARROW J. D., Il mondo dentro il mondo, Adelphi, 1993.

14) M. GARDNER, Ah, ci sono!, Zanichelli, 1987, pp. 192-193.

15) WIGNER E. P., HOUTAPPEL R. M. F., DAM H. VAN, The Conceptual Basis and Use of the Geometric Invariance Principles, Review of Modern Physics, voI. 37, n. 4, 1965.

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here