“Fateci studiare la chimera killer”

Sono più di dieci anni che la ricerca oncologica si muove lungo la via delle chimere-killer. Un anticorpo o una proteina che veicolano una tossina all’interno delle cellule cancerogene. In questo modo, una volta immessa nel citoplasma della cellula tumorale, la tossina la spingerebbe al suicidio. Anche l’Italia, dal 1992, si sta dedicando a questo tipo di studi, ma senza troppi clamori e soprattutto senza troppi incentivi economici. Ciononostante un’équipe di ricercatori – composta da Aldo Ceriotti dell’Istituto di Biosintesi del CNR di Milano, da Serena Fabbrini del Dipartimento di Biotecnologie del San Raffaele di Milano e da Rodolfo Ippoliti del Dipartimento di Scienze biochimiche dell’Università di Roma “La Sapienza” – ha raggiunto ragguardevoli risultati studiando le proprietà di una nuova tossina, la Saporina.

I risultati delle loro ricerche, pubblicati sul Faseb Journal, la rivista della Federazione americana di scienze sperimentali, per quanto incoraggianti, “richiedono ancora una lunga sperimentazione”, puntualizza Serena Fabbrini, “anche perché mancano i fondi per passare alla somministrazione del composto proteico sugli animali”.

In breve, la notizia è questa: si prende una proteina in grado di entrare selettivamente in cellule tumorali, gli si attacca una tossina, si espongono le cellule tumorali alla chimera killer e si attende che la tossina faccia la sua parte uccidendo la cellula. In questo caso la proteina si chiama ATF (un frammento aminoterminale della urochinasi umana) e la tossina Saporina, nome che le deriva dalla Saponaria officinalis, un’erba infestante dalla quale viene estratta. Il tutto forma una chimera tossica che prende il nome di ATF-Saporina.

Raccontata così appare molto semplice, ma gli ostacoli che in questi dieci anni hanno frenato l’entusiasmo dei ricercatori restano molti. Primo fra tutti il fatto che l’ATF non permette di utilizzare i batteri come produttori della chimera. Solitamente infatti le chimere tossiche sono prodotte in un ospite batterico. “Nel caso dell’Atf invece”, spiega Fabbrini, “siamo in presenza di una molecola costituita da subdomini proteici ricchi di ponti di solfuro che non permettono la sua espressione in batterio, come ad esempio il Coli, perché quest’ultimo è dotato di un enzima che inattiva i ponti di solfuro della proteina”. In altre parole, il batterio rende l’Atf inservibile. Ma è proprio per questa ragione che i ricercatori, per trovare una soluzione al problema, hanno prodotto per la prima volta una chimera killer direttamente in una cellula eucariota.

“A questo punto, si presentava il problema di come mantenere in vita la cellula eucariota che sintetizzava la proteina, che altrimenti rischiava di essere distrutta dalla tossina”, spiega Fabbrini. La soluzione è stata quella di utilizzare un anticorpo neutralizzante che immunizzasse la cellula ospite dagli effetti della tossina. A questo punto la ricerca si è fermata: l’anticorpo è stato trovato e la chimera killer era pronta ad entrare in azione.

“Il passaggio successivo”, dichiara Fabbrini, “sarebbe stato quello di procedere alla sperimentazione sugli animali, per esaminare il tempo di permanenza in circolo e la capacità che la chimera ha o meno di ridurre la massa tumorale”. Per sopperire alla mancanza di mezzi propri, l’équipe italiana ha avviato una collaborazione con un gruppo di ricercatori inglesi del Southampton General Hospital, guidati da David Flavell, che ha già cominciato la sperimentazione pre-clinica su pazienti leucemici, utilizzando chimere basate proprio sulla Saporina.

Per il momento il contributo italiano è interamente rivolto allo studio dei meccanismi di base che permettono alla chimera di entrare nella cellula cancerogena e di arrivare fino al citoplasma dando luogo alla morte cellulare. “Si suppone”, spiega Serena Fabbrini, “che la proteina, una volta internalizzata, attraversi alcuni comparti intracellulari fino a raggiungere il reticolo endoplasmico che, tra le sue diverse funzioni, ha anche quella del controllo qualità delle proteine espresse, dando luogo alla degradazione citoplasmatica delle proteine non correttamente conformate o assemblate. Ora una tossina gemella, la ricina, giunta al reticolo endoplamatico si comporterebbe come una proteina da degradare, ma quando entra nel citoplasma, dove risiedono i ribosomi, li inattiva in maniera irreversibile. La sintesi proteica del ribosoma viene così bloccata e la cellula va incontro alla morte cellulare”.

La vera astuzia risiede tuttavia nella scelta della proteina veicolante. Essa, infatti, deve avere delle qualità che la portano a legarsi alla cellula tumorale ma non a quella sana. In uno studio condotto negli Stati Uniti in collaborazione con Richard Youle del National Cancer Institute, veniva adottata come proteina veicolante la transferrina, per la cura di alcuni tumori del sistema nervoso centrale. Perché? Le cellule sane del sistema nervoso centrale non hanno bisogno di ferro, quindi non legano la transferrina, invece le cellule tumorali ne hanno bisogno per moltiplicarsi e quindi sono dotate dei recettori per la transferrina. “Similmente”, spiega Fabbrini, “l’ATF lega il recettore della urochinasi, che in genere è presente solo in cellule in più attiva migrazione e quindi anche con elevato potenziale metastatico”.

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