Eredità inesplose

Mine anti-persona o anti-carro. Bombe aeree. Proiettili d’artiglieria. Sono milioni gli ordigni disseminati nei teatri di guerra che giacciono sottoterra inesplosi dopo la fine dei combattimenti. Lo dimostra anche la lunga e pericolosa opera di sminamento di questi giorni nella regione dei Balcani.

Le mine sono uno degli ostacoli principali alla ripresa di una vita normale dopo una guerra. Ma anche gli ordigni più grandi rimangono nascosti in profondità, pronti a riaffiorare anche dopo decine di anni provocando, nel migliore dei casi, notevoli disagi legati alle operazioni di disinnesco. Ci sono sistemi per scovare questi esplosivi in modo più semplice, sicuro ed economico? Proprio a questo tema è stato dedicato il convegno “Hidden explosive-detection workshop”, organizzato dalla Fondazione opera Campana dei caduti di Rovereto, dall’Istituto trentino di cultura (Itc) e dal Landau Network-Centro Volta di Como. Il convegno si è svolto dal 9 al 18 giugno a Trento e Rovereto e vi hanno preso parte i massimi esperti americani, russi ed europei in fatto di rilevazione di esplosivi nascosti.

Chi per mestiere deve trovare e disinnescare gli ordigni inesplosi, non rimarrà certo disoccupato in tempi brevi. Secondo i dati emersi nella conferenza dell’Unione europea tenutasi a Ispra nell’ottobre 1998, sarebbero oltre 60 milioni in tutto il mondo le mine anti-persona sotterrate e ancora inesplose. Il Kosovo è solo l’ultima di una lunga lista di regioni nelle quali questi ordigni ostacolano il ritorno delle popolazioni civili e la ripresa economica e sociale dopo il conflitto.

Ma la questione non riguarda solo le aree interessate dai conflitti recenti. Si calcola che circa il 10 per cento delle bombe lanciate dagli aerei tedeschi e alleati nella Seconda guerra mondiale non sia esplosa e giaccia sotto terra a una profondità di una decina di metri. Queste stime dicono, per esempio, che il suolo italiano nasconde ancora almeno 25 mila ordigni. E si vede che la tendenza a non esplodere rimane costante anche quando le bombe si fanno “intelligenti”: di nuovo, il 10 per cento degli ordigni sganciati dai velivoli Nato sulla ex-Jugoslavia ha fatto cilecca, pur continuando a rappresentare un pericolo per gi abitanti della zona.

Il problema inizia quando questi ordigni inesplosi vengono ritrovati vicino a strade o linee ferroviarie, obiettivi primari dei bombardamenti, che devono quindi essere interrotte per il disinnesco. Il problema si aggrava quando si tratta di aree ad alta densità abitativa, dato che bisogna evacuare la popolazione con tutti i costi e i disagi che ne seguono. In Trentino Alto Adige, regione ospite del convegno, il problema è particolarmente sentito: la valle dell’Adige è piuttosto stretta, è percorsa da una ferrovia, da una strada statale (infrastrutture pesantemente bombardate durante la guerra), e oggi anche da un’autostrada. Infine, è disseminata di centri abitati. Ritrovare una bomba inesplosa, evento non rarissimo, significa spesso interrompere del tutto le vie di comunicazione ed evacuare centinaia di persone.

Quindi non è un caso che proprio l’Istituto per la ricerca scientifica e tecnologica (Irst) di Trento, in collaborazione con la Protezione civile e con la società inglese Cambridge Architectural Research Limited, stia conducendo un progetto per individuare le bombe aeree sepolte lungo la valle dell’Adige e realizzare una mappa di rischio. Il progetto si propone di ridurre la probabilità di ritrovamento casuale. Infatti, quasi sempre questi ordigni tornano alla luce per caso durante gli scavi per la costruzione di edifici o strade. Risultato: i cantieri devono essere chiusi all’improvviso, per un periodo imprecisato, e i costi aumentano. Se invece esistesse una mappa che indica le zone più a rischio, le operazioni di recupero e disinnesco potrebbero essere pianificate in anticipo risparmiando tempo e denaro, e limitando i disagi.

“Vogliamo determinare con la massima precisione i possibili siti di impatto delle bombe inesplose”, afferma Cesare Furlanello, responsabile del progetto per conto dell’Irst, “e quindi stendere una mappa di rischio potenziale, in base a parametri come la probabilità di presenza di un ordigno, il tipo e la quantità di esplosivo in esso contenuto, il metodo di spolettatura impiegato e così via”.

E così un gruppo di matematici esperti in informatica applicata e in “pattern-recognition”, si è trasformato in una squadra di artificieri. Il progetto ruota attorno alla costruzione di una enorme banca dati (ciò che gli esperti chiamano un Geographical Information System) su una determinata area. Nel software viene inserita un’enorme mole di dati: ordini di missione, elenchi dettagliati delle bombe sganciate, rapporti degli attacchi, testimonianze dirette. Queste informazioni vengono integrate con l’analisi aerofotogrammetrica delle immagini d’epoca riprese dai ricognitori e i dati cartografici. Il programma “sincronizza” quindi le informazioni storiche con i dati attuali sul territorio e permette così di stimare le zone che con maggior probabilità nascondono bombe che non sono esplose.

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here