Categorie: Società

Effetto Hello Kitty: così aumenta l’attenzione

I giapponesi amano le cose carine, o come dicono loro, “kawaii”. Non a caso le linee di pupazzi, videogiochi e cartoni animati che dal Sol levante invadono di continuo l’Occidente sono piene di cuccioli e buffi mostriciattoli dai grandi occhioni rotondi. Un’autentica industria delle cose carine, come dimostrano brand milionari come Hello Kitty o i Pokemon, che vantano innumerevoli fan tra adulti e bambini. Ma oltre a soddisfare le richieste del pubblico (e a ingrossare i portafogli dei loro produttori), immagini e oggetti carini avrebbero anche un altro vantaggio: guardarle può aumentare la concentrazione, anche se per breve tempo. A scoprire questo “effetto Kawaii” è stato un team di ricercatori dell’Università di Hiroshima, in uno studio pubblicato su Plos One

Le caratteristiche di oggetti e animali carini, spiegano i ricercatori, sono i tipici tratti infantili, come testa e occhi molto grandi e una fronte alta e prominente. Già l’etologo austriaco Konrad Lorenz aveva ipotizzato che nella specie umana esistano dei meccanismi innati, sviluppati per rispondere a queste caratteristiche con un desiderio di protezione e di accudimento. Una sorta di garanzia evolutiva nei confronti dei “cuccioli” della nostra specie, la cui immagine è in grado di modulare la percezione e l’attenzione nei processi visivi e di attivare i circuiti cerebrali deputati alla gratificazione.

Nel 2009, poi, un gruppo di ricercatori dell’Università della Virginia aveva sottoposto 40 studenti universitari a un esperimento: a metà dei partecipanti erano state mostrate immagini di gattini e altri animali, ed erano poi state valutate le performance di tutti i partecipanti in un gioco di società basato sulla coordinazione manuale, l’Allegro chirurgo. I risultati avevano mostrato un aumento delle performance negli studenti che avevano visto le immagini di animali, giustificato, per i ricercatori, ammettendo un incremento dell’impegno nelle interazioni sociali. 

Per confermare o smentire questa ipotesi, gli scienziati giapponesi hanno organizzato tre diversi esperimenti, ideati per studiare non solo l’accuratezza di esecuzione di test motori, ma anche il tempo impiegato e le capacità mnemoniche e cognitive in seguito alla visione di immagini carine. Il primo esperimento non è stato altro che una replica di quello americano del 2009, aggiungendo però anche la misura dei tempi impiegati nelle varie attività. Nel secondo invece è stato chiesto ai partecipanti di contare quante volte ricorreva un certo numero di una stringa di cifre, e quale lettera apparisse in una forma accanto alla stringa. Nel terzo esperimento infine è stato chiesto loro di riconoscere delle lettere (formate a loro volta da molte lettere più piccole) che passavano velocemente su uno schermo.

E, secondo i risultati dei tre test, l’effetto kawaii non sarebbe affatto legato a un potenziamento dei meccanismi di interazione sociale. Il secondo esperimento infatti – progettato per non fornire stimoli sociali alla sua risoluzione – ha dato gli stessi risultati del primo. Il terzo esperimento – che valutava la capacità di cogliere caratteristiche globali dell’ambiente – non ha trovato differenze apprezzabili tra chi aveva visto le immagini di cuccioli e chi non le aveva viste. Per questo i ricercatori ritengono che l’effetto kawaii sia legato a un aumento della concentrazione, che a sua volta aumenta la capacità di cogliere caratteristiche specifiche a discapito di quelle globali.

Dunque le immagini carine aumentano effettivamente la capacità di concentrarsi, ma secondo i ricercatori è ancora troppo presto per poter dare una spiegazione di come questo avvenga. “Per prima cosa bisognerebbe analizzare gli stati psicofisiologici sottesi alla percezione di qualcosa come carino”, spiegano, sottolineando come altri fattori, come la nazionalità o il sesso, potrebbero avere un ruolo nel determinare l’effetto Kawaii.

Riferimenti: Plos One doi:10.1371/journal.pone.0046362

Credits immagine: partymonstrrrr/Flickr

Simone Valesini

Giornalista scientifico a Galileo, Giornale di Scienza dal 2012. Laureato in Filosofia della Scienza, collabora con Wired, L'Espresso, Repubblica.it.

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