Guerrigliera di pace

“Ci sono troppe persone che hanno studiato gli indigeni. Nello sguardo che li indaga c’è già il dominio di chi si ritiene superiore. Troppe carriere di studiosi e di funzionari di organismi internazionali sono cresciute in questo modo. Bisogna smettere di studiare gli indios e di proporre soluzioni ai loro problemi. Loro sanno già cosa fare. Lasciateli stare. Solo lo sviluppo di una società profondamente multiculturale, multietnica e multilingue sarà la soluzione ai problemi del Guatemala uscito da un trentennio di durissima guerra civile. Solo il rispetto della dignità degli indios e la convivenza della loro cultura accanto a quella degli altri popoli potranno portare ad una pace stabile e duratura in Guatemala e in tutti i paesi dove la guerra ancora non è finita, come il Chiapas e il Peru”.

E’ questa la filigrana per intendere correttamente l’analisi del presente e i progetti futuri di Rigoberta Menchu, emblema della ribellione delle popolazioni indigene d’America e premio Nobel per la Pace nel1992. Disporsi al dialogo, imparare ad ascoltare la storia drammatica di un popolo che in secoli di sterminio e sfruttamento non ha perduto la propria ricchezza culturale, semplicemente imparare da chi lotta ogni giorno con per un grande progetto di pace che coinvolge tutta l’America Latina. Parlare con Rigoberta Menchu è un’esperienza di straordinario interesse e di profondo coinvolgimento emotivo.

Rigoberta non parla quasi mai di sé, della terribile esperienza che l’ha vista vittima in prima persona delle efferatezze con cui il regime guatemalteco ha cercato di stroncare la ribellione dei popoli indigeni.Il suo passato, le sue durissime condizioni di vita in gioventù, lo sfruttamento nelle “fincas” (i grandi latifondi dei bianchi), il disumano massacro dei genitori e dei fratelli ad opera delle milizie guatemalteche sono consegnati -indissolubilmente intrecciati a bellissime pagine sulla cultura del suo popolo – alla sua biografia pubblicata nel 1983 da Gallimard (tradotta in Italia per la casa editrice Giunti con il titolo Mi chiamo Rigoberta Menchu).Ora, il suo straordinario impegno è tutto dedicato al suo ruolo di mediatrice internazionale: organizza tutti gli interventi necessari affinché in Guatemala i fragili accordi di pace si traducano in leggi giuste e consentano uno sviluppo economico fondato sulla giustizia sociale e sull’equilibrio ecologico.

Abbiamo incontrato Rigoberta Menchu a Ferrara nel corso di un incontro organizzato in maggio da “Ferrara terzo mondo”, un’associazione impegnata nel “commercio equo e solidaleî fra i paesi del Nord e Sud del pianeta.

Dopo 36 anni di conflitto armato, il 29 dicembre 1996 è stata finalmente siglata la pace. Quali condizioni dovranno realizzarsi perché gli accordi si traducano concretamente in una situazione stabile che garantisca ai popoli che vivono in Guatemala un futuro di pace sviluppo?

Dopo la sigla degli accordi di pace è iniziato un periodo molto difficile, che richiede un grande impegno. La fine del conflitto non segna la fine dei problemi, ma l’inizio di una nuova epoca storica, in cui dovremo lavorare duramente. I costi della pace sono la vera sfida del futuro. E’ una fase molto frustrante, in cui bisogna avere molta pazienza nella trattativa per l’applicazione degli accordi, anche se le situazioni da affrontare sono molto gravi e richiederebbero interventi urgenti. Perché cominci la normalità bisogna anzitutto reintegrare nella vita quotidiana chi ha combattuto per piu di trent’anni. La pace significa poi costruire scuole, ospedali, posti di lavoro. Senza questo non ci sarà pace. Bisogna soprattutto evitare che salti il tavolo delle trattative e tenere continuamente aperto il canale della discussione.Per quanto riguarda il futuro assetto del Guatemala bisogna tenere presente che circa il 65% della popolazione è costituito da indigeni (in larga parte discendenti dei Maya).Per questo dobbiamo costruire un paese multiculturale, multilingue e multietnico. Se ci riusciremo avremo gettato le basi per una pace stabile e giusta. Sarà un esempio per il futuro, un esempio per tutte le popolazioni dei paesi vicini dell’America in cui deve essere difesa cultura degli indigeni, la loro arte e il loro modo di vivere.Per questo è nata la Fondazione Rigoberta Menchu, il cui scopo, nel periodo dal 1998 al 2004, è l’avanzata della condizione indigena.

Come intende muoversi la Fondazione per conseguire questi obiettivi?

La promozione della pace come valore è l’elemento di fondo. Il nostro programma si basa sull’educazione ai valori civici della democrazia e della partecipazione. La prevenzione dei conflitti e l’impegno per una soluzione politica costituiscono l’aspetto fondamentale della nostra azione. Per raggiungere questo obiettivo è necessario trovare alleanze a livello internazionale e rompere il silenzio che copre la sorte dei popoli indigeni.Purtroppo all’ONU non arriva mai la voce diretta delle vittime, che non riescono così a confrontarsi con i governanti. Solo le Organizzazioni Non Governative (ONG) riescono a richiamare qualche volta l’attenzione. La Fondazione ha stretto rapporti di collaborazione con il Dalai Lama, con Desmon Tutu e con le organizzazioni internazionali. E’ una lotta sovranazionale e interculturale. Poiché vogliamo che la nostra cultura sia rispettata, vogliamo che lo sia anche quella degli altri popoli.Attualmente seguiamo con grande attenzione la situazione in Chiapas, in cui svolgiamo un ruolo di mediazione per la liberazione dei prigionieri politici. L’unica possibilità di soluzione del conflitto nel Chiapas è una mediazione politica che porti ad un accordo fra le parti.Nel caso del Peru abbiamo seguito con disperazione gli eventi legati all’occupazione dell’ambasciata, e la riduzione dello spazio di ogni possibilità di mediazione.La giustizia e il ripristino della legalità è un altro campo fondamentale del nostro intervento. Il problema di eliminare la corruzione e di colpire chi ha depredato le popolazioni indigene è urgente per via degli enormi danni che ha prodotto e delle coperture di cui i ladri hanno goduto. Prima facevamo delle manifestazioni. Ma non serviva a nulla. Dopo tornava tutto come prima. Ora dobbiamo imparare ad usare gli strumenti legali. E’ un impegno difficilissimo. Non c’è la stampa che segue e tiene viva l’attenzione internazionale come nei momenti di conflitto e di crisi, ma è fondamentale per dare uno sbocco concreto alle lotte.Infine c’è l’impegno per uno sviluppo economico di tipo ecologico che consenta alle popolazioni indigene di vivere con dignità e in un rapporto equilibrato con la natura, che è una caratteristica fondamentale della nostra cultura.

Quale bilancio si può fare di questi primi mesi di pace?

E’ molto presto per valutare quanto abbiamo ottenuto. In questi primi mesi abbiamo dovuto privilegiare la parte “operativa” degli accordi, quella che regola la smobilitazione controllata delle parti in armi. Per questo motivo abbiamo dovuto sospendere e rimandare la discussione di temi cruciali come la riforma agraria, la politica economica, la riforma sociale o il problema dei diritti e delle garanzie politiche che devono avere i popoli indigeni.

Per quanto riguarda la parte “operativa” degli accordi, penso che, sotto la supervisione delle Nazioni Unite e dei caschi blu siano stati rispettati i tempi previsti. Manca ancora la disattivazione di alcune formazioni della guerriglia, ma già una parte consistente si è integrata nella vita civile, e credo che anche da parte dell’esercito ci sia uno sforzo per disattivare la polizia “territoriale” e parte delle truppe regolari. Restano comunque alcuni punti da chiarire: gli accordi non sono stati molto precisi su quali reparti dell”esercito andavano disattivati e soprattutto sulle procedure di verifica e sul reimpiego dei soldati smobilitati. Noi speriamo che l’esercito rispetti l’impegno di eliminare il 33% dei suoi effettivi e alla stessa maniera riduca il campo dei suoi interventi negli affari interni del paese.

Per quanto riguarda invece la parte sostanziale, quella che riguarda i problemi piu profondi delle riforme, non possiamo ancora dare una valutazione precisa. Piu della metà degli articoli della costituzione repubblicana dovrà essere modificata in modo da dare veramente origine ad un sistema pluriculturale, multietnico e multilingue, come sancito negli accordi di pace. E’ dunque una grande piattaforma che avrà bisogno ancora di tempo.

Intanto sono state istituite cinque commissioni paritarie il cui scopo è impostare le riforme: riforma dell’educazione, riforma legale, riforma costituzionale, compresa la riforma della legge dei partititi politici e del sistema elettorale. La commissione per la riforma del sistema giudiziario avrà il compito di vigilare che la riforma dell’amministrazione della giustizia arrivi in porto, che si depuri il sistema giudiziario, e che si pongano le basi di nuovi meccanismi per completare il codice penale. Questo è un punto chiave, perché se non c’è giustizia in Guatemala non ci sarà pace, e se non verrà eliminata l’impunità continuerà l’insicurezza sociale. La giustizia deve dare prove, prove schiaccianti che le cose sono cambiate. Questo è ciò che maggiormente stanno osservando i guatemaltechi e la comunità internazionale.Sono undici in tutto gli accordi previsti. Essi rappresentano una grande piattaforma politica, ma ognuno di essi va realizzato con scopi e mezzi adeguati, e credo che sarà necessario aspettare ancora anno e mezzo per potere vedere risultati significativi.

Fra gli obiettivi della Fondazione Rigoberta Menchu c’è lo sviluppo ecologico dell’economia. Quali sono le realizzazioni concretamente possibili? Non le sembra un obiettivo troppo ambizioso, dato che nemmeno i paesi più ricchi riescono a conseguirlo?

Il Guatemala ha una grande vocazione ecologica che non è stata sfruttata fondamentalmente a causa del conflitto armato interno. Una grandissima parte del paese non è stata coltivata, e non sono state utilizzate le potenzialità di sviluppo comunitario ed ecologico. Quando noi della Fondazione parliamo di progetti di sviluppo ecologico non ci riferiamo a tutto il Guatemala, ad una politica globale che non è nelle nostre forze gestire. Parliamo invece di alcune aree dove lavoriamo e in cui abbiamo dei progetti già avviati.

All’interno di questi progetti, in cui la Fondazione lavora insieme all’Unione Europea, abbiamo condotto studi per la difesa della foresta e stiamo analizzando quali dei suoi prodotti servono alla popolazione e quali potremo commercializzare in un prossimo futuro. In altre aree in cui lavora la nostra Fondazione abbiamo avviato una nuova politica nella distribuzione della terra, per cui i campi non sono gestiti in maniera completamente collettiva (come avviene nella tradizione indigena, N.d.R.) ma nemmeno totalmente privata. Ci sono proprietà private nelle quali la gente può coltivare il mais, i fagioli per il sostentamento della propria famiglia, ma vi sono anche proprietà collettive dove opera una cooperativa che sta impiantando colture ecologiche (caucciù, cacao e caffè). Stiamo studiando la zona di Quichè, dove sono nata, per fare una riserva ecologica per la pace. E’ una zona di foreste pluviali che produce ossigeno per il mondo, in cui vivono una fauna ed una flora particolari.

Un altro progetto molto importante ha portato alla costruzione di un villaggio completamente nuovo nel rispetto dei criteri ecologici. Abbiamo acquistato la terra, costruito le case e approntato un piano di sviluppo ecologico. Certo, si tratta di un piccolo villaggio, ma l’importante non è stato tanto costruire le case, quanto rilanciare la dimensione comunitaria, lo sviluppo delle cooperative che la guerra ha distrutto o frammentato. Speriamo che possa diventare un modello per il futuro.I tetti sono stati costruiti dalle donne, senza distruggere il bosco. All’inizio i loro compagni pensavano che non sarebbero state capaci, ma loro hanno risposto ‘qui ci sono tetti fatti da donne, se non vi va bene andate da un’altra parte’.Ecco, da questo piccolo esempio credo che si possa anche capire come un progetto concreto realizzi veramente una partecipazione egualitaria.

A proposito della posizione delle donne, cosa è cambiato negli anni della guerra, che hanno sovvertito molti ruoli sociali, e poi con la pace?

Finché ci sarà miseria e povertà non ci sarà rispetto per le donne. Finché una donna vede il proprio figlio morire di fame non potrà mai dedicarsi al proprio sviluppo intellettuale. Il mio sogno sarebbe la formazione scientifica e culturale di 20.000 donne. Ma per ora abbiamo molti sogni e poche risorse. Siamo ancora nella fase della difesa della sopravvivenza. Gli accordi di pace prevedono un apposito comitato e noi stiamo spingendo perché tutti gli aiuti allo sviluppo arrivino direttamente alle donne e ai giovani.

Lei ha detto che molti degli studi sugli indigeni e dei progetti di sviluppo loro rivolti, stabiliscono in realtà relazioni di potere. Ora, come possono coesistere la salvaguardia della dignità e dell’autonomia culturale con i programmi di sviluppo gestiti dai grandi organismi internazionali, come il Fondo Monetario Internazionale (FMI), la Banca mondiale (BM)?e, infine, che ruolo può svolgere il commercio alternativo equo e solidale, che rappresenta una parte piccolissima degli scambi internazionali?

La pace in Guatemala è il risultato di una lotta condotta autonomamente dagli indigeni, con una difesa molto forte della propria identità. Io non ho mai incontrato nessun sociologo d’America che avesse la ricetta per fare la pace in Guatemala o in Chiapas o che abbia contributo a realizzare scambi più giusti in Ecuador. Dopo la guerra siamo riusciti a collocare molti professionisti indigeni in diversi luoghi decisionali. Questo prima non era possibile. E’ necessario che gli accordi di pace siano gestiti dagli stessi attori che hanno contribuito alla soluzione dei problemi nei vari settori, perché solo loro sono in grado di esprimere gli interessi degli indigeni, la loro idea di società e del futuro, e non chi scrive i grandi libri che stanno nelle biblioteche e nei musei.

Non voglio svalutare totalmente il ruolo degli accademici, antropologi, sociologi, ma loro sono assenti dal processo di pace, totalmente lontani dai problemi reali del Perù, dell’Ecuador o del Chiapas. Quali sono dunque gli attori grazie ai quali gli indigeni vanno conquistando lentamente qualcosa? Da un lato i movimenti nazionali. Le conquiste più alte in quanto a definizione, in quanto a concettualizzazione del futuro dei popoli indigeni sono uscite dal tavolo dei negoziati, dal dialogo tra i ribelli e il governo. Altrettanto importanti sono i tecnici e i professionisti indigeni che conoscono molte lingue, sanno usare gli strumenti tecnici e il computer. Alcuni anni fa questo non si vedeva in America. Si vedevano solo gli indios poveri. In Guatemala ci sono piu professionisti bilingue e trilingue fra gli indigeni che non nel resto della popolazione.

Per questo crediamo che gli indigeni non vadano educati in un modo speciale. Non sono gli indigeni ma i non indigeni che hanno bisogno di educazione. Se il Guatemala e gli altri paesi dell’America diventeranno nazioni pluriculturali e multilingue, allora l’educazione accelerata per una convivenza plurilingue è un programma che riguarda i non indigeni, perché qualsiasi funzionario, sia esso della polizia o di un ufficio pubblico, deve parlare almeno una lingua della regione in cui assume un incarico, affinché non possa prendere una decisione senza considerare l’opinione della gente del luogo.Questo è ciò che stiamo facendo con l’UNESCO.Per quanto riguarda gli altri organismi internazionali, date queste premesse, è fondamentale che la Banca Interamericana di Sviluppo (BID)appoggi direttamente le iniziative dei popoli indigeni, nei campi dello sviluppoe economico, dellíeducazione e della salute.

Penso che anche il ruolo della BM sia molto importante perché, anche se spesso non ha una politica sociale, può condizionare le politiche dei governi nei singoli paesi. Non ritengo che la BM debba lavorare direttamente con gli indigeni; il suo ruolo dovrebbe essere quello di condizionare i governi affinché essi operino in favore dei popoli indigeni, perché i programmi di riforma economica, sociale e culturale mettano al primo posto una relazione paritaria con gli indios.

Bisogna calare i progetti di sviluppo nelle singole realtà locali e nel rispetto della dignità dei popoli, altrimenti la globalizzazione dell’economia sarà un disastro.In questo senso le esperienze del “commercio alternativo equo e solidale” sono di grande importanza perché costituiscono un esempio concreto della strada da seguire.La nostra speranza è che acquistino un peso sempre crescente.

L’intervista a Rigoberta Menchu finisce con queste parole. Attraverso il suo punto di vista si svela una realtà per molti versi inaspettata.Forse conviene ricordare l’avvertimento che Rigoberta ci lancia in chiusura della sua biografia. Dove, forse, sta la chiave per cogliere l’aspetto più profondo della multiculturalità.”Certo, attraverso tutto quello che ho raccontato, credo di aver dato un’idea di tutto ciò. Tuttavia, la mia identità indigena profonda continuo a tenerla nascosta. Continuo a tenere nascosto tutto quello che ritengo nessuno conosca, neppure un antropologo o un intellettuale, perché, a dispetto di tutti i loro libri, costoro non sono capaci di penetrare tutti i nostri segreti”.

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