Il fascino appannato della ricerca

Se bastassero i generalizzati richiami circa la rilevanza dell’innovazione nel determinare le condizioni di successo di una economia e di una società nello sviluppo e nella competizione internazionale ci sarebbe da stupirsi come mai molte realtà, anche nella “ricca” Europa, preferiscano impiegare diversamente le proprie risorse. Impietosamente un agile volumetto (European Commission 2001a), prodotto lo scorso anno dalla Commissione Europea nel quadro dell’analisi delle politiche per la ricerca e l’innovazione, e volto a rappresentare il posizionamento europeo nei confronti dei naturali competitori (Stati Uniti e Giappone), fotografa non solo lo stato di salute dell’Unione, ma sgrana il plotone dei paesi membri tra chi guida, chi sta nel gruppo e chi insegue. Intendiamoci, la lettura dei dati non aggiunge nulla di rivoluzionario alle percezioni diffuse e già segnalate in altre circostanze.

Se pero’ tale lettura viene integrata con altre analisi comparative – ad es. lo Scoreboard, promosso sempre dalla Commissione Europea (European Commission 2001b) o il corrispondente ed analogo lavoro dell’Ocse (OECD 2001) – il panorama si presenta più articolato.In termini quantitativi il deficit dell’investimento in ricerca riscontrato a livello europeo è prevalentemente concentrato nel settore delle imprese. Anche i paesi membri più competitivi esprimono una propensione alla ricerca industriale (con i fondi delle stesse imprese) inferiore a quella di Giappone e Stati Uniti. Per non parlare dei paesi del bacino mediterraneo fortemente dipendenti dall’intervento pubblico (anche in sostegno delle imprese stesse). Le tendenze che si manifestano in forma generalizzata a livello di dimensione europea per quanto riguarda la definizione di politiche in favore dell’innovazione e della ricerca, possono cosi’ essere sintetizzate:- diminuisce (pur con qualche eccezione) il sostegno diretto alle grandi imprese (nella forma dei contributi e sussidi) mentre cresce l’intervento mirato (e di natura addizionale), comunque caratterizzato da una quota di co-finanziamento da parte delle imprese partecipanti.

Tra l’altro, ciò favorisce il consolidarsi di una ricerca a carattere fondamentale sviluppata in ambito industriale o da esso fortemente influenzata;- il comportamento delle politiche pubbliche si diversifica nei confronti delle piccole e medie industrie, sia in ragione delle diverse regole comunitarie, sia perché grande enfasi è ovunque posta al sostegno alla nascita di nuove imprese tecnologiche (la carenza nel processo di valorizzazione economica delle potenzialità scientifiche è un elemento che caratterizza – in negativo – l’Europa nel confronto internazionale);- il miglioramento delle relazioni tra ricerca ed impresa, e tra scienza e società, costituisce un imperativo diffuso; per raggiungere tale obiettivo si segnalano interventi in favore delle condizioni di contesto, meccanismi premiali verso i soggetti coinvolti, iniziative pilota volte a generare effetti imitativi, mutamenti di missioni delle istituzioni pubbliche di ricerca per favorirne un maggior coinvolgimento;- la dimensione sub-nazionale (regionale e locale) non si limita ad essere il punto di partenza della domanda (ed il punto di arrivo dell’offerta) di prodotti scientifici e tecnologici ma tende ad assumere una valenza autonoma, a stabilire direttamente reti di relazioni ed iniziative strategiche nel campo della scienza e della tecnologia: questo sia in regioni in ritardo di sviluppo attraverso il contributo dei Fondi Strutturali, sia nelle aree più avanzate secondo la logica dei “motori dello sviluppo”;- il capitale umano e, più in generale gli intangible assets, rappresentano il vero valore aggiunto che differenzia i diversi paesi e sui quali le politiche di sviluppo devono saper agire nel lungo termine, a causa della natura cumulativa e strutturale delle differenze; ma le stesse politiche devono anche saper cogliere in tempo reale le tendenze per indirizzare comportamenti e modificare fenomeni di non facile immediata percezione.Attorno a quest’ultimo punto, da tempo, si è aperta una riflessione di ordine metodologico ma con rilevanti aspetti contenutistici.

Le risorse umane direttamente impiegate in ricerca e sviluppo, infatti, costituiscono un “di cui”, tutto sommato limitato (nella dimensione, ma anche spesse volte nel tempo) non solo della forza lavoro complessiva ma anche dell’insieme di coloro che acquisiscono una competenza di base per poter potenzialmente esercitare attività tecniche e scientifiche. Inoltre, in un mondo caratterizzato da frontiere aperte e da barriere mobili nei mercati del lavoro questa “forza lavoro” è sottoposta a molti possibili sbocchi: di conseguenza, va sicuramente associato al momento formativo l’offerta di positive opportunità lavorative, pena il continuo drenaggio di risorse costose (e sottoposte a lunga gestazione) verso mercati più competitivi e stimolanti. Senza dimenticare che, per qualificare questo “capitale”, pur non potendo prescindere da interventi strutturanti sul canale dell’alta formazione (università ed istituzioni scientifiche), vanno sostenute modalità di investimento sulla professionalizzazione on the job, nonché garantire opportunità di ingresso, di motivazione, di aggiornamento, ma anche di uscita dallo specifico mondo del lavoro della ricerca.

Gli interventi relativi al capitale umano per la ricerca presentano perciò notevoli specificità, nonché devono manifestare una capacità evolutiva nel tempo, per sapersi adattare al mutare delle esigenze e delle caratteristiche del lavoro scientifico.Per tornare alla misurazione quantitativa illustrata dagli indicatori richiamati nel paragrafo precedente, i parametri utilizzati per l’analisi comparata (percentuale di ricercatori rispetto alla forza lavoro, ostacoli alle carriere scientifiche, mobilità e brain drain, percorsi evolutivi ed opportunità di valorizzazione delle competenze), registrano una realtà europea “debole”, ulteriormente penalizzata dalla fragilità delle iniziative in atto per invertire la tendenza.

E’ inutile ricordare che in questo scenario l’Italia manifesta una grave difficoltà (numero dei ricercatori stagnante e ad invecchiamento crescente, direzionalità dei flussi verso l’estero, scarsa attrattività dei percorsi formativi nelle scienze naturali ed esatte ma anche scarsa ricettività per nuove posizioni lavorative nel mondo della ricerca. Senza dimenticare la tradizionale struttura duale della carriera tra ricerca e management, che tende a privilegiare quest’ultima funzione, e che dal mondo dell’impresa sembra oggi estendersi anche alle istituzioni pubbliche (anche se meno all’università), finendo con il penalizzare un investimento di lungo periodo nei soli termini scientifici.Sembra dunque ribaltarsi (o per lo meno modificarsi) una percezione diffusa che ha assegnato al mondo della ricerca (e, allo stesso tempo, alle sue idealizzazioni e ai concreti privilegi) un fascino particolare. Un fascino esercitato dal poter progettare e realizzare compiutamente il contenuto e le modalità del proprio lavoro, unitamente all’arricchimento (diretto ed indiretto) delle proprie competenze e conoscenze, che – se accompagnato da quello che in linguaggio marxiano poteva essere chiamata la proprietà o almeno il dominio dei mezzi di produzione – ha da sempre rappresentato la molla determinante nell’attrarre verso il mondo della ricerca una domanda assolutamente superiore all’offerta di disponibilità di posizioni lavorative.

Se nel passato l’asimmetria tra domanda ed offerta aveva finito per alimentare ulteriormente tale fascino, generando “liste d’attesa”, ma anche comportamenti deviati e finalizzati all’ottimizzazione di quei parametri ritenuti necessari per l’inserimento, il rischio che sembra profilarsi oggi riguarda un’ulteriore distorsione nei meccanismi di selezione. Infatti, mentre le scelte (esplicite ed implicite) di inserimento non hanno favorito la coerenza nel dare seguito, in favore dei migliori, alle aspettative che erano state riposte nei confronti del mondo scientifico in quanto portatore di specifici valori, oggi il problema sembra includere la natura stessa, e le caratteristiche, dell’universo di riferimento entro il quale poter effettuare tali scelte.

Il bacino costituito dai giovani che si avvicinano alla ricerca risulta cioè condizionato da fattori (minor attrattività delle opportunità scientifiche, caduta dei valori fondanti, crisi del contributo degli scienziati alla società vissuto come corpo separato e sostanzialmente autoregolato, emersione delle contraddizioni collegate allo sviluppo scientifico, forte impronta tecnologica all’ambiente economico e sociale non accompagnata, pero’, da una diffusione della cultura corrispondente) che, unitamente al persistere di una limitatezza nelle opportunità retributive nei confronti dei valori del mercato esterno, stanno portando ad una rarefazione delle candidature e, di conseguenza, ad un peggioramento delle possibilità di poter selezionare i migliori ed i più vocati.Il mondo della scienza, infatti, si caratterizza per una costante apertura (interscambio di informazioni, mobilità di idee e persone), ma anche per una condivisione di regole non sempre formalizzate o formalizzabili (i valori etici, ad esempio) oltre che per il rigore scientifico (nel metodo, attraverso la riproducibilità del lavoro sperimentale e nel merito, attraverso il continuo confronto ottenuto per mezzo della diffusione e divulgazione dei risultati raggiunti).

Il rispetto di queste condizioni è perciò volto, attraverso la loro integrazione, al raggiungimento di una migliore performance nell’impiego delle risorse per mezzo di una selezione naturale (di idee ma anche di persone) essenzialmente basata sul rispetto reciproco e sull’espressione di pareri attraverso meccanismi basati sulla cooptazione ed il giudizio dei pari. Non che tali modalità non presentino problemi. Ad esempio, tra le varie critiche manifestate nei confronti delle procedure organizzative della ricerca una si è rivelata particolarmente puntuale: è quella relativa al rischio conservativo che tale modello manifesta nei confronti del nuovo. Critica rilevante se riferita alle trasformazioni che i mutamenti nel mondo del lavoro hanno introdotto negli ultimi anni.Una politica per la scienzaDa questo punto di vista la comunità scientifica sembra sempre più divaricarsi in un sistema a due velocità. Da una parte quell’area guidata da una logica di “grande investimento”, sia esso un’importante apparecchiatura scientifica, un esperimento di rilevante dimensione o una complessa macchina organizzativa. Basti pensare, rispettivamente, al mega telescopio, al lancio di un satellite o al Progetto Genoma.La contaminazione di questa componente del mondo scientifico, nei più diversi aspetti, con gli interessi economici ed industriali risulta evidente dalle dimensioni economiche in gioco nella realizzazione ma anche, molto spesso, nell’utilizzo dei risultati e nello spillover delle attività.

Il concetto di large scale facilities, limitatamente all’impiego del personale tecnico e di ricerca, è andato crescendo di importanza (anche nei suoi aspetti figurati) al crescere della dimensione dell’oggetto della condivisione scientifica tra i diversi partecipanti.Ma se in questo caso si può parlare dell’evoluzione di un fenomeno già in corso (basti pensare all’organizzazione strutturata della ricerca per come si è manifestata nel primo ma soprattutto nel secondo dopoguerra del secolo scorso), è sull’altra dimensione del fenomeno, la componente soft della ricerca, che si registrano i maggiori cambiamenti nei termini di organizzazione del lavoro. Per una corretta interpretazione del problema va anche qui introdotta una distinzione tra quelle aree che rimangono più tradizionalmente collegate alla propria origine e quelle invece maggiormente contaminate sia nei termini di effettiva interdipendenza ed interdisciplinarietà, sia in quanto “ri”-strutturate su parametri direttamente influenzati dalle ICT (tecnologie dell’informazione e della comunicazione).

Si pensi in proposito ad aree come la bioinformatica, assenti anche concettualmente poche decine di anni fa, aree in cui il sistema delle competenze necessario al progredire può essere considerato il risultato della sovrapposizione tra un livello verticale di competenza specifica, spesse volte con caratteristiche di originalità e, contemporaneamente, il ricorso a forme di acquisizione e sperimentazione di conoscenze, esercitate a tutto campo, favorite dalle opportunità della società dell’informazione e delle tecnologie che in essa vivono. Se ci limitiamo a considerare gli effetti che ne derivano sull’organizzazione del lavoro scientifico, escludendo quindi gli aspetti connessi alle modalità di “produzione” scientifica nonché alcune componenti rilevanti relative “all’accesso” ai (e al “possesso” dei) saperi in forma cumulativa, emerge la tendenza, comune a tutta la dimensione soft del mondo della ricerca, verso una maggior disponibilità nel godere di gradi di libertà impensabili sino a pochi anni fa.

Lo stesso paradigma delle reti, sempre più virtualmente realizzate attraverso la costituzione di “collegi invisibili” che costituiscono al tempo stesso l’opportunità di una massa critica necessaria per affrontare problemi complessi con organizzazioni complesse pur tuttavia elastiche, flessibili ed articolate nel tempo nei termini delle risorse, delle competenze e delle figure necessarie, ma anche il naturale autoreferaggio interno sul procedere del lavoro comune, si misura oggi con la potenziale disarticolazione generata dalle modalità organizzative del lavoro scientifico.Sempre di più la “tradizionale” formula di un gruppo di lavoro (nato e cresciuto attorno ad un “laboratorio” per le scienze esatte o ad una “scuola” per l’area delle scienze sociali ed umane) si deve confrontare con il percorso differenziato dei suoi componenti. In linea di principio permane il concetto di massa critica minima necessaria per essere considerato “nodo della rete”, ma la dimensione di questa massa è destinata a mutare nel tempo e ad essere riparametrata sulla base di quanto richiesto da una partecipazione a progetti di dimensione, spessore, momento e durata molto variabili.

Queste considerazioni, di carattere generale, producono una rilevantissima conseguenza sul versante istituzionale del mondo scientifico. In Italia, in particolare, la componente accademica (la più rilevante per dimensione e copertura territoriale e disciplinare) ha sempre sofferto in termini organizzativi di una incapacità cronica a raggiungere masse critiche coerenti e credibili non solo sul versante della grande strumentazione ma anche su quello della ricerca indirizzata ad un obiettivo. Per supplire a questa carenza si è fatto ricorso alla nascita di nuove istituzioni (un esempio tra tutti, l’Istituto Nazionale Fisica Nucleare) o ci si è appoggiati al “ruolo ordinatore” (ed alle relative risorse) di un soggetto esterno, come nel caso della Chimica industriale dei polimeri con la Montecatini al Politecnico di Milano.

Pero’, con la lodevole eccezione dei fisici delle alte energie, il panorama della ricerca italiana segnala come ci si sia progressivamente concentrati nel tempo in quelle aree tematiche e disciplinari dove minore era l’incidenza della dotazione infrastrutturale e della strutturazione ed organizzazione del lavoro in house. Una forma di adattamento darwiniano alle condizioni ambientali per favorire la sopravvivenza della specie. E l’Università ha registrato questa tendenza, limitandosi in molti casi ad una presenza testimoniale nella ricerca, solo recentemente invertita, per una parte del sistema, con la partecipazione a bandi europei e alle nuove modalità del co-finanziamento (ex.40%).

Con le regole del gioco in cambiamento, sembrano aprirsi nuovi spazi e nuove opportunità: ad esempio, la linea di confine tra quanto è oggi possibile realizzare facendo ricorso a risorse “dirette” limitate ma, viceversa, potendo usufruire di esternalità di sistema molto rilevanti (qualificazione media dei giovani, alfabetizzazione informatica diffusa, infrastrutture di buona qualità, mobilità ed interscambi nella formazione e nell’educazione, flessibilità e motivazione nell’investire su nuove idee e sui giovani) offre opzioni anche a soggetti finora esclusi (per tipologia e/o posizione geografica) e può rivoluzionarne il ranking, esattamente come alcuni interventi hanno saputo determinare nel commercio mondiale in epoca di globalizzazione.

Anche perché, per le motivazioni sopra addotte, si sono abbassate le barriere d’ingresso di giovani formati in contesti avanzati, ma anche semplicemente ad essi relazionati pur restando nei propri paesi di origine, accelerandone la potenziale competitività ed il loro diretto contributo all’evoluzione della scienza. Estendendo la riflessione ad un contesto anche extra-italiano sono quindi prevedibili ulteriori mutamenti di ruoli tra le istituzioni – e dentro le organizzazioni – che avranno inevitabili conseguenze sulle strutture funzionali delle stesse, proprio in ragione di quei fenomeni di cambiamento che l’innovazione tecnologica introduce nel mondo del lavoro più in generale. Ciò pone ai soggetti decisori delle politiche un’ulteriore dilemma: lasciare che i fenomeni si sviluppino spontaneamente (atteggiamento neo-liberista), oppure intervenire.

Ma, in questo caso, come, ma, soprattutto, per quale obiettivo?In sintesi, la tesi che si vuole qui affermare è che più di prima per essere competitivi nel mondo della ricerca bisogna saper affiancare ad un investimento sui migliori (“i purosangue”) un allargamento della base della piramide (“moltiplicare gli allevamenti e le scuderie”) ma anche creare quelle condizioni di contesto, nei termini di facilities, commodities e perspectives, (“gli ippodromi e le strade di accesso, ma anche la piacevolezza dei siti e la vivibilità delle condizioni in generale, oltre a promuovere l’impiego generalizzato dei cavalli”) senza le quali lo sforzo rischia di essere vano. Insomma una politica per la ricerca piuttosto che una politica della ricerca. Quanto questo disegno possa essere letto nei presupposti e nelle scelte del nascente sesto Programma Quadro della ricerca europea è materia di dibattito: si vuole solo aggiungere che, diversamente, l’auspicio del Consiglio di Lisbona del marzo 2000 (l’Europa come la comunità più competitiva nel confronto mondiale nel giro di dieci anni anche attraverso un investimento pari al 3 per cento del PIL medio dei paesi membri), oltre a rappresentare pura fantascienza nei termini numerici (almeno per noi italiani come l’ultima legge finanziaria ci insegna) finirà per essere perseguito come obiettivo economico piuttosto che per le sue potenzialità di sviluppo. Con gli esiti sulla produttività nell’impiego delle risorse che vengono testimoniati da altre scelte, quali quelle della politica agricola o in molti casi dei Fondi Strutturali.Ma per tornare al tema del lavoro di ricerca si vuole segnalare un’esperienza che merita un approfondimento in quanto pensata e sviluppata in un contesto nazionale particolare e limitato, la provincia di Trento, pur tuttavia ricca di conseguenze potenzialmente ampie e replicabili.

Questa Provincia, in ragione della sua autonomia statutaria, delle scelte lungimiranti delle amministrazioni che si sono succedute negli ultimi quaranta anni, ma anche – certamente – delle risorse derivanti dai trasferimenti statali e di una certa perifericità che ne ha favorito la sperimentazione, ha via via investito in cultura e scienza. Prima con l’Istituto Universitario (poi statalizzato in Università degli studi), poi con gli enti funzionali di ricerca, sia creandone di nuovi, sia ripensando quelli esistenti. Istituzioni quali Istituzioni quali il Centro per la ricerca scientifica e tecnologica dell’Istituto trentino di cultura (nel campo dell’informatica applicata) o il Centro Sperimentale dell’Istituto Agrario (nel campo delle biotecnologie “verdi”) sono ben note anche al di là dei confini provinciali. La lista potrebbe continuare con il Centro di Ecologia Alpina, il Museo, l’Agenzia per lo sviluppo, il recente insediamento di una sezione del Centro ricerche della Fiat ma anche con tutte le attività svolte su convenzione con le maggiori istituzioni scientifiche nazionali, tutti elementi che hanno creato un terreno favorevole per quelle condizioni di contesto segnalate come indispensabili nella prima parte di queste note. Siamo cioè in presenza di una realtà che ha saputo investire sul territorio, sugli ippodromi, sulle scuderie e sui purosangue; una realtà che ha tratto grande giovamento da un investimento consistente e cumulato nella conoscenza, a partire dai principi di qualità utilizzati per consolidare la presenza universitaria. In questo quadro giunge opportuna, e già sancita da protocolli e strumenti normativi, l’idea di un partenariato forte con la cultura germanica, attraverso il varo dell’Ateneo Italo-tedesco e del Consorzio di ricerca Italo-germanico.

Ma per rendere il lieto fine meno prevedibile, e per riprecipitarci nelle contraddizioni italiane, va rilevato come tale crescita manifesti oggi il suo tallone d’Achille proprio nelle condizioni di organizzazione e trattamento del personale addetto alla ricerca.Intendiamoci, nella realtà trentina si sovrappongono problematiche locali (per esempio, una certa rigidità organizzativa e la conseguente segmentazione) ma anche caratteristiche generali (gli accessi, le carriere, la mobilità, l’attrattività del modello universitario) non sempre risolvibili con strumenti locali.Nel pieno della scorsa estate (luglio 2001) una delle periodiche conferenze dedicate alla ricerca e all’innovazione (un’altra – positiva – anomalia nello sterile panorama italiano) è stata interamente impegnata sul tema del lavoro di ricerca e gli atti sono stati pubblicati in un agile volumetto (P.A.T. 2001a). Sei mesi dopo si è reso disponibile il fascicolo prodotto dall’Osservatorio della Ricerca (P.A.T. 2001b), contenente dati e commenti sulla consistenza del sistema e sulle sue problematiche evolutive. Tutti materiali che possono essere richiesti al Servizio Università e ricerca scientifica della stessa Provincia.

Cosa ci raccontano questi documenti ai fini del tema di questa nota?In primo luogo segnalano che i problemi ci sono e non possono essere sottaciuti: la scelta di procedere a finanziamenti di natura aggiuntiva, assegnati a progetti svolti da ricercatori non dipendenti dalle amministrazioni, ha fatto crescere una leva di giovani formati alla ricerca, ma anche, attraverso la ricerca, pronti per un inserimento più qualificato nel mondo del lavoro, secondo un modello teorizzato in altri contesti ma scarsamente poi praticato. Tutto questo, pero’, a fronte di una debole domanda se misurata sul solo territorio provinciale.

Per impedire che questi giovani si presentino come una massa d’urto per rivendicare una richiesta di stabilizzazione nel “sistema istituzionale” della ricerca non serve rendere quest’ultimo meno attrattivo. Anzi se mai, per restare alla metafora dei cavalli, vanno estese scuderie ed allevamenti con l’idea di utilizzare i quadrupedi non solo negli ippodromi ma nella vita di tutti i giorni. Magari favorendone l’impiego in altri contesti sulla base di scambi. Tra l’altro una delle attività parallele a questo disegno consiste nella cosiddetta “Università a colori” ovvero nelle relazioni bilaterali stabilite con paesi del terzo mondo, volte a favorire l’interscambio scientifico e la collaborazione formativa a livelli qualificati.Un secondo tema emerso riguarda, anche per questa “isola felice”, la “crisi di vocazioni” del mondo della ricerca.

Attrattività della ricerca e crisi di vocazioni coesistono essendo fenomeni, in una certa misura, complementari: da una parte rischiano di restare “nell’anticamera della ricerca” non i migliori ma solo quelli che se lo possono permettere. Dall’altra le nuove modalità tecnologiche alimentano l’idea che possano esistere altre opportunità che non siano solo quelle dell’istituzione di ricerca per vedere premiata la propria propensione al lavoro scientifico. Infine dalla conferenza è emersa una forte domanda di apertura del sistema locale verso una maggiore integrazione, per quanto riguarda gli aspetti normativi, con i contesti con cui si vuole collaborare sia a livello nazionale che europeo.

Questo tema è particolarmente interessante nella prospettiva dei mutamenti in corso. In altri termini, se il processo di sviluppo della ricerca prevede allo stesso tempo una maggior personalizzazione del trattamento degli individui (varranno sempre di più in quanto singoli e non per l’appartenenza ad un ruolo o a una posizione), accanto ad una loro interscambiabilità in una rete di dimensione almeno europea (dovranno poter essere “associati” ad attività a termine, aggiungendo alle coordinate permanenti di appartenenza delle attribuzioni incentivanti temporanee) in grado di promuovere mobilità ma anche di offrire garanzie di cumulatività individualizzata nel tempo, perché non sperimentare questa opportunità nel quadro della cooperazione italo germanica, come tassello verso uno spazio europeo della ricerca?

BIBLIOGRAFIA

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