Le farfalle da sempre catturano la nostra immaginazione. Sin dal primo incontro, durante una passeggiata nei campi o durante la lettura di un libro per bambini, queste agili e bellissime creature ci conquistano. Ma per alcuni biologi le farfalle sono anche oggetto di studio e di lavoro. C’è chi ha costruito una carriera osservando questi insetti alati, appartenenti al gruppo dei lepidotteri, studiando la complessità del loro comportamento. Recentemente, un gruppo di ricercatori ha pubblicato uno studio sulle farfalle che segna l’inizio di una nuova era per la biologia evolutiva e l’evoluzione, in particolare per la comprensione del modo in cui questi due campi interagiscono. La ricerca è stata condotta in tre diversi laboratori sparsi per il mondo: uno presso l’Università di Leiden in Olanda, uno presso l’Università di Edimburgo in Scozia e il terzo negli Stati Uniti presso l’Università del Wisconsin. Il fatto più singolare e significativo è che i ricercatori coinvolti nello studio lavorano in campi diversi, che spaziano dalla biologia dello sviluppo, alla genetica molecolare, alla biologia evolutiva. L’équipe piuttosto composita, diretta da Paul Brakefield dell’Università di Leiden , ha incentrato la propria attenzione sulla caratteristica più evidente di questi animali: la colorazione delle ali. La gamma dei disegni colorati che ornano le ali delle farfalle è molto estesa, tanto da fare apparire estremamente diverse delle specie che invece sono molto vicine. Inoltre, alcune specie sono in grado di sviluppare colorazioni completamente diverse a seconda della stagione. Per esempio, le farfalle del genere Bicyclus sviluppano sulle ali dei vistosi ocelli (quelle macchie circondate da un anello di un altro colore) durante la stagione umida, quando la temperatura è mite. Se invece crescono durante la stagione fredda e asciutta, esse adottano una colorazione smorta e indefinibile. Questo è un esempio di un fenomeno generale, noto come plasticità fenotipica, che consente a piante e animali di cambiare il proprio aspetto a seconda dell’ambiente esterno. Nelle farfalle che crescono nella stagione mite e umida, la colorazione luminosa, che ricorda l’occhio di un grosso animale, può spaventare i potenziali predatori. Nella stagione secca, quando la vegetazione è scarsa, un colore così acceso risalterebbe troppo nell’ambiente circostante, tanto da invitare all’attacco gli stessi predatori. Per questo gli insetti cambiano colorazione a seconda della temperatura e del periodo di illuminazione, indicatori certi della stagione in corso. Ma in che modo le farfalle sviluppano la colorazione delle ali? Che cosa conferisce un aspetto tanto diverso a specie in realtà così vicine? Come fanno gli insetti a sapere qual è la temperatura esterna, e a regolare di conseguenza il proprio sviluppo? Questi sono alcuni dei quesiti a cui Brakefield & Co. hanno cercato di dare una risposta. Un buon punto di inizio è rappresentato dalla recente scoperta di tre mutazioni genetiche che alterano lo sviluppo degli ocelli. Studiando questi geni e la loro specifica espressione evolutiva (cioè in quali tessuti e in che periodo della crescita di un individuo essi vengono attivati), Brakefield e collaboratori sono riusciti a descrivere le quattro fasi fondamentali del processo di formazione degli ocelli.La prima fase è controllata dal gene Distal-less, che è altamente espresso e contribuisce a determinare il numero e la posizione degli ocelli. Nella seconda fase, invece, viene richiesto l’intervento di altri due geni, Cyclops e Spotty, mentre il Distal-less è limitato alla zona focale dell’ocello. All’inizio della terza fase il numero e la posizione delle macchie è già stato determinato, mentre la dimensione e il colore devono essere ancora stabiliti. Interviene quindi il gene Bigeye (è da notare con quanta fantasia i genetisti denominano i geni che vanno scoprendo), che determina l’attivazione e la diffusione del segnale focale . Nell’ultima fase, la quarta, alcuni geni non ancora identificati determinano la forma della colorazione. Le implicazioni della ricerca di Brakefield e collaboratori sono numerose e saranno oggetto di discussione nell’ambito della biologia evolutiva e della biologia dello sviluppo. In primo luogo, essa conferma il fatto che i geni non rappresentano in alcun modo la “fotocopia” dell’organismo. Essi si limitano a catalizzare le azioni locali, a dare forma ai fenomeni cellulari in una scala spaziale temporale molto ristretta. Non esiste niente di simile a un gene che regola la colorazione delle ali. Al contrario, quest’ultima è il risultato di un’azione sequenziale di una serie di geni, ognuno dei quali contribuisce solo in minima parte alla definizione dell’aspetto generale. Tuttavia, si continua a pensare e a parlare in termini di geni “atti” a determinare caratteristiche complesse, compreso il comportamento (è il caso, per esempio, dei geni dell’obesità o dei comportamenti sessuali deviati nell’uomo). Un’altra importante conseguenza di questo studio è che le mutazioni in alcuni geni-chiave regolatori possono determinare dei cambiamenti drastici nel fenotipo degli organismi e preservare, allo stesso tempo, la propria vitalità. Questi “mostri promettenti”, come furono definiti nel 1940 dal genetista tedesco Richard Goldschmidt, sono stati oggetto di discussione per più di 50 anni. Secondo l’attuale paradigma neodarwiniano, le differenze tra le specie si vanno accumulando gradualmente nel tempo e, pertanto, non possono che essere dovute agli innumerevoli mutamenti genetici. Tuttavia, alcuni recenti studi teorici e sperimentali (comprese alcune ricerche condotte nel laboratorio dell’Università del Tennessee), suggeriscono che la genetica della speciazione possa essere molto meno complessa di quanto pensiamo. Lo studio di Brakefield e collaboratori può essere una pietra miliare per il ripensamento di uno dei problemi fondamentali della biologia evolutiva. Tanto fondamentale da comparire in maniera evidente sulla copertina di uno dei classici di Darwin, “L’origine delle specie”.