Estinzioni, chi ha visto l’alca impenne?

L’estinzione ha un grande ruolo nella storia della vita sulla Terra: tuttavia,  nessuno è del tutto sicuro di che cosa sia o di come operi. In questo affascinante libro Ellis ripercorre la storia dell’estinzione, sia sulla Terra che negli oceani: per esempio, il ‘dugongo gigante’, scoperto nel 1741 e oggetto di una caccia spietata che ne provocò l’estinzione solo 28 anni dopo. Non esistono più la grande alca impenne, l’anatra del Labrador, la foca monaca dei Caraibi, tutte eliminate negli ultimi due secoli.

Ma sbaglierebbe chi pensasse che questo fenomeno sia causato unicamente dalla mano, impietosa, dell’essere umano, della caccia sconsiderata o della distruzione degli habitat o della pesca industrializzata che ha ridotto del 90 per cento il numero di tutti i grandi pesci predatori, tonni, cernie, merluzzi ma anche squali e marlin. Benché si ritenga che la vita abbia avuto origine proprio negli oceani primitivi e che si tratti di un ambiente riparato, moltissime specie marine sono scomparse: squali dotati di corna come cervi, pesci con denti sulla testa e fauci seghettate, più simili a bestie mitologiche che a esseri con cui siamo abituati a convivere. Così come nel cielo abitavano rettili alati, pterosauri volanti dotati di ossa leggere e cave, ali membranose e code lunghissime, né dinosauri né uccelli, che si sono persi nella notte dei tempi.

La specie umana ha comunque avuto una parte non da poco. Intorno a 12mila anni fa alcuni gruppi umani, per esempio, attraversarono lo stretto di Bering, probabilmente grazie a un ponte di terraferma o di ghiaccio. A quel tempo le pianure del Nordamerica erano popolate da mammiferi di grossa taglia come mammuth, rinoceronti lanosi, tigri dalle zanne a sciabola, bradipi di terra, cervi giganti, camelidi e cavalli selvaggi. Tutte specie che in capo a un paio di migliaia di anni scomparirono proprio a causa dell’avvento dell’essere umano. Molti paleontologi sono convinti che siano stati proprio gli umani, con la caccia, a provocarne la scomparsa, oppure a diminuirne il numero in maniera tale da impedire loro di propagare la specie. Altri, ritengono invece che sia stato il cambiamento di clima dell’era glaciale a condannare molti animali di grossa taglia. Recentemente è stata formulata una nuova ipotesi: l’arrivo dall’Asia di agenti patogeni particolarmente virulenti, portati dall’essere umano o dai cani che lo accompagnavano, con un effetto devastante proprio perché nessuno degli animali residenti aveva mai sviluppato una immunità di qualche genere.

È  l’ipotesi sostenuta anche da Jared Diamond nel suo ‘Armi, acciaio e malattie’ che con questa tesi sostiene il successo e la sconfitta di alcune popolazioni umane. Alla fine dell’Ottocento un Morbillivirus noto come “peste bovina” uccise in Africa due milioni di esemplari. Il furetto dai piedi neri americano è particolarmente vulnerabile al cimurro dei cani domestici che in Tanzania ha sterminato leoni e licaoni ed ha devastato anche l’habitat oceanico sterminando il 70 per cento delle foche del Baikal.

La nostra specie ha dunque responsabilità non trascurabili: ha cominciato uccidendo molti grandi animali per autodifesa o per procurarsi il cibo, mentre oggi falcia intere specie con assurda noncuranza. Un ultimo esempio: il bonobo fu descritto per la prima volta nel 1933 ed è già a rischio di estinzione, sia a causa dell’uso della sua carne come cibo che come conseguenza della distruzione della foresta, suo habitat. Possiamo fare ancora qualcosa per limitare la perdita di un patrimonio naturale, come questo e il libro di Ellis spiega come nei suoi 13 ricchi capitoli.

Il libro

Richard Ellis
I cari estinti
Longanesi2007, pp.494, euro 19,60

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