Categorie: Società

Disabilità: la solitudine dei genitori

Michela Capone
Quando impari ad allacciarti le scarpe
Carlo Delfino Editore, pp. 184, euro 20,00

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Non è facile trovare le parole per esprimere i sentimenti di chi ha un figlio disabile. Ancor meno lo è trasmetterli. Michela Capone ci è riuscita, regalandoci un libro che si legge d’un fiato e con il cuore in trepidazione. “Quando impari ad allacciarti le scarpe morirò di gioia”. Cosi l’autrice sottolinea che nella crescita di un disabile nulla può essere dato per scontato e anche ciò che sembra un microscopico passo in avanti è in realtà il frutto di faticose conquiste e la fonte di una gratificazione profonda.

Michela è la madre orgogliosa di due figlie, Paola e Francesca; è una professionista affermata e una moglie felice. Fino a quando non decide di provare l’ebbrezza di una terza gravidanza. Allora nasce Marco, che fin da neonato presenta i sintomi di un male non precisato. Hanno così inizio le trasferte e i pellegrinaggi per capire di cosa soffra e come sia possibile curarlo. Man mano che il bambino cresce i sintomi diventano più evidenti e nei genitori si fa strada la consapevolezza che il figlio non sarà mai come gli altri. Michela e suo marito Francesco sprofondano a poco a poco in una solitudine senza scampo. Eppure sono pieni di risorse: lui medico, lei avvocato, si amano alla follia e potrebbero contare sull’aiuto di amici e parenti. Il punto è che quando si è genitori di un disabile si è inevitabilmente soli, perché si provano delle sensazioni che non si possono capire se non sperimentandole in prima persona. La magia di questo libro sta proprio qui: nella capacità di farci passare attraverso delle emozioni difficili da capire ed impossibili da spiegare. Ogni frase è il condensato di stati d’animo e situazioni che ci vengono restituiti in tutta la loro vibrante concretezza.
      
L’autrice ripercorre in forma diaristica i dodici anni – dal 1997 al 2009 – che ha vissuto da quando è nato Marco, raccontandoci tutte le umiliazioni, i sensi di colpa, le trafile burocratiche e le delusioni cui è andata incontro. Una narrazione corale, la sua, che ci permette di sentire le voci in campo anche di chi non prende parte alla scrittura, come le sorelle e il padre di Marco, portando cosi allo scoperto una girandola di sensazioni e vissuti che troppo spesso sono destinati a rimanere nell’ombra. Il racconto è intercalato da lettere in corsivo che l’autrice rivolge alle figlie, alla sorella, e agli amici in particolari occasioni, e che assumono il tono di una confessione. Raccontando le sue esperienze con medici, terapisti, insegnanti, genitori di altri bambini, l’autrice invita a riflettere su quanto poco il nostro mondo sia preparato ad accogliere un bambino disabile e sulle mille difficoltà che si trovano a dover affrontare le famiglie. 

L’ignoranza e l’insensibilità arrivano a pesare più dell’handicap. Manca del tutto, specie alle nostre latitudini, una cultura della disabilità, che, se presente, aiuterebbe sicuramente chi già soffre ad avere un’esistenza più serena. Succede invece spesso che nelle scuole, che dovrebbero essere i capisaldi dell’integrazione, i dirigenti non vedano di buon occhio la presenza di questi bambini, e che le baby sitter preferiscano stipendi più bassi piuttosto che ritrovarsi alle prese con l’handicap. Per non parlare poi di chi sulla disabilità specula, e non sono in pochi. A tutto ciò c’è poi da aggiungere, come aspetto certo non secondario, il travaglio interiore che accompagna i passi da compiere e le decisioni da prendere. Per esempio, è giusto somministrare dei farmaci per frenare l’esuberanza di un bambino? E fino a che punto è lecito pretendere la comprensione degli amici? A tutte queste questioni fa da sfondo un senso di colpa martellante, che non ha basi razionali ma che tuttavia sembra non poter essere aggirato.

Nonostante il dolore e i problemi pratici, crescere un figlio disabile significa anche avere delle gioie e delle soddisfazioni particolarmente grandi. Cosi il diario di Michela è anche la testimonianza di uno straordinario percorso di crescita e di evoluzione personale. Un libro crudo e intenso, che, pur dolente, non ha nulla di lacrimoso e che non chiede pietà. Un libro che fa ascoltare una voce che fino a ora non era mai apparsa, o che si era rifugiata ai margini, e che finalmente ha avuto il coraggio di emergere con tutta la sincerità di un racconto autobiografico. Credo sia pertanto doveroso un grazie all’autrice da parte di chi, come la sottoscritta, ha vissuto sulla propria pelle il dramma di un handicap in famiglia. Buona lettura a tutti.

Luisa de Paula

Giornalista pubblicista, filosofa e counsellor, ha vissuto e studiato tra Roma, Urbino, Milano, Londra, Parigi e New York. Attualmente collabora con Sapere e Galileo e lavora a un dottorato di ricerca sull'intenzionalità nel sogno.

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