Ecco gli specialisti della complessità

È opportuno parlare della didattica delle scienze ambientali? Prima di tentare la risposta a questa domanda che potrebbe essere mal posta, proviamo a formulare altre domande che troveranno sicuramente risposta.

Le domande un po’ scontate. La prima domanda è: cosa caratterizza la didattica delle scienze ambientali? A mio parere ciò che più la caratterizza è di essere un insegnamento scientifico, cioè di fare del metodo scientifico il proprio fondamento metodologico e della conoscenza della natura il proprio obiettivo primario. È un’ovvietà, ma vale la pena sottolinearlo oggi proprio per le scienze ambientali. Oggi che “bio” ed “eco” vanno per la maggiore e si trovano come prefissi per quasi ogni possibile attività e prodotto umani, che “elettrosmog” e OGM sono i fantasmi cattivi, al pari di Bin Laden, della pubblicità e dei comizi politici. Tra i pochi fondamenti della conoscenza scientifica che siamo chiamati a insegnare è bene ricordare almeno che la democrazia non ha campo in materia scientifica: il parere della maggioranza è irrilevante se contraddetto dai dati sperimentali. Come corollario segue che la ricerca del consenso non fa parte del dibattito scientifico e del suo insegnamento.

La seconda domanda è: chi vogliamo formare insegnando le scienze ambientali? La risposta è scontata: uno scienziato dell’ambiente. Non un generico competente di ambiente, chiamato a valorizzarlo, o a venderlo, o a sfruttarlo. Né un architetto o un ingegnere dell’ambiente, che hanno il compito di trasformarlo per conseguire determinate finalità. Ma un esperto in grado di ottenere dall’ambiente dati sperimentali adeguati, di validarli, di comprenderli attraverso modelli interpretativi flessibili, di proporre soluzioni anche innovative alle problematiche ambientali, di produrre nuove conoscenze che permettano di migliorare l’ambiente.La domanda iniziale è quindi forse davvero mal posta. La didattica delle scienze è ambientale per definizione perché la natura è l’ambiente in cui siamo immersi. Se avremo formato dei validi scienziati avremo anche iniziato a formare dei validi ambientalisti. Ma questa è solo una parte della storia.

La domanda giusta. Allora potremmo chiederci: c’è qualcosa di specifico nei problemi dell’ambiente che può rendere specifica la didattica delle scienze ambientali all’interno della didattica scientifica? Di specifico c’è la complessità, che è la massima possibile per una problematica scientifica.Per definizione l’ambiente è “lo spazio circostante considerato con tutte o con la maggior parte delle sue caratteristiche” [1] o, se vogliamo è l’insieme, delimitato nello spazio e nel tempo, di tutte le componenti di un sistema naturale in relazione biunivoca tra di loro e tra di loro mescolate. Ognuna di queste componenti è, di per se, un sistema complesso. Complesse sono le rocce e i terreni, gli inquinanti e le loro trasformazioni chimiche.

Estremamente complessi sono gli organismi viventi. Una complessità di complessi, dunque, che non è riconducibile alla somma di ciascuno dei componenti per via della reciproca interazione. Pertanto, lo studio e l’insegnamento della scienza dell’ambiente sono necessariamente qualcosa di più che l’insegnamento e lo studio delle varie discipline che si occupano degli specifici aspetti che con l’ambiente hanno a che fare.Sembrerebbe quindi che l’unica possibilità di studio scientifico dell’ambiente sia quello che lo considera nella sua globalità e minimizza l’apporto dei singoli componenti per valorizzare quello delle loro sinergie o dei loro contrasti. Tuttavia, l’apporto che la fisica, la chimica, la geologia, o se vogliamo i fisici, i chimici, i geologi ecc. hanno dato alla comprensione dell’ambiente attraverso l’approfondimento degli aspetti di loro competenza è stato enorme e imprescindibile.

Altre volte, invece, un approccio meno accademico e strutturato ha consentito di intuire e sviluppare idee fortemente innovative riguardo all’ambiente. Personalmente credo che in tutti i casi una cultura scientifica ben approfondita e rigorosamente strutturata nelle varie discipline che studiano l’ambiente sia la base formativa indispensabile per gli studenti. Un aneddoto viene da una recente tesi di laurea di uno studente (ora dottore) in scienze ambientali a Ravenna che proponeva una sorta di marchio D.O.C. per il sale marino. Proposta che ha poi, credo, trovato un’effettiva realizzazione, come il Brunello di Montalcino o il prosciutto di San Daniele. In realtà, il cloruro di sodio (NaCl) è tale indipendentemente dall’essere stato estratto secondo una tradizione millenaria da una salina italiana, coi macchinari più moderni da una miniera del Nevada o sintetizzato da sodio metallico e cloro gassoso in un reattore. Trascurare gli aspetti chimici di una problematica come questa, svuota il significato di qualsiasi indagine o proposta che possa scaturirne.

L’altra faccia della medaglia. L’esperienza di questi anni come docente di chimica in un corso di Laurea di Scienze Ambientali mi ha però portato a vedere che esiste uno specifico positivo nei miei studenti e laureati che a me e ai miei colleghi chimici o fisici o geologi a volte manca e che consiste in una sorta di sprovincializzazione della cultura scientifica rispetto alla visione che se ne ha dai campicelli delle varie discipline. È il non sentirsi possessore di un punto di vista privilegiato, il che evita di privilegiarlo a priori. Da questa piccola svolta copernicana può scaturire, e in alcuni casi così è stato realmente, uno scienziato peculiare in grado di fornire soluzioni originali a problemi che sarebbero di difficile soluzione partendo da una visione strettamente disciplinare.

Il rischio è di formare un pluriesperto che non è realmente esperto di nulla. L’obiettivo è di formare un esperto della complessità ambientale, in grado di dialogare, con tutti gli esperti delle singole discipline, di integrare i loro risultati, ma soprattutto di far scaturire quelle domande che altrimenti rischierebbero di non essere mai poste. È un obiettivo ambizioso ma realistico. Come conseguirlo? In tanti modi. Un chimico che si occupa di problematiche ambientali acquisirà man mano una sensibilità verso le altre discipline. E così farà un fisico, e un biologo ecc. Ed essi potranno validamente occuparsi di ambiente nella sua globalità. Un’analoga sensibilità potrà essere conseguita ancor meglio attraverso la formazione istituzionale post laurea, come un dottorato di ricerca o un master. Ma un corso di laurea in scienze ambientali è forse lo strumento più diretto ed efficace.

Il mercato del lavoro

Lo scopo di un corso di laurea scientifico non è, però, solo quello di formare uno scienziato, ma anche quello di fornire ai suoi laureati delle chance professionali. Da questo punto di vista i risultati nel nostro paese sono tutto sommato incoraggianti.

Le indagini svolte mostrano un quadro di buona facilità occupazionale per i laureati in scienze ambientali e una accettabile corrispondenza delle figure professionali conseguite con quelle previste. Almeno per ora.Uno studio recente che ha riguardato i laureati di Ravenna [2], ha fornito questi risultati: l’80,5 per cento dei laureati dal 1994 dal 2002 ha trovato lavoro entro un anno dalla laurea e il 68 per cento dichiara che il lavoro trovato è attinente al proprio titolo di studio e solo l’8,6 per cento si considera insoddisfatto del lavoro che sta svolgendo. Infine il 79,7 per cento dei laureati considera la propria preparazione per l’ingresso nel lavoro da sufficiente a molto buona.

Le forme contrattuali non sono del tutto soddisfacenti (i Co.Co.Co. ammontano al 26,6 per cento, e i lavori a tempo indeterminato sono solo il 25 per cento) ma questa è una caratteristica del mercato attuale del lavoro che ha aspetti negativi ma anche positivi, se correttamente gestita.Quindi, nonostante la giovinezza del profilo professionale dello scienziato ambientale e l’assenza di un ordine professionale, l’esigenza di un esperto scientifico dell’ambiente, non di un ingegnere, di un architetto o di un economista, si dimostra radicata nella realtà produttiva, oltre che nell’immaginario sociale. Per chi deve formare questi ragazzi si tratta di un buon viatico. Soprattutto la tranquillità di non star lavorando in una fabbrica di disoccupati lascia un certo spazio all’innovazione didattica e non costringe a rincorrere fantomatiche richieste imprenditoriali.Cosa possiamo fare di meglio noi docenti per facilitare l’inserimento dei nostri laureati nel mondo del lavoro? Certamente fornire maggiori opportunità di approfondimento professionale specifico, sia nella laurea attraverso insegnamenti “professionalizzanti” e soprattutto nel post-laurea con i master.

La società può, a mio parere, fare molto di più, valutando e premiando i livelli di formazione più elevati. Le aziende, però, devono consentire che parte della formazione da esse specificamente richiesta avvenga dopo l’inizio del rapporto lavorativo o contestualmente a esso, direttamente o attraverso gli enti formativi istituzionali, università compresa. Il vantaggio che ne trarranno sarà nella flessibilità e nell’apertura mentale del proprio personale. La pretesa di assumere solo personale già pronto per un compito altamente specializzato e magari con esperienza maturata rischia di essere miope e, a lunga scadenza, penalizzante per il mondo produttivo, frustrante per i giovani in cerca di occupazione e disorientante per i formatori.

La riforma

La riforma didattica dell’università, in atto dal 2001, avrebbe dovuto essere uno dei capisaldi di una qualunque riflessione sulla didattica universitaria, in qualsivoglia settore disciplinare. La sua portata è potenzialmente ricca di valenze sia positive che negative, ma comunque tale da rivoluzionare il concetto stesso di titolo di studio universitario. Ricordo brevemente, per non confondere troppo il lettore coi tecnicismo della burocrazia ministeriale, che la riforma introduce il Credito Formativo Universitario (CFU) come misura del lavoro svolto e dell’apprendimento conseguito dallo studente:1 CFU = 25 ore di lavoro dello studente di cui 6-8 di lezione e il resto di studio. Un anno di studio equivale mediamente a 60 crediti Ci sono due livelli fondamentali di titolo di studio da conseguire in successione:Laurea (triennale) = 180 CFU; Laurea Specialistica (biennale) = 300 CFU di cui 180 CFU già conseguiti con una laurea triennale e 120 CFU da conseguire nel biennio.

Purtroppo (altri diranno per fortuna) è al nastro di partenza una riforma della riforma o forse meglio una controriforma, i cui termini sono noti solo in parte. Ciò rende l’esame dello stato attuale degli ordinamenti universitari poco più di un esercizio stilistico.Non è certo questa la sede per valutare gli effetti della situazione che si va profilando. Non si può tuttavia tacere sul pericolo che una sperimentazione didattica di durata decennale possa ridurre al lumicino la capacità gestionale di facoltà e corsi di laurea e azzerare del tutto la fiducia che gli studenti hanno nell’istituzione universitaria e nella credibilità dei professori.

Ci sono però due aspetti cruciali della riforma che è necessario considerare qui in relazione alle scienze ambientali: Qual è la validità e il ruolo della laurea triennale in Scienze Ambientali? E inoltre, la riforma sta effettivamente rendendo più agevole la mobilità degli studenti tra i corsi di laurea, tra le sedi e nel passaggio tra laurea triennale e laurea specialistica?Nel tentare una risposta alla prima domanda dobbiamo stare attenti a due facili estremizzazioni che sono:Lo studio delle scienze ambientali è complesso e interdisciplinare, quindi il triennio può servire solo a fornire i fondamenti di fisica, di biologia ecc. Non si può dare alcuna professionalità durante la laurea triennale. All’opposto, le scienze ambientali sono per loro natura applicative. Dobbiamo formare nel triennio uno specialista, anche di basso profilo e lasciare ai livelli successivi, laurea specialistica e master, l’approfondimento culturale.

La prima risposta svuota la riforma di uno dei suoi contenuti più importanti, quello di consentire una via di uscita proficua dall’università a chi non intende, o non può, proseguire gli studi per più di tre anni, recuperando così una parte significativa del 70 per cento di abbandono che esisteva prima della riforma. Inoltre, rende il conseguimento della laurea triennale, con relativa prova finale, un inutile sbarramento nella carriera degli studenti. La seconda risposta cerca di trasformare l’università in un istituto professionale di livello più elevato, reintroducendo al contempo, nemmeno troppo surrettiziamente, l’università di élite, almeno nei suoi livelli più elevati.La risposta che abbiamo cercato di dare a Ravenna come corso di laurea in Scienze Ambientali è un tentativo spero apprezzabile di salvare capra e cavoli: due anni comuni di formazione di base, ma con alcuni elementi specificamente ambientali, in particolare sul fronte dell’ecologia; il terzo anno ricco di insegnamenti “ambientali” e differenziato (per 31 crediti) in piani didattici mirati o a fornire le migliori basi per proseguire nella laurea specialistica o a conseguire elementi di professionalità spendibili sul mercato del lavoro, senza però perdere la possibilità concreta di proseguire nel biennio specialistico.Veniamo ora alla seconda domanda.

La casistica di trasferimenti e altre mobilità è ancora troppo scarsa per tentare una risposta articolata. Una cosa è però emersa chiaramente: la strutturazione delle lauree specialistiche su 300 crediti, includendo cioè nell’ordinamento didattico anche la parte relativa alla laurea triennale, rende quasi impossibile l’accesso per i laureati di altra provenienza, anche molto simile. Ciò svuota di significato lo strumento del credito formativo (a cosa serve un credito che poi effettivamente posso spendere in un solo posto), mortifica la competizione tra le facoltà e gli atenei (l’offerta formativa che posso fornire è utilizzabile solo dai miei studenti), induce a clonare le iniziative formative e disincentiva le sinergie di fatto (se la laurea specialistica non la faccio io i miei studenti non potranno usufruirne presso altri atenei).

Tutto ciò è particolarmente vero e critico in un corso di laurea multidisciplinare come Scienze Ambientali, dove la tendenza ad accentuare le specificità delle sedi universitarie, non fosse altro che per valorizzare le risorse umane a disposizione, è esasperata. È indispensabile fare del biennio specialistico un percorso didattico a se stante. È altrettanto indispensabile coordinare le iniziative didattiche dei diversi atenei italiani dove si insegnano le scienze ambientali per evitare da un lato le clonazioni a stretto contatto territoriale e dall’altro l’incompatibilità assoluta tra gli impianti didattici delle varie sedi.

Dottorato e ricerca

Due parole infine sulla ricerca e sulla didattica per la ricerca, cioè il dottorato.Sappiamo bene che la ricerca è didattica universitaria, nella doppia accezione che solo attraverso un’attività di ricerca possiamo completare la formazione di nostri laureati (specialistici) e che un docente universitario che non faccia ricerca non è in grado di insegnare adeguatamente. Quale ricerca è più adatta per supportare la didattica delle scienze ambientali? Sicuramente quella coordinata che coinvolge ricercatori di più aree disciplinari su una tematica ambientale. Ma se non si può avere la gallina ci si può mangiare un uovo, e una ricerca più strettamente disciplinare va bene lo stesso. Sarà compito del docente avere l’umiltà di ammettere che esistono altri validi punti di osservazione e compito dello studente raccogliere e utilizzare le competenze di esperti di altre discipline.

Quella che non va bene è la ricerca poco seria che tiene in scarso conto i dati sperimentali perché non supportano le ipotesi iniziali, o, peggio, perché contraddicono gli interessi del committente o dello sponsor.Il dottorato infine, la nota più dolente. Credo che la scarsa valorizzazione professionale dei dottori di ricerca rappresenti il principale fallimento della politica universitaria nel nostro paese e la cartina di tornasole della relativa emarginazione economico-culturale di cui ancora l’Italia soffre tra i paesi più sviluppati, dando al termine sviluppo un’accezione positiva. Se per i dottori di ricerca non si aprirà un canale preferenziale verso le carriere dirigenziali nelle aziende e un canale quasi esclusivo verso le carriere negli enti di ricerca e nelle università, il dottorato diventerà un’opportunità per i più pigri e non per i migliori e il paese si impoverirà culturalmente in misura via via maggiore.Per le scienze ambientali il dottorato è, o dovrebbe essere, qualcosa di ancora più importante: la strada attraverso cui viene formata una nuova generazione di ricercatori diversa e innovativa rispetto a quella formatasi nelle discipline tematiche.

A essi siamo destinati a delegare la produzione e la gestione della cultura e della scienza dell’ambiente entro i prossimi 10 o 20 anni. Il mondo produttivo non ha vincoli ma quello italiano è frenato da una scarsa propensione all’innovazione. Università ed enti di ricerca sono legati nel reclutamento ai settori scientifico-disciplinari tradizionali della chimica, della matematica ecc. e i dottori in scienze ambientali rischiano per questo una forte penalizzazione e con essi la cultura scientifica dell’ambiente.

BIBLIOGRAFIA

[1] DEVOTO OLI, Vocabolario della lingua italiana, Lemonier, Firenze 1995.

[2] GOMES R., COSTA S. (a cura di), Dottori dell’Ambiente; Monitoraggio sull’Occupazione dei Laureati nel C.d.L. in Scienze Ambientali di Ravenna, Centro di Stampa della Provincia di Ravenna, Ravenna giugno 2003.

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