Il girasole succhia-piombo

Gli Stati Uniti spenderanno nei prossimi due anni quasi due miliardi di lire per piantare girasoli in un’area residenziale di Chicago. Circa sessanta famiglie americane potranno così vivacizzare i loro giardini con l’allegra pianta a spese dello stato. Eppure, i beneficiari della generosa iniziativa sarebbero ben felici di poterne fare a meno: i girasoli dovranno infatti ripulire i loro terreni super inquinati dal piombo proveniente dalle vernici (ora fuorilegge) con cui erano state dipinte le case del quartiere. La cifra stanziata dal Dipartimento per lo sviluppo urbano statunitense servirà a finanziare il primo programma di fitodecontaminazione, cioè la bonifica del terreno utilizzando le piante, mai avviato in un’area residenziale.

Sebbene questo processo sia già allo studio da diversi anni in molti paesi, finora gli esperimenti si erano sempre svolti lontano dai centri abitati, in zone industriali o rurali dismesse. I girasoli erano già stati piantati per esempio a Chernobyl, dopo l’incidente nella centrale nucleare ucraina del 1986, per rimuovere la radioattività dalle falde acquifere. Ma a Chicago, quartiere “West Town”, a pochi chilometri dal centro città, il piombo supera le mille parti per milione: oltre il doppio della soglia di tollerabilità. Il rischio per la salute, specialmente quella dei bambini che giocano nei giardini e portano spesso le mani alla bocca, è preoccupante. Si stima che circa 20 mila fanciulli di meno di sei anni a Chicago abbiano una concentrazione di piombo nel sangue troppo elevata. E, sebbene i possibili danni all’organismo non siano ancora certi, si temono soprattutto problemi permanenti al cervello, con disturbi dell’apprendimento e del comportamento. West Town è così stata scelta per il progetto pilota, nella speranza di trovare un sistema economico ed ecocompatibile per decontaminare i terreni inquinati in tutti gli Stati Uniti.

Quello dei suoli contaminati da sostanze tossiche è oggi uno dei problemi principali dei paesi industrializzati. Se negli Usa sono stati identificati 250 mila siti bisognosi di risanamento, in Europa il numero sale a 350 mila, di cui 130 mila richiedono un intervento urgente. Anche l’Italia, con i suoi 8873 siti potenzialmente contaminati, è alla ricerca di nuove tecnologie alternative. La tecnica standard è il trattamento chimico del suolo che però è troppo costoso (gli investimenti stanziati in Europa ammontano a circa duecentomila miliardi di lire, il doppio negli Stati Uniti) e fortemente invasivo nei confronti del territorio.

Così, all’Istituto per la chimica del terreno Ict del Consiglio nazionale delle ricerche è al via il progetto “Impiego della vegetazione per la bonifica dei siti contaminati”, guidato da Gianniantonio Petruzzelli. Mentre è in fase finale un altro programma, avviato nel 1998 con finanziamenti del Murst, cui partecipano diverse università in tutta Italia e quella di Vienna. Il programma, “Sistemi biologici per la decontaminazione di aree degradate da accumulo di metalli pesanti e potenziale di reinsediamento di specie vegetali”, è coordinato da Giuseppe Zorbi, direttore del dipartimento di Produzione vegetale e Tecnologie agrarie dell’Università di Udine.

Ma come funziona la “phytoremediation”? Alcuni specie di piante, definite iperaccumulatrici, hanno la capacità di “succhiare” grandi quantità di tossine dal suolo contaminato, in particolare cromo e cadmio. Con un duplice effetto: non solo bonificano il terreno dai metalli pesanti, ma evitano che questi si disperdano nelle falde acquifere, per effetto dell’erosione e delle piogge. Le specie iperaccumulatrici più note ai ricercatori sono la thlaspi e la alyssum, parenti del comune cavolo, ma selvatiche, perenni e che si rigenerano spontaneamente.

Inoltre, le iperaccumulatrici si distinguono dalle altre piante proprio perché riescono a vivere e a crescere nonostante l’alta concentrazione di metalli pesanti che assorbono. Ma hanno un difetto: crescono poco in altezza, per cui la quantità di sostanze tossiche che riescono ad accumulare risulta inferiore rispetto a quella immagazzinata da altre piante, semplici accumulatrici, che risucchiano meno ma crescono di più. Per esempio, sono accumulatrici la senape e la colza impiegate nel programma italiano finanziato dal Murst.

I metalli che inquinano il suolo hanno diverse provenienze. “Alcuni sono naturali, già presenti nella roccia”, spiega Zorbi, “ma i problemi maggiori si hanno sui siti industriali, su quelli agricoli irrigati per anni con acque ricche di metalli contaminanti, nelle aree utilizzate per lo smaltimento abusivo di rifiuti o in prossimità di grandi vie di comunicazione, per esempio le autostrade”. Con la bonifica tradizionale il terreno contaminato viene asportato e trattato con procedimenti chimici che rendono solubile, e dunque recuperabile, il metallo. Ma grandi movimentazioni del suolo significano costi elevatissimi, oltre a comportare qualche grosso rischio: “L’azione di solubilizzare i metalli spostandoli dal terreno può renderli in realtà molto più mobili. Aumenta dunque la probabilità che raggiungano le acque potabili”, afferma Zorbi.

La fitodecontaminazione, invece, è un processo non pericoloso e certamente ecologico. E molto più economico, assicura Zorbi, rispetto alle altre forme di bonifica. Ma ha un inconveniente: i tempi lunghi. Le piante infatti hanno una capacità riproduttiva moderata, e hanno bisogno anche di decine di anni per compiere la loro opera decontaminante e rendere di nuovo salubri terreni oggi non più utilizzabili. Inoltre, non si può permettere che muoiano e si decompongano, rilasciando nel terreno le sostanze tossiche tanto faticosamente recuperate. “Le piante vengono incenerite e le ceneri, in cui si concentrano i metalli pesanti, vengono stoccate in luoghi opportuni”, continua Zorbi. Sarebbe ancora troppo costoso, seppure possibile, il procedimento di recupero dei metalli dalla cenere.

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