Emergenza inverno

E’ caduta la prima neve in Pakistan. Sulle montagne himalayane, a 3500-4000 metri di altitudine, l’inverno è molto rigido e durante la notte le temperature sfiorano i 15 gradi sotto lo zero. E’ proprio il freddo il nemico numero uno dei sopravvissuti al terremoto di 7,6 gradi della scala Richter che l’8 ottobre scorso ha colpito il Kashmir indo-pakistano. Malattie respiratorie e polmoniti, infatti, possono uccidere chi è già debilitato per l’esposizione alle intemperie, la scarsità di cibo e di acqua potabile, le precarie condizioni igieniche e lo stress psicologico. Secondo le stime dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr), il sisma ha causato oltre 70 mila morti in Pakistan, più della metà dei quali bambini, e 1400 nella parte indiana, quasi 80 mila feriti, 3 milioni di sfollati e 500 mila senzatetto. La tragedia ha provocato più di un terzo dei morti che lo tsunami ha fatto in sette paesi asiatici e 75 volte il numero di quelli dell’uragano Katrina a New Orleans, ma non ha catalizzato la stessa attenzione da parte dei mass media e dei donatori internazionali.Interi villaggi sono andati distrutti e i danni più ingenti si sono registrati nelle città di Muzaffarabad, che contava 3 milioni di abitanti, a Bagh, Rawalakot e Balakot. Le strade sono inagibili o bloccate dalle piogge intense e dalle nevicate, che stanno rallentando i soccorsi verso chi è rimasto ancora sulle montagne. A certe altezze l’assistenza e gli aiuti possono arrivare solo con gli elicotteri o con i muli. “Molte persone si rifiutano di scendere a valle, dove è più facile ricevere assistenza, perché non vogliono abbandonare ciò che resta delle loro case e del bestiame. Abbiamo cercato di raggiungere e curare i feriti ma è difficile seguire i pazienti che vengono operati durante il decorso e la riabilitazione”, spiega Sergio Cecchini di Medici senza Frontiere (Msf). La prima necessità post-operatoria di chi ha subito tagli, fratture scomposte e multiple e contusioni, infatti, sarebbe quella di riposare in luoghi, se non asettici, almeno non troppo sporchi. Il rischio di infezioni è alto e chi subisce un’operazione è molto più vulnerabile. Ma la preoccupazione principale ora riguarda il freddo, che sulla popolazione debilitata può avere effetti devastanti. “Ci sono stati già due morti per polmonite a Muzaffarabad, ma l’Onu non si sbilancia e vuole controllare la mortalità dell’anno scorso prima di collegare i decessi ai disagi post-terremoto. Sono numerosi anche i casi di infezioni della pelle per le pessime condizioni igieniche e la mancanza di acqua potabile in alcune zone”, continua Cecchini.Finora la macchina dei soccorsi ha distribuito coperte, medicinali, cibo, quasi 400 mila tende, molte delle quali però non adatte all’inverno. Ma servono nuovi aiuti: almeno altre 40 mila tende, 15 mila ripari e una casa per le 380 mila persone che vivono in prossimità della linea delle nevi perenni. Le organizzazioni di soccorso umanitario chiedono ai paesi donatori di mantenere le promesse al più presto. Dopo gli appelli del segretario generale dell’Onu Kofi Annan, infatti, i paesi donatori riuniti a Islamabad il 19 novembre scorso hanno deciso di stanziare i 5,8 miliardi di dollari americani richiesti dal Presidente Pervez Musharraf per la ricostruzione e di mettere a disposizione risorse in denaro, uomini, materiale e prestiti agevolati. Ma di questa cifra, nelle prime cinque settimane dal cataclisma, sono stati spesi concretamente solo 250 milioni di dollari, meno del 40 per cento. Basti pensare che per lo tsunami indiano, a un mese dal maremoto, la richiesta era stata soddisfatta al 90 per cento. “Per fortuna questa tragedia è avvenuta in un paese non sprovveduto: in Pakistan esisteva già un sistema sanitario funzionante e il governo è presente. Ma nella regione di Bagh, abitata da 400 mila persone, non è rimasto in piedi nessuno dei centri ospedalieri e non c’è un solo edificio dove stabilire un centro di emergenza”, conclude Cecchini. “Il 90 per cento delle costruzioni è distrutto o gravemente danneggiato. E’ importante garantire le condizioni igieniche ai feriti ed evitare il sovraffollamento dei campi medici di emergenza, che aumenterebbe il rischio di infezioni ed epidemie”.

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