Il costo della discriminazione

Ancora oggi in molti paesi del mondo, e non solo in quelli in via di sviluppo, le donne non godono dello stesso trattamento riservato agli uomini. Una situazione su cui periodicamente le organizzazioni umanitarie attirano l’attenzione dei governi, ma che non riscuote il giusto interesse politico. Il Fondo delle Nazioni unite per la popolazione ha allora deciso di puntare l’indice sui costi sociali con cui la disuguaglianza pesa sui budget delle nazioni. Se ne è discusso durante la presentazione del rapporto su “Lo stato della popolazione nel mondo 2000”, redatto dall’Unfpa e la cui versione italiana è curata dall’Aidos (Associazione italiana donne per lo sviluppo), svoltosi lo scorso mercoledì a Roma.

“Vivere insieme, in mondi separati. Uomini e donne in un periodo di cambiamenti”, questo il titolo italiano del rapporto, punta l’attenzione proprio sulla mancanza di “uguaglianza di genere”, sui milioni di donne che subiscono abusi e violenze – soprattutto in famiglia – e mutilazioni ai genitali, a cui viene negata l’istruzione e l’assistenza sanitaria. Per non parlare delle discriminazioni sul luogo di lavoro e delle disparità di trattamento economico.

Atteggiamenti che hanno un costo sociale ed economico preciso nei paesi più poveri, dove il mancato riconoscimento dei diritti alle donne e gli scarsi investimenti sembrano essere direttamente proporzionali alla mancanza di progresso economico e sociale. Basti pensare che un aumento di appena l’1 per cento delle ragazze iscritte alle scuole superiori produce una crescita economica dello 0,3 per cento. Come nel caso delle cosiddette tigri asiatiche (Corea del sud, Taiwan, Singapore, Hong Kong). I tassi di crescita economica – fino all’8 per cento annuo – che hanno caratterizzato le loro economie tra gli anni Sessanta e Ottanta ” sono conseguenza soprattutto degli investimenti fatti per migliorare la salute e l’istruzione delle donne”, spiega Daniela Colombo, presidente dell’Aidos.

Un altro esempio della potenzialità del femminile viene dal Kenya. Qui è stato dato alle imprese gestite da donne lo stesso contributo finanziario concesso agli uomini: l’incremento del rendimento agricolo è risultato superiore al 20 per cento. Anche la mancata attenzione alla salute delle donne ha un costo oltreché umano anche economico e sociale. Ogni anno in Africa, Asia e America Latina 38 milioni di donne conducono gravidanze senza alcuna assistenza sanitaria e più di 52 milioni partoriscono senza aiuti, rischiando la propria vita e quella del nascituro. Solo per questo, ogni anno si calcolano 8 milioni di nati morti o di decessi neonatali. In questi paesi, il tasso di mortalità materna si ridurrebbe anche di un quinto se esistessero efficaci cure post-aborto.

La disuguaglianza di genere è responsabile anche dell’espandersi dell’Aids fra le donne, costrette a subire rapporti sessuali senza poter decidere come e quando, e senza poter prendere le necessarie precauzioni. E in alcuni paesi l’epidemia ha ridotto dello 0,5 per cento annuo il prodotto interno lordo pro capite.

Anche la violenza contro le donne ha dei costi: gravidanze indesiderate, aborti a rischio, malattie veneree, problemi psicologici. Ogni anno in Giordania tra le 25 e le 50 donne sono vittime di delitti d’onore; in Pakistan addirittura quasi mille. Tutti omicidi giustificati il più delle volte sul piano culturale e religioso. Ma nemmeno i paesi occidentali possono considerarsi immuni da certe pratiche: negli Stati Uniti, per esempio, la violenza sulle donne costa agli imprenditori quasi quattro miliardi di dollari l’anno a causa delle assenze dal lavoro, delle sostituzioni, dell’assistenza e del calo di produttività. In Canada questi costi ammontano a circa 900 milioni di dollari.

Un panorama desolante in cui le azioni delle organizzazioni non governative impegnate sul campo riescono a ottenere piccoli traguardi. Ma l’appello dell’Unfpa è chiaro: per raggiungere risultati concreti, è indispensabile un cambiamento nella mentalità maschile. Là dove gli uomini sono coinvolti in programmi di pianificazione familiare, per esempio, i risultati non si sono fatti attendere. È il caso delle Filippine, dove si è osservato che le violenze domestiche sono meno frequenti quando fra i coniugi c’è dialogo. In India, alcuni operatori sanitari hanno spinto altri uomini a interessarsi alla salute delle donne e in Mali e in Nicaragua il coinvolgimento degli uomini ha contribuito a ridurre le violenze e a sostenere la causa dell’occupazione femminile. E ancora, conclude Colombo, “in Egitto gli uomini hanno iniziato a voler sapere di più sulla salute riproduttiva dopo alcuni aborti spontanei delle moglie. In Mali c’è stato un incremento dell’interesse verso i metodi anticoncezionali quando a distribuirli c’erano degli uomini. Ma c’è ancora molta strada da fare”.

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