Narrano i Lie Zi: “Nello stato di Qi, alcuni temevano che il Cielo e la Terra potessero cadere e sprofondare, e che potesse mancare loro ogni sostegno; e tanto erano preoccupati che trascuravano il sonno e il cibo”.
Non solo in Cina, ma in tutte le grandi civiltà antiche (e moderne) c’è un (ideale) stato di Qi dove le persone trascurano (almeno in apparenza) le concrete faccende terrene e passano il tempo a occuparsi delle eteree questioni del cielo, preoccupati del “sostegno” logico e fisico che tiene su il mondo e studiando cosmologia, la scienza che indaga la struttura e l’evoluzione dell’universo intero. Tra i tanti abitanti di Qi sparsi per il pianeta, non sono davvero pochi quelli che “trascurano il sonno e il cibo” per affrontare il più astratto e il più fondamentale dei problemi: il problema cosmogonico. Come e quando e perché hanno avuto origine l’universo, il cielo e la terra, tutte le cose che vediamo intorno a noi e, in definitiva, noi stessi?
Il confronto sulle origini, benché talvolta sia solo indiretto, è vivissimo in tutto il mondo antico. E si risolve, spesso, nel confronto tra due grandi metafore. La metafora del tempo ciclico, fatta propria dalle culture che, per dirla con Mircea Eliade, hanno “il terrore della storia” perché hanno paura di un mondo in cui nulla vi è di stabile e permanente. E la metafora del tempo lineare, cui aderiscono le culture che, all’opposto, “amano la storia” e non hanno paura del divenire. Le prime cercano, per iterazione all’infinito dei processi cosmici, di eliminare di netto il problema, tremendo, dell’origine come atto unico, irripetibile e irreversibile. Le seconde, invece, accettano la grande sfida e si pongono alla ricerca dell’inizio e delle sue cause. Le due metafore del tempo dominano, molto più la prima che la seconda, nei diversi stati di Qi disseminati nello spazio e nella storia del nostro pianeta, così che si inseguono attraversano la scienza e la filosofia di tutti gli antichi. Ma, ancorché tutta metafisica, questa lettura del confronto sulle origini come contrapposizione delle metafore del tempo risulta tanto più interessante, in quanto continua ad attraversare la cosmologia scientifica dei moderni.
In Cina: la teoria dell’uovo cosmico e la scoperta dell’universo evolutivo
“Il Cielo e la Terra sono tutti mescolati insieme come un uovo, e dentro vi nasce il Pan Gu. Dopo 18 mila anni, Cielo e Terra si separano. Il chiaro yang diventa il Cielo e lo scuro yin diventa la Terra, e il Pan Gu sta nel mezzo e va incontro ogni giorno a nuovi mutamenti. Lo spirito è nel Cielo, la saggezza sulla Terra. Ogni giorno il Cielo si alza di uno zhang, e la Terra si abbassa di uno zhang. Così per 18 mila anni il Cielo diventa estremamente alto, la Terra estremamente profonda e il Pan Gu estremamente alto. Quindi oggi il Cielo è a 90 mila li dalla Terra”.
Non ha paura della storia, Xu Zhen. E dunque lo ha intuito. Quello che ci ospita, scrive nel San Wu Li Qi, il Calendario Tre-Cinque del periodo Han, è un universo in espansione. Un uovo che cresce ed evolve. Che ogni giorno, appunto, va incontro a nuove mutazioni, formando inedite strutture .
L’intera concezione cinese della natura, scrive Livio Gratton, si distingue per la quasi totale assenza di miti. Le grandi teorie cosmologiche cinesi non hanno elementi magici. Neppure la piu antica e ingenua, la cosmologia Kai Thien nata in epoca Shang, che insegnava come l’universo fosse formato da due volte concentriche: quella esterna, il Cielo, ruotando trascinava con sé il Sole e le stelle; la volta interna conteneva la Terra. Tra le due volte c’era un fossato, dove si raccoglievano le acque piovane.
Ma è la nuova visione dell’universo, la cosmologia Hun Thien affermatasi al tempo della dinastia Han, che a partire dal secondo secolo a. C. scopre, da un lato, il divenire evolutivo dell’universo nel tempo profondo, e dall’altro i termini quantitativi della questione. Così, nella cosmologia Hun Thien vediamo i principi primi, eterni e contrapposti dell’essere, lo yin e lo yang, iniziare a separarsi e a rimescolarsi per dar vita all’attuale struttura dell’universo. Non lasciamoci influenzare più di tanto dalla nostra incapacità ad afferrare il significato pieno di yin e yang, alla cui azione e alla cui interazione la filosofia naturale cinese fa risalire l’esistenza di tutte le cose. In questi due concetti non c’è nulla di mistico. Come ha scritto Livio Gratton, i concetti di yin e yang “non devono essere considerati piu metafisici di quelli di inerzia e di forza (energia) o di particelle e campi, in quanto sono termini interpretativi o descrittivi dell’universo fisico”.
“Il cosmo è come un uovo di gallina” spiega Zhang Heng, il piu grande rappresentante del cosmologia Hun Thien. “Il corpo del cielo è tondo come una pallottola. La Terra è come il tuorlo dell’uovo e sta sola all’interno del Cielo. Il Cielo è grande e la Terra è piccola. C’è acqua sulla superficie del Cielo e all’interno di esso. Il Cielo fascia la Terra come un guscio fascia il tuorlo dell’uovo. Cielo e Terra posano entrambi sul Qi e galleggiano sull’acqua. Il Cielo gira su se stesso come su un perno, incessantemente. La sua forma è confusa. Donde il nome Hun Tian”.
Ma, proprio come un uovo di gallina, sostiene Xu Zhen, l’uovo cosmico nel tempo si espande. Il guscio si allontana dal tuorlo. Tanto che oggi, calcola Xu Zhe, in 18 mila anni di espansione, il Cielo è giunto a 90 mila li di distanza dalla Terra. Ma se oggi il Cielo è giunto a 90 mila li di distanza dalla Terra, c’è stato un momento, 18 mila anni fa, in cui Cielo e Terra, guscio e uovo, formavano un tutt’uno. Si concentravano in un punto. C’è stato, dunque, un momento in cui l’uovo cosmico è nato. Un momento in cui hanno avuto inizio l’universo e la sua storia.
Già, ma come è nato quell’uovo? E chi è la gallina cosmica?
Come nota l’astrofisico Fang Li Zhi, coi suoi calcoli pone il problema dell’origine dell’universo. Ma né lui, né i fautori della terza grande cosmologia cinese, la Hsuan Yeh, saranno in grado di rispondere alle domande poste. Che, d’altra parte, ancora oggi restano le grandi questioni aperte della cosmologia.
In India: la giornata di Brahman
Le domande implicite nella cosmologia Hun Thien, vengono eluse dalla cosmologia indu del Rig Veda. Gli Indiani, a differenza dei Cinesi, hanno il “terrore della storia”. E, quindi, il terrore dell’inizio.
Non hanno, invece, il terrore delle misure quantitative. Così il loro approccio al problema dell’origine e la loro adesione alla metafora del tempo ciclico può contare su dimensioni ancora piu definite di quelle cinesi. Le prime notizie relative alla cosmologia indiana risalgono al II millennio a. C., epoca a cui risale la compilazione dei Rig Veda. Secondo gli Indiani l’origine del mondo, Dyauaprthivi, è data non dalla separazione, ma dall’unione del Cielo, Dyaus, e della Terra, Prthivi. Il Cielo dista dalla Terra da un minimo di 1.000 vacche messe una sull’altra, a un massimo di 1.000 giornate di cammino. In una cosmologia successiva questo spazio è occupato da un terzo elemento, l’atmosfera. Comunque al centro del cosmo vi è una montagna sacra, il Monte Meru (o Sumeru), forse costituita di oro, la cui cima è allineata alla stella polare e la cui ombra disegnata dal sole determina la notte e il giorno sulla Terra .
Nelle cosmologie successive a quelle del Rig Veda non mancherà di fare la sua apparizione la teoria dell’uovo cosmico (presente, peraltro, anche in Egitto). All’origine dell’universo vi sarebbe un piccolo uovo, brahmanda, l’uovo di Brahman. Grande 500 milioni di yoyana. Poiché un yoyana corrisponde a circa 14 chilometri, il diametro dell’universo primordiale nella visione indiana raggiungeva i 7 miliardi di chilometri: poco piu del diametro dell’orbita di Urano e poco meno del diametro dell’orbita di Nettuno.
Ma quell’uovo, cucinato in salsa indiana, non ha mai avuto origine. La filosofia naturale e l’intera cultura che è alla base della struttura socio-religiosa dell’India antica non potrebbero ammetterlo. Brahmanda è parte di un ciclo infinito. Il ciclo di Brahman. Che descriviamo in sintesi.
Una Luce Infinita permea di sé l’intero universo degli Indiani. Questa Luce è Brahman: la “Luce in sé luminosa, la Luce delle luci e la Luce divina di fronte a cui migliaia di Soli impallidiscono”, come recitano le Upanishad, i componimenti di carattere filosofico che cercano la spiegazione della realtà ultima. Brahman è dunque il principio energetico trascendente della cosmologia indiana. L’Essere Primordiale di cui i corpi celesti luminosi, sole, luna, pianeti, stelle, sono i componenti visibili. Persino gli dei vedici sono considerati pure manifestazioni della Luce Infinita.
Ma quello che a noi preme, in questa sede, non è tanto l’essenza di Brahman, quanto il modo in cui spende il suo tempo. Nel corso della sua giornata, che dura 1.000 mahayuga, ovvero 4 miliardi e 320 milioni di anni, Brahman crea il mondo e ne determina lo sviluppo. Ma alla lunga giornata creativa segue una notte altrettanto lunga. Nel corso della quale Brahman si impegna a distruggere tutto quanto ha creato. Poi si ricomincia daccapo. In un ciclo, di 9 miliardi di anni, senza fine. E senza esito.
Così, in questo eterno ritorno di creazione e distruzione, gli Indiani eludono il problema dell’origine posto dai Cinesi e non ancora risolto.
Nelle pianure dell’Eufrate: dove la creazione dell’universo somiglia alla creazione dell’impero
E’ l’ottavo millennio avanti Cristo. Alcuni popoli lasciano le montagne e raggiungono le fertili pianure dell’Eufrate. Si chiamano Sumeri. Portano con sé la propria cultura. E la propria visione dell’universo. Ma, vista dalla pianura, ogni cosa assume un’ottica diversa. E così si trovano ben presto nella necessità di rivedere entrambe. Come i Sumeri abbiano modificato la propria cultura esula dagli scopi di questa indagine. Come abbiano modificato la propria, semplice cosmologia è invece di nostro interesse. Quando abitavano sugli altipiani a ridosso delle alte cime dell’Himalaya era logico che ponessero una grande montagna a centro di tutte le cose. E la loro cosmologia coincidesse con quella indiana. Ma ora che l’orgoglioso popolo abita in pianura è davvero difficile continuare a sostenere che, per quanto sacra, sia una montagna il centro del mondo.
Così i Sumeri modificano la loro antica cosmologia. Spostando su un lato la sacra montagna. E portando la pianura al centro del cosmo .
I Sumeri decidono così di sacrificare la stabilità dell’universo per adattarlo al loro mutato punto di osservazione. I popoli che ne ereditano la terra e la cultura, gli Assiri e i Babilonesi, ben presto si avvedono della precarietà di quella soluzione. E, non osando abbandonare del tutto quella instabile struttura, cercano il modo di conferirle un minimo di equilibrio statico. Così pongono dei pilastri, che coi Greci diverranno le colonne d’Ercole, a reggere le orbite astrali sul lato opposto alla Montagna Sacra. Ma il cielo è un vasto emisfero solido. Gli architetti assiri e babilonesi sanno bene che poggiata solo sui due pilastri ai lati estremi quella immensa cupola potrebbe collassare al centro. Così i cosmologi pensano di elevare una torre a sostenere la volta celeste. La Torre di Babele. Tanto meglio se quel primordiale “scudo spaziale”, capace di evitare la catastrofe cosmica, fa coincidere Babilonia col centro del mondo.
La cosmologia dei babilonesi resta avvinta al mito, malgrado la progressiva matematizzazione consenta alla loro astronomia di raggiungere notevoli risultati scientifici.
Non meno mitologica e opportunista è la cosmogonia dei sumero-babilonesi. Che intanto scopre la creazione, anche se non quale atto unico e iniziatore. Dopo l’affermazione degli Akkadi nelle città stato sumeriche (metà del III millennio a. C.), infatti, proprio come l’imperatore babilonese porta ordine nella valle dell’Eufrate, il dio Marduk separa gli dei in lotta e crea il cosmo dal caos primordiale, collocando il padre Enlil a governare sulla Terra, con Babilonia al centro, il nonno Ea a dominare in Cielo e il bisavolo Apsu nel mondo sotterraneo .
C’è, dunque, nella primordiale cosmologia babilonese un tentativo di soluzione del problema dell’origine che si contrappone al teorema indiano dell’eterno ritorno. Ma è una soluzione mitologica. E opportunista. In cui, come nota Livio Gratton, la creazione dell’universo che dà origine alla storia cosmica diviene un tutt’uno con la creazione dell’impero universale babilonese che dà origine alla storia terrena.
La narrazione dell’origine trova nel II millennio a. C. una notevole dimensione letteraria nell’Enuma elish, un vero e proprio poema cosmogonico. Che inizia così:
“Quando, in alto, i cieli non avevano un nome,quando, in basso, la terra non aveva un nome,quando anche l’Apsu primordiale,il procreatore degli dèi,e Mummu Tiamàt, che tutti li partorì,mescolavano insieme le loro acque,(le acque dolci di Apsu,le acque salate di Tiamàt)…”
In questo scenario ci sono alcuni elementi molto interessanti. Esiste un prima, antecedente alla creazione del cosmo. In questo tempo in cui il cielo e la terra non avevano ancora un nome, e quindi non esistevano, non c’era il nulla. C’era il caos. Un caos, peraltro, non totale. Ma con un minimo di struttura. Dove era possibile distinguere un alto e un basso.
In questo tempo le due divinità primordiali, Apsu, l’elemento maschile, e Tiamàt, l’elemento femminile, non sono ancora separate. E formavano un tutt’uno. Una miscela di acque dolci e salate. L’origine del cosmo narrata dall’Enuma elish ha un deciso carattere evolutivo. La nascita del mondo, l’emergere dell’ordine dal (semi)caos è contestuale alla nascita e alla definizione delle divinità che lo governeranno.
Gli Ebrei e la rottura della simmetria del tempo
“In principio Dio creò il Cielo e la Terra. La Terra era una massa senza forma e vuota; le tenebre ricoprivano l’abisso, e sulla acque aleggiava lo spirito di Dio. Iddio disse: ‘Sia la luce’, e la luce fu. Vide Iddio che la luce era buona e separò la luce dalle tenebre; e chiamò la luce ‘giorno’ e le tenebre ‘notte’. Così fu sera, poi fu mattino: primo giorno”.
Nei primi versetti della Genesi, scritti almeno un millennio dopo l’Enuma elish, ci sono molte analogie, ma anche drastiche diversità rispetto al poema cosmogonico babilonese. E’ vero che c’è un mondo informe e oscuro da cui Dio crea l’universo attuale. Ma il Dio degli Ebrei è esterno e preesistente a questo mondo. Tanto che può non solo mettere ordine, ma creare, nel senso pieno del termine, il cosmo con una serie di atti unici e irripetibili. La Creazione biblica è la rottura, non spontanea, della simmetria del tempo.
Con questa narrazione gli Ebrei introducono la metafora del tempo lineare nel confronto sulle origini. Nonostante che mai, in nessun periodo della loro storia, gli Ebrei sviluppino una loro originale cosmologia. Tanto meno una loro cosmologia “scientifica”, svincolata dal mito. La struttura dell’universo ebraico è una chiara derivazione sumero-babilonese. La separazione della terra dalle acque è un tema ricorrente di molte antiche cosmogonie: la si ritrova non solo tra i sumero-babilonesi, ma anche in Cina, in India e in Egitto. Persino il “mito della creazione” è ripreso, come abbiamo visto, dai Sumeri e dai Babilonesi. Il Dio, unico, degli Ebrei, tra l’altro, non crea ex nihilo, dal nulla, ma crea l’ordine cosmico dal caos.
Ma, ecco la novità, gli Ebrei introducono nella storia dell’universo, in modo molto più netto di quanto abbiano fatti i Babilonesi e i Cinesi il tempo lineare, la successione di atti irreversibili. In questo facilitati dall’essenza monoteistica della loro religione. La Creazione da parte di un Dio unico, di un Artefice Sommo, è l’atto piu solenne e straordinario, l’elemento di rottura più netto che si possa immaginare. E’ l’Origine. Questa non è una novità da poco. Perché sarà proprio la metafora ebraica del tempo lineare, ereditata dai cristiani, che ritroveremo per secoli in occidente a confrontarsi sulla storia dell’universo con la metafora del tempo ciclico, nell’interpretazione del pensiero greco.
I Maya e la catastrofe del tempo
Dall’altra parte dell’Oceano, una cultura tagliata sostanzialmente fuori da ogni sorta di comunicazione coi popoli dell’Eurasia, quella dei Maya, elabora una propria metafora del tempo ciclico. I Maya pensano che la storia, terrena e cosmica, si ripeta uguale a se stessa ogni lamat, l’elemento fondamentale del loro calendario, che corrisponde a 260 dei nostri anni. Nella visione maya anche le catastrofi si ripetono con regolare ciclicità. Tanto che nel 1698, quando un gruppo di Spagnoli sbarcò nei loro territori, una tribu, quella degli Itza, fuggì terrorizzata senza colpo ferire, convinta che il ciclo del tempo si fosse compiuto e fosse ormai giunta l’ora del disastro. Avevano ragione. Anche se per mera coincidenza.
I Greci tra origine ed eterno ritorno
A partire dal VI secolo a. C. la filosofia greca, come si sa, scopre la “potenza della ragione” ed emancipa, come e più dei cinesi, la scienza dal mito. Una descrizione articolata della cosmogonia, anzi delle cosmogonie, dei Greci impegnerebbe davvero molto spazio. Tuttavia anche nella narrazione dell’origine del mondo tutti i filosofi Greci cercano di svincolarsi dal mito. Ciò non toglie che ci siano molte cosmogonie. E alcune molto differenti tra loro. Il pensiero razionale cosmologico dei Greci non riesce a sfuggire dal solco delle due metafore del tempo. Ma, anzi, le ripropone con straordinaria lucidità.
Anassagora e Platone, per esempio, sembrano aderire alla metafora del tempo lineare, perché propongono un vero e proprio inizio per il cosmos, il tutto armoniosamente ordinato, emerso dal caos con un medesimo atto creativo di un agente esterno: l’Intelletto per Anassagora, il Demiurgo per Platone. Certo il caos primordiale di Anassagora è profondamente diverso da quello che Platone descrive nel Timeo. Per il filosofo di Clazomene si tratta di un caos qualitativo, in cui i principi elementari del mondo attuale già esistono, solo che si trovano mescolati in un’unica, immensa, immobile e indistinta soluzione. Questo stato degenere senza tempo, dove nulla si muove e nulla accade, impedisce la formazione di strutture e, soprattutto, di strutture vitali. L’Intelletto, ad un certo punto, rompe l’assoluta simmetria del caos primordiale e crea l’ordine, imprimendo un moto vorticoso che consente al mondo informe di strutturarsi, e ai principi elementari di iniziare a distinguersi e a rimescolarsi. Insomma, l’Intelletto dà avvio al divenire dell’universo. Che da allora inizia ad espandersi senza fine.
C’è una notevole differenza tra il dinamismo di quello che noi oggi consideriamo il brodo primordiale (quantistico) da cui è nato il nostro universo e il mondo primigenio senza divenire immaginato da Anassagora. Ma c’è poi un’analogia davvero forte tra la cosmogonia di Anassagora e il nostro modello del Big Bang.
Al contrario, il caos primigenio di Platone è molto piu simile alla nostra idea di caos (non quantistico). Platone descrive un mondo primordiale in cui la materia si muove di un moto, appunto, disordinato e del tutto imprevedibile. Quando, infine, interviene, il Demiurgo non crea il cosmos. Si limita a conferire un equilibrio a questo sistema instabile. Si limita, con una atto gratuito di volontà e di amore, a mettere ordine al caos. In ogni caso, sia l’Intelletto creatore di Anassagora che il Demiurgo ordinatore di Platone compiono un atto unico e irripetibile. Entrambi segnano l’inizio dell’universo. E conferiscono una direzione precisa al tempo.Solo il caso, la necessità e l’eternità hanno forgiato il nostro universo, assicurano Epicuro e gli atomisti. Muovendosi nel vuoto e seguendo leggi puramente meccaniche, i diversi atomi si sono incontrati per quel principio naturale di indeterminazione che è il clinamen, dando luogo, per mera probabilità, alle strutture del nostro come di altri infiniti universi. Va da sé che nel mare dell’infinito spazio-temporale, il nostro universo evolutivo e la nostra storia si dissolveranno per poi ritornare, magari, sui propri passi in una danza ciclica, casuale e necessaria, senza inizio e senza fine. Uno stato stazionario dinamico è la condizione dell’universo. Anzi, del meta-universo dove, come nel meta-universo di Stephen Hawking, “non c’è nulla da fare per un creatore”.
Siamo, infine, ad Aristotele. Ossia al filosofo greco che influenzerà per almeno due millenni il pensiero naturale in Occidente. Aristotele rifiuta tanto l’idea di “creazione”, con un “inizio” e, forse, una “fine” del cosmo, quanto l’idea atomistica di “caos” e di “caso”. Immaginare che l’universo sia emerso da uno stato caotico originario, sostiene il filosofo di Stagira, non è poi molto diverso che immaginarlo “generato dalla Notte”. No, la perfezione non emerge dall’imperfezione. Il cosmo, il tutto armoniosamente ordinato, non può essere stato né creato né generato dal caos. Non può avere un’origine. L’universo, semplicemente, è. Eterno e ingenerato. Come scrive Oddone Longo, l’universo che immagina Aristotele è “bloccato in una raggelante simmetria” tra un infinito temporale passato e un infinito temporale futuro. In una condizione perenne e statica di stato stazionario.E tuttavia in questa cristallina simmetria del tempo e in questa sferica staticità del cosmo, alcune cose accadono. Noi uomini avvertiamo il divenire. Per eliminare questa contraddizione, Aristotele ricorre alla metafora del tempo ciclico. Scrive nella Fisica: “Le vicende umane sono un circolo; e ciò vale anche per le altre cose che abbiano un movimento naturale e siano soggette al nascere e al perire. E ciò si dice perché tutte queste cose sono discriminate dal tempo e perché assumono una fine e un principio, come se fossero lungo una circonferenza”.Gli stoici prenderanno alla lettera questa sorta di teorema dell’eterno ritorno. E ne concludono che ogni qual volta i pianeti e le loro sfere cristalline ritornano a occupare la medesima posizione relativa, la storia dell’universo ritorna sui suoi passi. Scrive Nemesio, vescovo di Emesia nel IV secolo d. C.: “Socrate, Platone e tutti i singoli individui rivivranno, insieme ai loro amici e ai loro concittadini. Rifaranno le stesse esperienze e svolgeranno le stesse attività. Ogni città, ogni villaggio, ogni campo rinascerà tale e quale. E questa rinascita dell’universo non avrà luogo una volta sola, ma più e più volte, senza fine, per tutta l’eternità”.
La metafora della freccia del tempo, proposta dalla cultura ebraica ed ereditata dalla cultura cristiana, e la metafora del tempo ciclico, proposta dalla filosofia greca, si inseguono per tutta la storia della cultura (e della cultura scientifica) occidentale. Ma nella cosmologia scientifica netta è la prevalenza, fin quasi ai nostri giorni, della metafora del tempo ciclico adottata da Aristotele.Se la fisica del filosofo di Stagira regge fino a Galileo e all’avvento, nel ‘600, della nuova scienza, la sua cosmologia, invece, con quel modello di universo in una condizione stato stazionario, regge fino al ‘900 inoltrato. Appena scalfita dalle ipotesi della nebulosa primordiale con cui sia Immanuel Kant che Pierre Simon de Laplace tenteranno, a cavallo tra ‘700 e ‘800, di spiegare la formazione del sistema solare. La perfezione raggelata e un po’ “raggelante” del modello cosmologico di Aristotele riuscirà a influenzare persino Albert Einstein, che ancora nel 1920 fallisce nel tentativo di trovare una soluzione alle sue equazioni cosmologiche pur di non rinunciare all’idea di un universo in statico equilibrio gravitazionale. Occorreranno la giovane creatività del matematico russo Alexander Friedman e le acute osservazioni dell’americano Edwin Hubble per infrangere il modello aristotelico e rilanciare l’idea di un universo dinamico in espansione.
La cosmogonia scientifica contemporanea
La cosmogonia scientifica contemporanea, per quanto strano possa sembrare, non si sottrae dall’impostazione antica data al confronto sulle origini. Il modello del Big Bang caldo, proposto per primo alla fine degli anni ‘40 da George Gamow, rompe la simmetria del tempo e ripropone un punto in cui il nostro universo, compreso lo spazio e il tempo, hanno origine. Anche se, come la cosmologia Hun Thien, non riesce ancora a rispondere alle domande su come è nato l’uovo cosmico e chi è stata la gallina. Ci riuscirà la quantum cosmology?Il modello dello stato stazionario proposto qualche tempo dopo da Fred Hoyle, Thomas Gold e Hermann Bondi e (forse momentaneamente) sconfitto dalle osservazioni astrofisiche, ha invece qualche analogia non banale con lo stato stazionario del greco Epicuro e, magari un po’ meno, con lo strano stato stazionario di Brahman proposto degli indiani Rig Veda. Mentre i piu recenti modelli di universi frattali, paralleli e autosomiglianti, di Andrei Linde sembrano riproporci in chiave moderna la metafora del tempo ciclico, in cui ogni inizio ha una sua realtà e un suo significato unicamente locale.
Il confronto sulle origini, dunque, continua. Sempre diverso. E, in fondo, sempre uguale.
Bibliografia
(1) L. Gratton, Cosmologia, Zanichelli, 1987
(2) Fang Li Zhi e Li Shu Xian, La creazione dell’universo, Garzanti, 1990
(3) F. Bertola, M. Calvani e U. Curi (a cura di), Origini, Il Poligrafo, 1994
(4) U. Curi (a cura di), Kosmos, Gabriele Corbo, 1989
(5) J. L. E. Dreyer, Storia dell’astronomia da Talete a Keplero, Feltrinelli, 1980
(6) J. P. Verdet, Storia dell’astronomia, Longanesi, 1995
(7) P. Coveney e R. Highfield, La freccia del tempo, Rizzoli, 1991
(8) S. K. Biswas, D.C.V. Mallik e C. V. Vishveshwara (a cura di), Prospettive cosmiche, Muzzio, 1991
(9) S. J. Gould, La freccia del tempo, il ciclo del tempo, Feltrinelli, 1989