Ebola, Africa. Dopo la terribile epidemia, la più grande che la storia ricordi, avvenuta tra il 2014 e il 2016, ebola torna a far paura in Africa. A essere colpita stavolta è la Repubblica democratica del Congo (Drc), dove al 17 maggio si contano 20 casi sospetti e tre morti. La zona colpita è quella intorno a Likati, nella provincia di Bas Uele nel Nord del paese, ricorda l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Proprio lì dove il virus che causa la malattia venne identificato per la prima volta, nel 1976.
Il virus
Ebola è un virus appartenente alla famiglia delle Filoviridae, causa di una febbre emorragica. I sintomi più comuni sono mal di testa, dolori muscolari, fatica, diarrea, vomito, debolezza diffuso, febbre e sanguinamenti, interni ed esterni, e possono comparire da 2 a 21 giorni dopo il contatto con il virus. L’infezione si trasmette – da uomo a uomo – attraverso il contatto con sangue e secrezioni biologiche di una persona infetta (come urina, saliva, feci, sudore, latte materno, vomito, e sperma) e tramite contatto con superfici e oggetti contaminati da questi.
Da qui il virus può infettare una nuova persona insinuandosi attraverso le mucose (come quella bocca) o passando attraverso ferite nella pelle. L’infettività però, ricordano dall’Oms, compare in concomitanza dei sintomi. A sua volta, nell’uomo, il virus arriva tramite contatto con fluidi di animali infetti, come i pipistrelli della frutta, ritenuti gli ospiti naturali, o le scimmie.
Spesso a catalizzare la diffusione del virus sono le pratiche e le tradizioni delle zone in cui le epidemie si sono avvenute, come il contatto con il corpo dei defunti durante le cerimonie di sepoltura, o la caccia ai pipistrelli come fonte di cibo. Noto dagli anni Settanta, tra il 2014 e il 2016 il virus è stato responsabile della più grande epidemia di ebola mai registrata, che ha causato oltre 11mila morti.
Quella attuale di ebola in Drc non è un’epidemia quanto più propriamente un focolaio delle febbre emorragica, di cui è possibile rintracciare l’origine in un uomo sulla quarantina, che il 22 aprile si è presentato alle strutture sanitarie locali con febbre, vomito, debolezza, fatica estrema e sanguinamenti dal naso, e nei fluidi biologici (diarrea e urina). Sintomi che rientrano tra quelli di un’infezione virale da ebola virus sebbene non esclusivi del virus e che possono essere confusi con quelli di altre infezioni e patologie.
La conferma che nella zona si fosse di fronte a un focolaio di ebola è arrivata solo parecchi giorni dopo, anche in seguito al contagio di altre due persone che avevano soccorso e aiutato a trasportare quel primo caso. L’analisi di alcuni campioni di sangue analizzati presso l’Institut National de Recherche Biomédicale di Kinshasa – una zona lontana e difficile da raggiungere da Likati – ha confermato che due dei cinque campioni sottoposti a esami erano effettivamente presente ebola, sottotipo Zaire. Una conferma arrivata solo l’11 maggio, una ventina di giorni dopo la segnalazione del primo paziente.
Al momento, quando le persone venute in stretto contatto con il virus sono almeno 416, per l’Oms il rischio è graduale man mano che dalla zona colpita si allarga lo sguardo: elevato per il paese, moderato per la regione, basso a livello globale.
La memoria però dell’ultima epidemia di ebola è recente, troppo per dimenticare quanto possa essere fatale e pericolosa la diffusione del virus. La mobilitazione e la collaborazione delle autorità locali, degli esperti dell’Oms e di partner, come Medici senza frontiere, sono già partite. Ma a dispetto della precedente epidemia qualcosa oggi, sul fronte delle armi contro ebola, è cambiato, tanto da poter immaginare di cambiare anche la storia di questo focolaio e di possibili epidemie. Accanto alle strategie di sorveglianza, follow up, prevenzione e comunicazione del rischio, la vaccinazione potrebbe essere una delle strategie chiave per cambiare il decorso delle infezioni.
Lo scorso dicembre, infatti, arrivava la notizia di un vaccino sperimentale altamente efficace nel combattere ebola come mostrava uno studio condotto in Guinea su oltre 11mila persone durante l’epidemia. Il vaccino in questione, rVSV-ZEBOV (Merck), aveva mostrato alta efficacia in un sistema di vaccinazione ad anello (in cui si vaccinano le persone che sono state a contatto, intorno al soggetto infetto, allargando poi l’anello) a 10 giorni dalla somministrazione. Risultati che avevano portato gli esperti ad ammettere che – sebbene tardi per l’epidemia di allora e tra gli studi ancora in corso – lo sviluppo di un vaccino avrebbe permesso di non presentarsi indifesi al riemergere delle infezioni.
“Il vaccino esiste, così come le motivazioni per utilizzarlo”, spiega a Wired.it Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dell’Istituto nazionale per le malattie infettive Lazzaro Spallanzani,“Sono state spese ingenti risorse per lo sviluppo del vaccino e i dati che abbiamo suggeriscono che questa sia l’occasione buona per utilizzarlo, per capire se nel reale, agli inizi, funziona. Dobbiamo mettere insieme tutte le armi che abbiamo per evitare il più possibili lungaggini”. L’isolamento, il confinamento, servono continua Ippolito, ma non possono essere le uniche strategie per combattere ebola. “È vero”, riprende Ippolito, “che al momento il virus è riemerso in villaggi remoti, difficili da raggiungere, ma non possiamo affermare che se nasce in una zona remota siamo al sicuro: il fuoco, anche se nascosto, continua a covare”.
I pareri se e come utilizzare il vaccino trovano spazio perché al momento il vaccino non è ancora autorizzato e prima di procedere all’eventuale somministrazione, riferisce Science News, all’Oms si sta provvedendo cercando di descrivere meglio il focolaio, cercando al contempo la forma giuridica ed etica più opportuna per renderlo semmai disponibile, come conferma anche Ippolito. Solo il mese scorso, i membri dello Strategic Advisory Group of Experts on Immunization (Sage) dell’Oms dichiaravano che, se un focolaio di ebola fosse comparso prima dell’arrivo di autorizzazione per i vaccini in fase di studio, il vaccino in questione avrebbe dovuto “essere prontamente distribuito in modalità Expaded Access, con consenso informato e secondo le Good Clinical Practice”, e secondo la strategia ad anello usato in Guinea. Secondo alcune voci le operazioni preliminari per l’eventuale somministrazione del vaccino sarebbero in corso per assicurare tempestività d’azione, anche tenendo in considerazione le difficoltà logistiche, legate all’isolamento dei luoghi interessati. Nel mentre Gavi, l’ente per l’alleanza globale per i vaccini e le immunizzazioni, ha fatto sapere che ci sono già 300 mila dosi di vaccino pronte per essere utilizzate nel caso si decidesse di farlo. Ma la decisione spetta alle autorità.
Via: Wired.it