I matematici possono usare il computer?

Si chiama Shalosh B. Ekhad: basta una veloce ricerca per scoprire che è tra gli autori di numerose pubblicazioni su prestigiose riviste di matematica. Nell’ambiente accademico, è famoso per la sua capacità di dimostrare con un solo enunciato teoremi e identità che precedentemente richiedevano pagine e pagine di equazioni. Ha impiegato meno di un secondo per eseguire i 37 passaggi necessari a valutare una formula riguardante il numero di triangoli che si possono costruire con un fissato perimetro. Dopo il ragionamento lampo, è arrivato il suo laconico verdetto: “Vera”.

Niente di troppo strano, all’apparenza. Se non fosse che Ekhad è in realtà un computer, programmato dal matematico Doron Zeilberger. Che tratta la sua creatura proprio come un essere umano: “La sua anima è il software”, afferma nascosto dietro gli schermi della sua scrivania. “L’ho chiamato così perché il suo nome è il corrispondente ebraico di tre-b-uno. L’ AT&T 3B1 è stato il primo corpo di Ekhad”. Zeilberger, docente alla Rutgers University, ricorda da vicino Richard Martin, il coprotagonista del racconto fantascientifico L’uomo bicentenario di Isaac Asimov, che si batte strenuamente perché al suo robot venga riconosciuto lo status di essere umano. Fin dagli anni Ottanta, infatti, lo scienziato elenca Ekhad tra gli autori dei suoi lavori “per dichiarare apertamente che i computer dovrebbero ottenere il riconoscimento che è loro dovuto”. Per decenni, ha combattuto contro quello che definisce “bigottismo antropocentrico” dei matematici: la tendenza conservatrice a prediligere le dimostrazioni vecchio stile, eseguite solo con carta e penna. Che, secondo lui, ha rallentato i processi nel campo della matematica. “La ragione è semplice”, sostiene: “Le persone sono convinte che un giorno i computer taglieranno gli esseri umani fuori dal business della matematica”.

In realtà, l’opinione di Zeilberger non è che una delle tante a proposito del ruolo dei computer nella matematica: una questione delicata che sta pressando sempre più il mondo accademico, soprattuto a causa della crescente complessità di teoremi e dimostrazioni e, parallelamente, del miglioramento di software e processori. A fare un quadro della situazione è la giornalista Nathalie Wolchover per la Simons Foundation e Wired.com, che ha cercato di capire le ragioni per cui la questione abbia spaccato profondamente la comunità mondiale dei matematici.

Perché, nonostante quello che comunemente si crede, un dato è certo: non tutti gli scienziati usano il computer. Al contrario, molti hanno la sensazione che programmare una macchina per provare un teorema sia deleterio, perché cambia le regole di un gioco vecchio tremila anni. “Dedurre nuove verità sull’universo matematico” racconta Wolchover, “ha quasi sempre richiesto intuizione, creatività e lampi di genio. Non righe di codice e clic”. In effetti, nell’epoca pre-informatica la necessità di evitare calcoli troppo lunghi da svolgere a mano ha avuto ottime e impreviste ripercussioni sulla scienza, guidando i matematici a sviluppare eleganti tecniche simboliche come il calcolo integrale. Le dimostrazioni impervie e tortuose, insomma, non sarebbero un mezzo per arrivare alla scoperta, ma il suo fine ultimo.

Sono molti gli scienziati che sposano questo modo di vedere la matematica. Tra questi, Mihyong Kim, docente alla Oxford University e alla Pohang University of Science and Technology in Corea del Sud, secondo cui “molti matematici pensano che stiamo costruendo teorie con lo scopo ultimo di arrivare a una qualche verità assoluta. Ma poi si accorgono che i metodi che hanno sviluppato per costruire le teorie sono più importanti delle teorie stesse”. Sta qui, secondo Kim, la pecca principale dei calcolatori, che non hanno il livello di astrazione e intuizione necessario a estrapolare ex-novo modelli e teorie dai dati.

Un altro feroce detrattore dell’informatica è Costantin Teleman, professore alla University of California at Berkeley: “La matematica pura non è la conoscenza della risposta, ma la sua comprensione. Se tutto quello che si riesce a dire è che ‘il computer ha verificato il teorema controllando un milione di casi’ , vuol dire che non si è compreso un bel nulla”. D’altro canto, risponde Zeilberger, non c’è niente da fare: l’inflessibile logica binaria dei calcolatori supererà di gran lunga, se non lo ha già fatto, la comprensione concettuale degli esseri umani, come è successo per le sfide tra uomini e computer al gioco degli scacchi. “La maggior parte di tutto quello che gli esseri umani hanno scoperto finora può essere ripetuto da un computer in molto meno tempo”, sostiene. “Molti dei problemi matematici che affrontiamo oggi non sono scelti perché interessanti, ma solo perché sono i pochi ancora rimasti che possono essere risolti senza computer”.

Come si vede, dunque, si tratta di due frange di pensiero estremamente contrapposte: eppure, c’è qualcosa che mette d’accordo tutti. Si tratta dell’assenza di regole e standard che disciplinino l’utilizzo dei calcolatori. “Sempre più matematici imparano a programmare, ma non esistono standard per controllare il codice e stabilire che sta funzionando nel modo giusto”, sostiene Jeremy Avigad, filosofo e matematico alla Carnegie Mellon University. Non è un problema da poco: nel 1990, ricorda Teleman, alcuni fisici teorici proposero un modello per risolvere un problema della teoria delle stringhe. I matematici verificarono al calcolatore la congettura dei colleghi e scoprirono che era falsa. “Ma il codice era sbagliato: è questo il pericolo più grande nell’usare i computer. Che succede quando il programma ha un baco?”

Jon Hanke, teorico dei numeri ed esperto programmatore, rincara la dose. “Il problema sta anche nel fatto che la maggior parte dei programmi che usiamo non sono scritti direttamente da noi. Si tratta di software commerciali non open-source, come Maple, Mathematica o Magma. Se uno di questi programmi mi dicesse che la risposta al mio problema è 3.756, come posso verificarla se non posso controllare il codice che l’ha prodotta? La risposta è che non posso. Devo fidarmi e basta”. Difficile da digerire, per una scienza abituata alla rigida verifica di ogni singolo dettaglio di una dimostrazione.

Il problema, tra l’altro, persiste anche se si usa codice open-source o scritto da sé, perché dev’esserci sempre qualcuno a verificarlo. E spesso il controllo del codice richiede più tempo di quello impiegato per i calcoli: “È come cercare un baco nel codice di un iPad”, incalza Teleman. “Chi lo fa? Quanti utenti hanno il tempo e la voglia di studiare ogni riga di quel codice?”

La risposta, azzarda qualcuno, potrebbe venire dai computer medesimi, che potrebbero diventare i controllori di sé stessi. Ma, a quel punto, si riproporrebbe l’atavica questione: “Quis custodiet ipsos custodes?”. Ai matematici – umani – l’ardua sentenza.

Via: Wired.it

Credits immagine: fdecomite/Flickr

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