Domande e risposte

Perché un libro sul cancro del seno?

Per almeno quattro ragioni. Quattro buone ragioni legate tra loro. Primo, è il cancro più comune tra le donne italiane. Secondo, è un avversario potenzialmente pericoloso. È la principale causa di morte nelle donne tra 35 e 54 anni e di morte per tumore nell’universo femminile. Terzo, se si arriva presto alla diagnosi e se il cancro è curato bene, 9 donne su 10 sopravvivono 5 anni e 7-8 superano la soglia dei 20.

Ecco perché abbiamo detto “potenzialmente pericoloso”. Possiamo infliggere danni ingenti a questo nemico, in particolare se non ha modo di organizzare le truppe. Arrivare presto significa riconoscerlo quando è piccolo, più o meno di 2 centimetri, e non è andato oltre la mammella. Quarto, c’è bisogno di un’informazione più diffusa e più efficace. Paura e disinformazione sono una miscela pericolosa. Troppo spesso la donna chiede aiuto in ritardo perché ha paura della malattia e di cure che considera mutilazioni insopportabili. Troppo spesso non sa cosa si può fare contro la malattia senza offendere il suo corpo. Le donne devono avere un quadro chiaro di cos’hanno da guadagnare o da perdere a perder tempo. È vero che spesso non c’è rapporto tra quanto sappiamo e facciamo, ma è indispensabile che le donne prima di tutto sappiano. Sarà un motivo in più per fare.

Quanto è comune tra le donne italiane e nel mondo?

In Italia ogni anno colpisce più di 31 mila donne e fa più di 11 mila vittime. Molte più del secondo cancro più comune, quello del colon che colpisce 18 mila donne l’anno con 9 mila vittime. Le regioni settentrionali pagano un tributo più alto di vittime rispetto a quelle meridionali. La differenza è stata messa in relazione col stili di vita e alimentazioni diverse e col fatto che le donne meridionali tendono ad avere più figli.

Nel mondo, non è diffuso nello stesso modo e in base alla frequenza si possono riconoscere quattro zone. La prima, col rischio più alto, è il Nord America, la seconda comprende l’Australia e l’Europa occidentale, la terza, che ha un rischio dimezzato rispetto alla prima, comprende l’America centrale e meridionale e i paesi dell’Est europeo, mentre in Asia e in Africa il cancro del seno ha una frequenza medio-bassa. Il Giappone è l’unico paese industrializzato dove la malattia è relativamente poco diffuso. D’altra parte, a seguire le sorti delle giapponesi emigrate negli Stati Uniti, si scopre che in poche generazioni le loro discendenti perdono la loro relativa inviolabilità. Anche queste cifre suggeriscono che i fattori ambientali, per esempio le diverse abitudini alimentari e di vita, hanno un ruolo importante nella malattia. Persino nella sua cura, almeno in Europa, visto che una donna svizzera ha l’80 per cento di probabilità di sopravvivere 5 anni, una inglese meno di 65.

Perché è così importante che l’oncologo sia aggiornato e che la cura inizi subito?

Curare al meglio il cancro richiede medici informati e preparati e centri specializzati. E questo non sorprende perché in oncologia gli strumenti di diagnosi e cura cambiano di continuo, hanno un metabolismo accelerato. Più che in altri settori della medicina gli studi e le ricerche non fanno che proporre novità, non sempre gradite tra l’altro, e non è facile per il medico mantenersi all’altezza della situazione. Le donne inglesi, per esempio, hanno pagato un prezzo più alto di quelle italiane perché per un certo periodo non è stata data la giusta importanza a questo aspetto. Nel 1985 la sopravvivenza a cinque anni per le donne malate di cancro del seno era del 72 per cento tra le italiane e del 62 tra le inglesi, 10 punti in meno. Non solo, il risultato era molto diverso da un ospedale all’altro, da un medico all’altro.

Gli inglesi hanno cercato una spiegazione e la loro amara scoperta è stata che le donne inglesi non ricevevano sempre le cure migliori. Perché? Perché c’era un deficit d’informazione: i medici inglesi non ricorrevano sempre alle cure più efficaci. Per questo il Servizio sanitario nazionale britannico è corso ai ripari e ha commissionato la pubblicazione di una specie di codice di comportamento curativo per i medici, un manuale aggiornato di continuo tra l’altro. È un caso suggestivo di quant’è importante che il medico e la donna facciano di tutto per ottenere i risultati migliori in base alle conoscenze disponibili.

E a proposito di quanto sia utile un intervento curativo tempestivo, l’espressione “diagnosi precoce” non sarà mai ripetuta abbastanza. Il suo scopo è scoprire il cancro il prima possibile perché prima s’interviene, più aumentano le possibilità di successo. La donna con un cancro largo 2 centimetri e mezzo localizzato solo al seno è in una condizione molto diversa da un’altra con un cancro più grosso e che si è già disseminato nel corpo, alle ghiandole innanzitutto e magari allo scheletro. Non che in questo secondo caso non ci sia più nulla da fare, intendiamoci. Cambiano le probabilità di successo però e cambiano molto. Facciamo sempre il caso di persone che vengono curate presto e bene. Se il cancro è largo 2 centimetri e non ha toccato nessun organo esterno, le probabilità di sopravvivenza a 5 anni sono del 92 per cento. Se il cancro è largo 5 centimetri e ha iniziato a colonizzare le ghiandole linfatiche, scendono all’82 per cento. Ma se il cancro è molto più grande ed è arrivato in organi distanti allora la donna ha 14 probabilità su 100 di sopravvivere 5 anni.

Dunque, a seconda di quanto è avanzato il cancro del seno, la sopravvivenza a 5 anni scende dal 92 al 14 per cento. Il messaggio sembra: guai a perdere tempo.

Certo. È sbagliato restare sconfortate dal caso tragico di questa o quella donna morta per la malattia. Le 11.000 vittime annuali tra le donne italiane sono anche l’epilogo triste di scoperte tardive. Molte morti non ci sarebbero state con un intervento precoce. Se ogni volta si potesse iniziare la cura presto, quando il cancro ha meno di 2 centimetri le vittime sarebbero molte, molte meno. Ecco perché è importante controllarsi di continuo e farsi controllare periodicamente.

Non ci si può far vincere dalla paura del “male incurabile”, dall’immagine di una malattia con cui la partita è persa. La saggista Susan Sontag lo ha scritto bene nel suo libro “Malattia come metafora”. “Avevo constatato più di una volta – scrive – che le bardature metaforiche che deformano l’esperienza dell’essere malati di cancro hanno conseguenze reali: impediscono ai malati di cercare la terapia con tempestività o di fare uno sforzo maggiore per sottoporsi a una terapia adeguata. Le metafore e i miti, ne ero convinta, uccidono…”.

Perché sentiamo parlare solo di sopravvivenza a 5 anni? Le donne con cancro al seno hanno la possibilità di guarire?

È difficile dire a una donna malata cosa le accadrà dopo 10 o 20 anni, anche quando il cancro è molto piccolo. E questo perché diversamente da altri tumori maligni, per esempio dal cancro del polmone, quello del seno tende di per sé a crescere con lentezza. È un punto importante questo, per varie ragioni. Innanzitutto perché per vedere se una certa cura funziona e ottiene dei risultati – che sia una tradizionale o quella Di Bella non fa differenza – bisogna confrontare i risultati con ciò che sarebbe successo se la malattia avesse seguito il suo corso naturale. Per esempio, se con una certa terapia 18 donne su cento con cancro al seno dovessero sopravvivere 5 anni e 4 arrivare a 10, per chi propone la cura sarebbe un mezzo fallimento. Già nel secolo scorso i medici del Middlesex Hospital di Londra inglese avevano dimostrato che questo era proprio ciò che succede senza far nulla. Può darsi che altre ricerche otterrebbero numeri un po’ diversi, ma la sostanza non cambia: senza far niente quasi una donna su 5 vive 5 anni e qualcuna arriva persino a 10.

La ragione è che il cancro del seno ha una crescita lenta, anche molto lenta. E, per essere efficaci le cure debbono riuscire a far meglio, o allungando la sopravvivenza o col garantire questo traguardo a una percentuale più elevata di donne. Per gli studiosi tutto ciò è un problema, naturalmente, perché non è facile condurre ricerche che seguano poniamo per 10 o 20 anni un numero significativo di donne, con controlli periodici. Ne sono state condotte, comunque, da studiosi del centro statunitense di ricerche Sloan-Kettering Cancer Center. 382 donne con un cancro di 2 centimetri o più piccolo limitato al seno sono state seguite per quasi 20 anni. Risultato, l’80 per cento di quelle col tumore largo 1 centimetro continuavano a non aver segni della malattia, mentre la percentuale scendeva al 70 per cento per le altre, quelle col tumore grande da 1 a due centimetri.

Come mai una malattia così curabile è così diffusa? Non è una contraddizione?

No, non lo è. Qualche esempio? La cosiddetta paralisi infantile, la polio, continua a essere una malattia incurabile, ma è scomparsa, almeno nei Paesi ricchi. La ragione è che abbiamo scoperto uno splendido strumento di prevenzione, il vaccino. Il cancro dello stomaco è molto meno frequente di qualche anno fa, probabilmente perché è cambiato qualcosa nella nostra alimentazione. Attenzione a non confondere la curabilità del cancro con la possibilità di prevenirlo o con la sua frequenza. La curabilità riguarda la possibilità che le persone malate vivano più a lungo o guariscano. La prevenzione punta a evitare che ci si ammali. La diffusione di una malattia, infine, dipende dal numero delle persone a rischio innanzitutto. Non è detto che le tre viaggino in parallelo.

Ecco perché si misurano i risultati contro il cancro in più modi. Uno è seguire se aumenta o diminuisce il numero di quanti si ammalano, un altro è se cambia il numero delle persone che muoiono, un terzo è vedere quanto si vive in media dopo la diagnosi. Si tratta di angoli visuali, di prospettive diverse e a seconda di quale si utilizza, dati e statistiche possono dare impressioni diverse. Per esempio, gli oncologi, i medici specialisti del cancro, sottolineano spesso che il loro primo scopo è l’allungamento della sopravvivenza libera da malattia, anche se puntano alla guarigione naturalmente. Gli epidemiologi, invece, che studiano il fenomeno in termini globali, puntano a ridurre il numero di quanti si ammalano. I primi pensano innanzitutto alle terapie, i secondi anche alle misure di prevenzione. La relativa soddisfazione di un oncologo dunque può convivere con la frustrazione di un epidemiologo.

Una cosa dev’essere chiara quindi. La curabilità di una malattia è legata all’applicazione delle cure più efficaci e alla scoperta di altre nuove. È innanzitutto nelle mani dei medici. La prevenzione mira a eliminare ciò che favorisce l’insorgere della malattia ed è un po’ nelle mani di tutti noi, non solo dei camici bianchi. Per prevenire una malattia, a seconda dei casi serve modificare le abitudini alimentari, bonificare gli ambienti di lavoro, cancellare uno stile di vita e così via. Questa del resto è una legge generale della prevenzione delle malattie, una legge che costa fatica e soldi. Ecco perché lo studioso inglese Geoffrey Rose ha osservato che “le decisioni che più condizionano la salute di una nazione non sono prese nelle stanze del ministero della sanità, ma in quelle dei dicasteri dell’ambiente, dell’istruzione, del lavoro e, specialmente, del ministero del Tesoro”.

Su cosa puntare allora, sulla prevenzione o sulla cura?

Anche se sono due facce del problema c’è una discussione continua tra le due comunità di esperti, gli oncologi e gli epidemiologi. Del resto non è la prima volta che si confrontano i seguaci delle due prospettive, preventiva e curativa, l’una rivolta a tutelare la comunità dei sani, l’altra a farsi carico della singola persona malata. La ragione è innanzitutto una: non ci sono soldi per tutti. Le risorse economiche sono limitate e servono scelte di politica sanitaria per distribuirle.

In genere i ministri della Sanità sono restii a tagliare i fondi all’assistenza utile alle persone, cioè alla cura, per indirizzarla verso obbiettivi di medio-lungo periodo utili alla comunità, cioè alla prevenzione. E questo per varie ragioni. Per esempio, perché i successi della prevenzione sono variazioni percentuali in questa o quella tabella e non “casi umani toccanti” come si usa dire nei talk-show. Mentre non nascerà mai l’”Associazione dei Sani Risparmiati dalla Malattia”, ci sono associazioni e movimenti di malati che cercano di far sentire la loro voce, giustamente peraltro, come fa il movimento Europa Donna nel caso del cancro del seno.

Facciamo un esempio di questo conflitto singolo-comunità e delle sue possibili conseguenze. Con una cifra si può pagare a una donna col cancro in fase avanzata una cura sperimentale o finanziare per 10 anni le mammografie a 150 donne tra 50 e 60 anni. Nel primo caso il risultato sarebbe un anno e mezzo di vita, nel secondo 12 anni-vita nell’insieme, un risultato otto volte migliore. Che fare in casi come questo? Per fortuna, la lotta al cancro del seno non vede solo conflitti del genere, guerre tra malate e donne che potrebbero diventarlo. Ci sono quasi sempre due tavoli di lavoro, uno dove si discute come curare la malattia e uno dove si parla di come prevenirla. Forse l’unica domanda che resta lì, muta e inquietante, è se si è fatto tutto il possibile sulla prevenzione.

Possiamo tentare una prima conclusione?

Lo scenario del cancro del seno è cambiato. Abbiamo tecniche e mezzi per identificarlo prima, strumenti per intervenire meglio, con più efficacia e sono stati fatti avanti anche sul fronte della prevenzione perché sappiamo che l’abitudine di fare o non fare certe cose aumenta il rischio che la donne si ammali. Si è persino visto che l’uso di certe sostanze riduce le probabilità della malattia, scoperta che ha fatto coniare l’espressione chemioprevenzione, la prevenzione con sostanze chimiche.

In sintesi, la differenza tra curarsi e non curarsi, tra vivere anni con un sospetto o andare subito dal medico è tutta qui: almeno tra le donne con i tumori più piccoli più del 90 per cento muore dopo 10 anni senza cura e più del 90 per cento vive dopo 20 anni con la cura. Risultati del genere fanno dell’espressione “male incurabile” solo un millantato debito. A proposito della guaribilità poi una conclusione serena è quella di due studiosi statunitense: “Dato che parliamo di una malattia che inizia in genere nelle donne di mezza età e che cresce in modo lento è difficile dimostrare che sia guaribile. È chiaro comunque che una percentuale considerevole delle donne curate, in particolare se sono curate presto, vive la loro vita senza che la malattia si faccia più viva”.

Qualcuno ha detto: “Se ti ammali non chiamare il medico: troveresti due malattie”. Molte volte è così, ma nel nostro caso la frase andrebbe riscritta: se hai qualche sospetto, sbrigati ad andare dal medico. Rischi di perdere un’opportunità.

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