I tesori dispersi dell’Iraq

Prima della guerra del Golfo era la nazione con la più alta presenza di missioni archeologiche internazionali. Perché nella sua storia millenaria sono scolpiti eventi fondamentali, dall’invenzione della scrittura alla nascita della civiltà urbana. Ma oggi, a otto anni dall’inizio dell’embargo, l’Iraq è un paese sconfitto. E la tutela del suo patrimonio culturale in serio pericolo. Molti dei suoi reperti archeologici, infatti, vengono rubati dai musei dalla popolazione, ridotta alla fame, e venduti ai trafficanti d’arte. Per stroncare un mercato clandestino che continua a crescere indisturbato, il ministero degli Esteri italiano ha deciso, in collaborazione con le autorità irachene, di stilare un elenco di nomi, dati e foto dei reperti archeologici rubati, e di inviarli a tutti i musei e ai collezionisti di ogni parte del mondo. Inoltre, l’Italia fornirà algli iracheni anche la consulenza scientifica per la riorganizzazione del museo archeologico di Baghdad, il più importante dell’Asia per i documenti e le testimonianze che conserva, ma che è chiuso dall’inizio della guerra nel Golfo.

Galileo ha chiesto un’opinione sulla situazione attuale a Giorgio Gullini, professore di archeologia all’Università di Torino e presidente del Centro ricerche archeologiche e scavi per il Medio Oriente e l’Asia, l’organismo italiano con la più lunga esperienza di collaborazione con l’Iraq. Il centro piemontese è presente sul territorio dal 1969 con due istituti paritetici italo-iracheni, gli unici rimasti aperti anche durante la guerra del Golfo.

Professore, qual è oggi la situazione dell’archeologia irachena?
“La possiamo riassumere con una sola parola: disastrosa. Il saccheggio ai danni di tutti i musei provinciali del paese – attualmente poco sorvegliati e protetti – è quotidiano. La popolazione si è organizzata, e ha creato una rete internazionale che esporta gli oggetti trafugati al dì fuori dei confini iracheni. Si tratta di oggetti di grande valore storico-culturale: statue, sigilli, tavolette e rilievi mesopotamici che risalgono al periodo compreso tra il settimo millennio avanti Cristo e il 1200- 1300 dopo Cristo. Molte di queste opere d’arte, purtroppo, sono già finite sul mercato clandestino internazionale”.

Per bloccare questo ignobile mercato servirebbero misure di sicurezza nuove e più efficaci. Ma non si potrebbe cominciare con sensibilizzare la popolazione?
“Quella attuale è una situazione che si è creata solo dopo la guerra. E’ una conseguenza dell’embargo Onu, che ha colpito i più deboli. Prima del 1990 erano gli stessi contadini, molto gelosi della loro civiltà, a proteggere i loro tesori dall’interesse degli stranieri. Oggi bastano 50 dollari per comprare un oggetto prezioso al mercato nero: con questa cifra, un padre può sfamare la sua famiglia per molti mesi. Per capire il dramma di questa gente – che è la sola colpita dall’embargo – basta ricordare che prima del conflitto il dinaro valeva tre dollari, adesso vale meno della lira”.

Il vostro progetto prevede la ristrutturazione del bellissimo museo archeologico di Baghdad. Per quando è prevista la riapertura?
“Il museo di Baghdad è stato immediatamente chiuso allo scoppio della guerra. I reperti depositati nelle casse sono stati sorvegliati, e per questo si sono salvati dal saccheggio. La riapertura prevede la sistemazione del museo con i più moderni sussidi didattici e informatici, e con impianti di sicurezza indispensabili in un museo moderno. Ma è chiaro che non si può pensare di riaprire un museo se c’è il rischio di vederlo danneggiato. Quindi la sua riapertura avverrà solo alla fine dell’embargo”

Ma quanti reperti preziosi sono andati perduti durante la guerra?
“Quasi nessuno, i danni sono stati pochissimi. I guai, ripeto, sono cominciati dopo. L’embargo economico è diventato anche un embargo culturale, e questa è la cosa più ignobile che possa accadere a un paese civile, perché provoca la distruzione del patrimonio artistico e culturale, e l’isolamento di tutte le strutture scolastiche, universitarie, scientifiche. Attualmente gli iracheni non hanno più scambi culturali – tranne che in rarissimi casi, come il nostro – e sono costretti a vivere ai margini del mondo”.

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