Categorie: Ambiente

Il bio è di moda

Per ora è un mercato ancora di nicchia. Ma secondo gli esperti, nel 2008 l’uso del biologico nella produzione tessile e nell’abbigliamento toccherà il suo massimo. Secondo le proiezioni di Organic Exchange, un’associazione no profit di Berkeley (California) che promuove la produzione di biocotone e altre fibre “verdi”, il mercato mondiale nel settore toccherà quest’anno i 2.600 milioni di dollari, mentre la domanda raggiungerà il traguardo delle 100 mila tonnellate. E non c’è da stupirsi, visto che anche le passerelle dell’alta moda, nelle ultime sfilate, hanno strizzato l’occhio al bio, interessate come sono a sviluppare un mercato sostenibile e a basso impatto. Il settore è in crescita anche in Italia, come conferma Paolo Foglia, responsabile del settore Ricerca e Sviluppo dell’Istituto per la Certificazione Etica ed Ambientale (Icea), che certifica i prodotti tessili biologici in accordo allo standard internazionale Gots (Global Organic Textile Standard) e che ha organizzato la conferenza  “Tessile e fibre biologiche”, a Carpi nel giugno scorso: sono almeno 300 le aziende italiane che hanno chiesto la certificazione.

Alla base del boom ci sono più motivazioni. La principale è senza dubbio quella etica: scegliere un capo in tessile biologico significa fare una scelta salutare ma anche rispettosa dei diritti umani, visto che il sistema di produzione delle fibre bio è sostenibile. “Il cotone rappresenta il 90 per cento delle fibre biologiche trattate, poi ci sono anche lino, seta, lana e canapa”, spiega Foglia. “Nelle coltivazioni biologiche non si fa uso di prodotti chimici, pesticidi e insetticidi. Basti pensare che sulle colture di cotone tradizionale, che occupano il 2-3 per cento della superficie coltivata mondiale, viene utilizzato il 25 per cento del totale degli insetticidi e l’11 dei pesticidi”. Con conseguenze serie per gli agricoltori e le popolazioni rurali. Secondo l’Oms, tra 500 mila e 2 milioni di persone sono vittime ogni anno di incidenti da avvelenamento di cui 40 mila mortali. Inoltre nelle produzioni biologiche c’è il divieto di ricorso agli ogm e si fa uso razionale dell’acqua e rotazione delle colture per evitare l’impoverimento del terreno e limitare uso fertilizzanti chimici. Una produzione sostenibile, insomma, che tutela l’ambiente delle popolazioni dei paesi in via di sviluppo garantendo loro anche un cospicuo vantaggio economico, visto che il cotone biologico viene pagato il 20-30 per cento in più.

Ma se le imprese tessili si convertono alla filosofia verde, non è soltanto per motivi etici. C’è che il mercato, stimolato dai consumatori più accorti, è in espansione, soprattutto in Europa (76 per cento del totale del mercato dell’abbigliamento, seguita da Usa e Canada con il 21). A trainare la crescita della domanda sono stati i grandi marchi e rivenditori. Il numero di quelli che vendono prodotti in cotone bio è aumentato negli ultimi tre anni passando dai circa 200 del 2003 agli oltre 800 della prima metà del 2005. Nike, Sam’s Club, Coop Svizzera, Otto e Patagonia sono i principali acquirenti, in termini di volume, del cotone biologico. Nike è in testa con un consumo stimato di circa 2.041 tonnellate di cotone. Sam’s Club/Wall Mart ha acquistato negli ultimi dodici mesi circa 1.361 tonnellate. Svizzera, Otto e Patagonia consumano da 680 a 900 tonnellate per anno, prodotte per lo più in Turchia, India, Cina, Perù, Tailandia e Usa.

Per un’azienda, però, ottenere la certificazione, non è facile. Non basta cioè utilizzare le fibre bio, ma è necessario mettere in atto una serie di procedimenti manifatturieri che rispettino l’ambiente e facciano un uso efficiente delle risorse. “L’industria tessile usa l’acqua come principale mezzo per rimuovere impurità, applicare i colori e gli agenti di finissaggio, e per generare vapore. Il principale problema è, quindi, rappresentato dalla quantità di acque scaricate e delle sostanze chimiche in esse presenti”, continua Foglia. “Sebbene sia consentito l’uso dei coloranti sintetici e non solo vegetali, certe categorie sono escluse e sono accettati solo i solventi non pericolosi per la salute, in base alla tossicità ed ecotossicità, alla loro biodegradabilità e assorbimento nell’ambiente”.  Dunque l’obiettivo di un’industria che tratta fibre biologiche deve essere anche quello di minimizzare l’inquinamento e i rifiuti. Il ciclo di mercerizzo, responsabile dello scarico nelle acque reflue di una grande quantità di alcali che deve essere neutralizzata, è ammesso unicamente qualora i bagni di mercerizzazione siano recuperati e riutilizzati. Per quanto riguarda il candeggio, invece, è accettato solo quello con acqua ossigenata e non quello al cloro. Vietati molti finissaggi, come il trattamento anti-stiro e la resinatura sintetica.

Da questo punto di vista, tuttavia, l’Italia arriva un po’ in ritardo. “Il nostro istituto certifica oltre il 90 per cento delle imprese nazionali di tessile biologico. Oggi sono 60, due anni fa erano 10”, continua Foglia. “Per ora quelle in fase di certificazione sono 15 e fanno filati, tintorie, tessuti a maglia e denim destinati all’abbigliamento e al settore biancheria. A questi si aggiungono anche imprese che producono prodotti destinati al settore sanitario o della cura della persona come idrofilo, tessuto non tessuto, nettoyage”. La maggior parte di queste industrie però ha come cliente il soggetto intermedio della catena produttiva, per esempio il filatore o il tessutaio, e non il consumatore. Rispetto a quanto avviene nel resto del mondo, le grosse marche non hanno ancora investito in questo settore. “La scommessa è vedere se l’impresa tessile italiana convincerà anche chi fa moda ad alti livelli a entrare nel giro. Solo così, coniugando biologico e fashion-design, diventerà conveniente produrre dei capi di abbigliamento in fibre biologiche”. 

E c’è chi ha già raccolto la sfida. “La creatività di uno stilista si misura anche nella capacità di far luccicare qualcosa che non abbia morti e sciagure alle spalle”, ha detto Stefano Dominella, presidente dell’atelier Gattinoni e consigliere della Camera della Moda italiana intervenuto al convegno. “Se la moda non fosse sensibile al bio andrebbe contro le tendenze attuali e questo non è proprio possibile: la moda deve guardare al futuro”.

Roberta Pizzolante

Giornalista pubblicista dal 2005, è laureata in Sociologia e ha un master in "Le scienze della vita nel giornalismo e nei rapporti politico-istituzionali" conseguito alla Sapienza. Fa parte della redazione di Galileo dal 2001, dove si occupa di ambiente, energia, diritti umani e questioni di rilevanza etica e sociale. Per Sapere, bimestrale di scienza, si occupa dell'editing e della ricerca iconografica. Nel corso negli anni ha svolto vari corsi di formazione e stage nell'ambito della comunicazione (Internazionale, Associated Press, ufficio stampa della Sapienza di Roma, Wwf Italia). Ha scritto per diverse testate tra cui L'espresso, Le Scienze, Mente&Cervello, Repubblica.it, La Macchina del Tempo, Ricerca e Futuro (Cnr), Campus Web, Liberazione, Il Mattino di Padova. Dal 2007 al 2009 ha curato l'agenda degli appuntamenti per il settimanale Vita non Profit.

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