Massimiano Bucchi
Scienza e Società
Il Mulino, 2002
pp. 196, 11 euro
Gli scienziati non sanno come si fa la ricerca scientifica. O, almeno, fanno finta di non saperlo. Leggendo le loro pubblicazioni si direbbe che, quando i dati sperimentali contraddicono una teoria se ne fa una nuova, valida fino a prova contraria. E così via, da una teoria all’altra, migliorando sempre. La ricerca scientifica sembra una macchina ben oliata che, da Galilei in poi, ci avvicina alla “realtà”. Fortunatamente sono arrivati i sociologi della scienza, a dirci come stanno davvero le cose. Analizzano le controversie, spulciano botte e risposte, misurano e costruiscono modelli (sono scienziati anche loro) che spieghino il funzionamento di un oggetto di ricerca un po’ speciale: la scienza.
Il libro di Bucchi riassume le scuole di pensiero e i risultati di questa disciplina nata nel dopoguerra, con il ruolo sociale ed economico assunto dalla ricerca scientifica. Il quadro storico disegnato da Bucchi pone Robert Merton tra i pionieri negli anni Cinquanta; ma solo negli ultimi trent’anni la sociologia della scienza ha ottenuto lo status delle altre scienze sociali. Solo da quando Thomas S. Kuhn ha descritto il progresso come successione di “rivoluzioni” e periodi “normali”, esso è stato messo in relazione al contesto sociale in cui si svolge. Ammessa la presenza di elementi extra-scientifici nel processo di distinzione tra teorie “vere” e “false”, il dibattito si è aperto: quali, di questi elementi, contano di più? Le risposte date da vari autori (da David Bloor a Bruno Latour, ma Bucchi trascura Pierre Bourdieu, appena scomparso) sono contenute in “Scienza e Società”, che dà conto di una discussione molto vivace. L’immagine della scienza che ne risulta è meno patinata ma più sanguigna, dato che i sociologi si interessano soprattutto delle controversie, delle liti e delle rivalità, in cui ogni arma è lecita, ed evidenziano quanto rissosi siano gli scienziati e quanto risentano del contesto in cui operano.
Purtroppo, i più allergici a questo dibattito sono proprio gli scienziati: c’è da capirli, l’uso di argomenti extra-scientifici è la più comune accusa rivolta ai rivali durante le querelles, e per i sociologi della scienza l’”infamia” riguarderebbe l’intera categoria. Perciò, mentre l’indagine sociologica nei laboratori è malvista, la capacità di autocritica degli scienziati rimane scarsa. Bucchi descrive il momento più acuto dello scontro tra scienziati e sociologi nel celebre scherzo del fisico Alan Sokal, che su un’importante rivista sociologica pubblicò un articolo zeppo di termini provenienti dal gergo di laboratorio. Dimostrò così che è facile costruire “imposture intellettuali” nelle scienze sociali, e coinvolse anche Kuhn a Latour in tali accuse, nell’omonimo bestseller scritto con Jean Bricmont. Fu un esempio di resistenza della corporazione degli scienziati, secondo Bucchi, restii a farsi esaminare e gelosi del loro ruolo sacerdotale. Ma la necessità di una sociologia della scienza è oggi ancor più urgente, come è spiegato nell’ultimo capitolo. Ora che la ricerca è in mano ai privati, dalla Silicon Valley a Bangalore, è il mercato a dare credibilità alla comunità scientifica. Diventa allora indispensabile riconoscere gli interessi sociali e culturali che spingono certe ricerche e ne frenano altre. Libri come quello di Bucchi ci aiutano a guardare nella scatola nera, prima che i brevetti e i copyright la chiudano a chiave.