Il no di Rasetti alla fisica della bomba

    C’è un altro “caso Majorana” nella storia della fisica italiana di questo secolo. E’ quello di Franco Rasetti, coetaneo e compagno di Enrico Fermi.

    Dei ragazzi di via Panisperna, infatti, Rasetti è stato l’unico a rifiutare la nuova fisica, quella che lui definiva “fisica di guerra”: la fisica della bomba prima, e quella dei grandi laboratori dopo, ma sempre vicina ai militari. Fisica di cui la scienza ha beneficiato in larga misura fino a pochi anni fa.

    Pur non arrivando ad abbandonare il mondo, come decise di fare Ettore Majorana, alla fine della guerra Rasetti si isolò, dedicandosi alla geologia, “scienza pacifica e ancora libera dagli interessi politici”, e alla biologia. Egli non lascerà la fisica, come era sua intenzione nel 1946, profondamente colpito dalla notizia delle esplosioni di Hiroshima e Nagasaki. E neanche interromperà i suoi rapporti con gli altri membri del gruppo. Ma sceglierà una strada diversa da quella seguita da tutti gli altri. Questo emerge con evidenza, per la prima volta, da una lettera inedita che Rasetti scrisse a Enrico Persico, e presentata recentemente in un seminario del gruppo di storia dell’Istituto di fisica dell’Università di Roma “La Sapienza”.

    Di fronte alla bomba e al suo “uso mostruoso” Rasetti assume una posizione chiara e irremovibile. Non altrettanto decisi erano stati gli altri membri del gruppo che, con sfumature diverse, avevano in qualche modo giustificato un coinvolgimento al progetto, se non altro di fronte al pericolo di una vittoria nazista.

    Su Franco Rasetti, l’ultimo fisico del gruppo di Enrico Fermi ancora in vita, è stato scritto molto poco. Nulla, se paragonato ai fiumi di inchiostro dedicati a Ettore Majorana. Anche se in lui la scelta di abbandonare le ricerche sembra essere stata molto più consapevole. E anche se, insieme a Max Born, è stato l’unico scienziato a declinare l’offerta di lavorare al progetto di costruzione della bomba atomica prima della fine della guerra.


    Omaggio a Rasetti


    Tra i componenti del gruppo di via Panisperna, Rasetti è anche il primo, nel 1935, a manifestare la sua insofferenza per il regime fascista, la guerra in Etiopia e la guerra di Spagna, e a dichiararsi pronto a lasciare l’Italia se solo gli fosse stato offerto un posto negli Stati Uniti, dove comunque emigrerà nel 1939.

    Canada, sei aprile 1946. Dal dipartimento di fisica dell’università di Laval, Québec, Rasetti scrive a Persico. Nella lettera si dice profondamente disgustato da quanto è stato fatto in nome della fisica, tanto da considerare seriamente l’idea di dedicarsi ad altro: lontano dai colleghi che un tempo considerava dotati di “dignità umana”, e ora divenuti inconsapevoli strumenti “di queste mostruose degenerazioni”.

    Lo scienziato italiano si rende perfettamente conto del profondo cambiamento segnato dal Progetto Manhattan: la scienza diventa grande, e sotto l’ala protettiva – e censoria – dei militari e dei politici si perderà lo spirito che aveva caratterizzato il gruppo di via Panisperna. Uno spettacolo “disgustoso”, scrive Rasetti a proposito dei fisici che accettano di lavorare sorvegliati dai militari per preparare il prossimo ordigno di distruzione di massa. Una presa di distanza, quella di Rasetti, che si estende in seguito ai grandi laboratori, acceleratori, finanziamenti.

    “Fa impressione – scriveva Fermi sempre nel 1946 – che dal lato finanziario la maggior difficoltà consisterà nell’immaginare abbastanza cose con cui spendere”, accorgendosi dei “cambiamenti molto profondi” della fisica “per effetto della guerra”, ma dichiarandosi pronto a coglierne i frutti. Rasetti invece non accetterà mai tutto questo, neanche di dover render conto della sua “correttezza” all’America maccartista degli anni Cinquanta. Continuerà, dal 1947, ad occuparsi di fisica delle particelle alla John’s Hopkins University di Baltimora, con un anno sabbatico passato in Italia, all’Istituto Superiore di Sanità, ma senza più raggiungere l’intensità degli anni di Via Panisperna.

    Rasetti lasciò l’Italia per ragioni politiche nel 1939, sulla stessa nave di Fermi e Amaldi. Ma a differenza di quest’ultimo, che dopo la missione in America decise di ritornare a Roma, egli non fece ritorno in patria dopo la guerra. Pur sapendo che a Roma avrebbe forse potuto ritrovare l’ambiente di lavoro a lui più congeniale. E rinunciando così alla cattedra di spettroscopia, che era stata istituita per lui nella capitale, su insistenza di Fermi, e grazie a Orso Mario Corbino.

    Eppure, a proposito di questa rinuncia, Edoardo Amaldi esprimerà in una lettera a Fermi, datata 5 luglio 1945, tutte le sue perplessità. Non si vede la ragione, commenta con una punta di sarcasmo Amaldi, di avere un professore di spettroscopia che abita a circa seimila miglia da qui cercando trilobiti.

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