Galileo astrologo scettico, tra oroscopi e cannocchiali

È mai possible che Galileo, lucido e pragmatico padre del metodo scientifico, praticasse l’astrologia? E, se lo fece, che ci credesse? Queste e simili domande mi sono state poste più volte sia da ammiratori di Galileo, quasi delusi di averlo colto in fallo, sia da suoi detrattori (ne esistono a tutt’oggi tra filosofi ed ecclesiastici), che ritenevano di aver individuato una falla nella razionalità dello scienziato pisano, o almeno un suo spregiudicato opportunismo.

 

Andrea Albini
Oroscopi e cannocchiali Avverbi 2008, pp. 255, euro 12,00

A queste domande risponde, in modo assai ben documentato, e seguendo via via le tappe del percorso biografico e scientifico di Galileo, Andrea Albini nel suo “Oroscopi e cannocchiali”. Il testo prende le mosse dalla comparsa, nel 1604, di una “stella nova”, che oggi sappiamo trattarsi di un’esplosione stellare, ma che all’epoca suscitò infinite controversie: da un lato, infatti, sconvolgeva l’idea aristotelica della immutabile perfezione dei cieli, dall’altro forniva agli astrologi occasione di fantasiose elucubrazioni circa la sua influenza sulle vicende terrestri. Ma per Galileo la “nova”, spiega Albini, fu l’occasione per manifestare pubblicamente il suo “scetticismo”, in particolare mediante la scrittura in dialetto rustico padovano di un libello in cui diede libero sfogo alla sua vena satirica e sarcastica – che si sarebbe compiutamente espressa in seguito nelle sue opere maggiori – e si mostrò “attento ai significati delle osservazioni, ma insofferente per le considerazioni arbitrarie e per i discorsi non basati sull’esperienza”. Posizione tanto più meritoria in quanto, osserva l’autore, all’epoca non sempre era chiara la distinzione tra pensiero razionale e superstizione, tra astronomia e astrologia (persino tra uomini di scienza del calibro di Bruno, Keplero e Newton).

E tuttavia, poiché esistono tra le carte galileiane le prove che egli fece delle “natività”, cioè oroscopi basati sulle congiunzioni astrali legate alla data di nascita – delle figlie, di se stesso, di Sagredo, di Ferdinando II e di Cosimo II de’ Medici, e di altri vari personaggi più o meno illustri – e poiché la sua biblioteca ospitava alcuni testi di astrologia, è lecito chiedersi che cosa spingesse Galileo a impegnarsi, seppure marginalmente, in una attività alla quale, per forma mentis, non poteva attribuire troppo credito. Varie le motivazioni, e tra esse indubbiamente un certo gusto per i calcoli incredibilmente complessi e laboriosi sulle posizioni degli astri e la definizione delle date che le “natività” comportavano. È bene anche ricordare che la matematica era necessaria agli studenti di medicina, i quali costituivano una buona parte dell’uditorio di Galileo, per formulare oroscopi per i loro clienti. Poi, il bisogno di denaro, per le inesauribili esigenze della numerosa famiglia d’origine e per quella non ufficiale da lui formata a Padova (l’onorario per una prestazione era di 60 lire venete, quanto due mesi di paga di un manovale!); gli ineludibili obblighi che aveva quale aspirante cortigiano presso i Medici; così come una certa consuetudine astrologica diffusa all’epoca che “entrava, anche inconsciamente, nella vita e nelle convizioni di tutti”.

D’altra parte è Galileo ad assestare un duro colpo all’astrologia con il suo “Sidereus Nuncius”, in cui mette in crisi un modello basato sulla distinzione tra spazio terrestre e spazio celeste, e annuncia la scoperta di nuovi corpi mai tenuti in conto dagli astrologi, i quali si sentono minacciati nel loro prestigio e nei loro interessi economici. E in seguito, nel “Dialogo”, egli affida alle voci di Salviati e Sagredo l’espressione della propria incredulità nei confronti “delle predizioni de’ genetliaci, che tanto chiaramente doppo l’esito si veggono negli astri”.

Dopo il 1618, la coesistenza necessaria

Dopo il 1618 Galileo abbandona la pratica astrologica, e tuttavia non può schierarsi apertamente contro di essa, per non crearsi altri nemici e per non scatenare ulteriori attacchi al sistema copernicano. Quindi, pure in questo settore così come nei rapporti con la Chiesa (e, aggiungo, diplomaticamente governando la propria vena polemica e incline al sarcasmo), sembra lasciar intendere una possible coesistenza di pratiche astrologiche e ricerca scientifica.

Del resto, se molti astrologi erano fortemente avversi alle nuove scoperte, altri, più avveduti, scelsero anch’essi la strada della coesistenza, sostenendo, ad esempio, che oroscopi sbagliati precedenti alla scoperta dei satelliti di Giove si giustificavano con l’ignoranza del loro esistere, e che la disciplina divinatoria non poteva che trarre vantaggio dall’esplorazione del cielo. Il libro, ricco di simili esempi, bene illustra anche il rapporto ambiguo tenuto nei confronti dell’astrologia dalla Chiesa, la quale temeva che essa potesse interferire con la dottrina cristiana del libero arbitrio (forse, ipotizza Albini, alla protezione delle stelle preferiva quella dell’angelo custode, la cui iconografia divenne sempre più presente nel Seicento!), e tuttavia annoverava prelati e papi, a partire da Giulio II, che con l’astrologia ebbero forti legami. In particolare Albini esplora le preoccupazioni astrologiche che afflissero Urbano VIII, relative a oroscopi che preannunciavano la sua morte scatenando intrighi anche politici sulla scelta del successore. Tali preoccupazioni costarono la vita ad alcuni, la prigione ad altri, e spinsero il papa a emanare una bolla che proibiva espressamente di fare pronostici sul pontefice romano in carica e sui suoi consanguinei. Il processo per astrologia e la condanna dell’abate Orazio Morandi, che dovette preoccupare assai lo stesso Galileo il quale ne era amico, è analizzato nei dettagli, e Albini sembra  appoggiare l’ipotesi di chi ritiene che il papa, dopo aver fermamente condannato l’arte divinatoria, se la sia presa per associazione, anche con l’astronomia e con Galileo.

Quanto a quest’ultimo, a fugare ogni dubbio circa il suo pensiero sull’astrologia, è una lettera in cui l’Arcivescovo di Siena Ottavio Piccolomini, di cui lo scienziato fu ospite subito dopo l’abiura, così scrive: “se ne ride interamente, e se ne burla come di professione fondata sopra incertissimi se non falsi fondamenti”.

Galileo lo scettico

Il libro, di piacevole e agile lettura, è ricco di informazioni e notizie e fa luce su vari interessanti aspetti in qualche modo correlati al tema centrale, o fino a ora poco esplorati – quali ad esempio il declino presso i Gesuiti della matematica perché tradizionalmente associata alle arti occulte e all’astrologia, il rapporto degli uomini di scienza con la Corte – e costituisce un importante contributo alla conoscenza di un secolo complesso e contradditorio quale il Seicento e della mentalità dei suoi protagonisti, conoscenza indispensabile per chi intenda accostarsi ad autori e tematiche dell’epoca senza rischiare pericolosi fraintendimenti.

L’astrologia, nelle sue forme più semplificate e banali, attraverso i mezzi di comunicazione di massa e persino la rete, continua ancor oggi a offrire effimere consolazioni ed è fonte di guadagno per molti. Ma, ciò che è più grave, incoraggiando credenze infondate, anche quando non è presa davvero sul serio, alimenta altre credenze e le grandi e piccole irrazionalità che, non sorvegliate o, peggio, coltivate ad arte, caratterizzano ancora tanti aspetti della vita sociale e privata del nostro tempo. Di certo Galileo lo scettico, quale lo definisce l’autore, Galileo che accomuna nel suo scetticismo “arti divinatorie, profetismo, alchimia e astrologia”, sarebbe sorpreso nello scoprire che nel Duemila sopravvivono numerosi pregiudizi anteriori alla sua descrizione del metodo scientifico, e costernato nel vedere di quanto credito goda ancor oggi l’antica pseudoscienza delle stelle.

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