Il padre dell’elettromotore perpetuo

Una fredda mattina di fine inverno del 1812, il professor Giuseppe Zamboni consegnava al tipografo veronese di fiducia il primo di una lunga serie di scritti, dal titolo “Della pila elettrica a secco. Dissertazione” (1). Due anni dopo mandava alle stampe il suo successivo lavoro “Descrizione ed uso dell’elettromotore perpetuo” (2). Queste due date scandivano due importanti riferimenti di un geniale sperimentatore che per i trent’anni successivi perfezionò con estrema pignoleria e costanza le sue macchine elettriche. Immagino che qualche lettore avrà tentato di frugare nella memoria tra le conoscenze del periodo scolastico sperando di trovare qualche collegamento tra l’elettricità e il nome di Giuseppe Zamboni. Naturalmente senza risultato per i più. Infatti si tratta di un personaggio noto solo ad alcuni addetti ai lavori e pure a pochi suoi attuali concittadini. A Verona lo ricordano una lapide sulla facciata della casa abitata fino alla sua morte e un busto di marmo nell’androne di ingresso dell’Accademia di Agricoltura Scienze e Lettere. Eppure quando ho iniziato a ricostruire la sua opera mi sono reso conto che un pezzetto di storia della fisica, per nulla trascurabile, era stata cancellata ingiustamente dalla memoria. Come era potuto accadere? Ma la sorpresa ulteriore è la constatazione che questa è una carenza assai diffusa che lascia aperte notevoli lacune nella storia della scienza in Italia.

La storia delle scienze si è sviluppata attorno alle grandi idee sviluppate dai geniali personaggi che hanno saputo far scattare in avanti il pensiero scientifico. Personalità ormai note al grande pubblico ma apparentemente stelle isolate. Delle quali si sa quasi tutto, perché per esempio di un Newton ormai sono stati indagati anche lo scorrere delle sue giornate o gli aspetti caratteriali, e la sua produzione intellettuale rivoltata da ogni parte. Tuttavia se i Volta, i Faraday, i Maxwell, gli Einstein (questo per la fisica, ma il discorso vale per qualsiasi ambito scientifico) furono in grado di cogliere una poderosa sintesi delle conoscenze raggiunte fino a quel momento per catapultarvisi oltre, non vanno trascurati i tanti che hanno lavorato magari nell’ombra, preparando però il terreno. Con sperimentazioni spesso utili, talvolta senza risultato, ma molte volte raccogliendo una vasta quantità di dati sperimentali di qualità anche comparabile con quelli dei professionisti più affermati. L’apparato così ottenuto poteva innescava nuove risposte a teorie sin lì insoddisfacenti, o indirizzava verso nuovi orizzonti. E un terreno interessante in cui scavare è proprio quello della grande provincia italiana in cui una moltitudine di attori non secondari teorizzava, allestiva laboratori privati, produceva risultati che sono stati poi dimenticati o marginalmente studiati (3). Un recupero e una valorizzazione in certi casi è quindi un “dovere” di giustizia storica.

Ecco allora che la ricostruzione biografica di molti personaggi conosciuti solo localmente contribuisce in realtà ad arricchire e a chiarire i passaggi magari oscuri o le transizioni dei modelli interpretativi che sembravano esplodere improvvisamente da un’unica mente geniale. Invece era il risultato finale di una serie di fermenti e di curiosità che non passavano per i ricchi laboratori cui siamo oggi abituati. Risulta quindi molto importante raccogliere ogni possibile documentazione prestando attenzione ai molti fondi e carteggi mai esplorati che giacciono in molte nostre biblioteche pubbliche. Fondi documentali che talvolta non sono stati neppure catalogati e il cui contenuto è sconosciuto. E che talvolta forniscono delle vere e proprie sorprese. Infine non sappiamo quanti documenti rischiano l’oblio o la distruzione in qualche soffitta che abbiamo dimenticato di ripulire da anni o di cui ci si disfa senza un minimo di attenzione. Quanto ai debiti di riconoscenza che Verona deve ai suoi migliori rappresentanti va ricordato che anche gli scienziati vivono nel tempo della storia con i relativi problemi. Il momento storico che caratterizzava il panorama culturale veronese tra Settecento e Ottocento fu particolarmente movimentato. Le guerre tra l’esercito napoleonico e quello austro-ungarico avevano come palcoscenico la provincia di Verona e la città stessa, quindi un susseguirsi di governi, eserciti e di amministrazioni che non rendevano certo stabile la vita quotidiana. Eppure Verona ha saputo portare avanti una tradizione che a partire dal 1500 la pone tra le città più vivaci per la presenza di personaggi che hanno prodotto importanti ricerche nei più differenziati campi scientifici: dalla botanica alla zoologia, dalla fisica alla geologia, dalla archeologia alla mineralogia, dalla matematica alla fisica, fino all’astronomia.

Citando solo alcuni nomi a Verona hanno lavorato Francesco Calzolari, un farmacista-botanico che nel 1566 pubblicava i risultati di una ricerca antesignana nel settore della fitoterapia catalogando le particolari specie floristiche del Monte Baldo, dalle caratteristiche mediterranee; Abramo Massalongo (1824-1860) con la vastissima raccolta di licheni tuttora studiata e a cui fanno ancora riferimento i lichenologi per la sua classificazione tassonomica in cui prevaleva una modernissima impostazione; Giovanni Arduino grande geologo del Settecento che mise a punto la moderna suddivisione delle stratificazioni geologiche in quattro ere principali; Anton Maria Lorgna, che oltre ad essere un valente matematico fu il fondatore dell’Istituto Italiano delle Scienze, la prima Accademia che potesse considerarsi veramente italiana, che superava cioè i localismi (4).

La biografia

Giuseppe Zamboni nacque nel 1776 ad Arbizzano, un piccolo paese ai piedi delle colline veronesi. Fu avviato agli studi di filosofia e teologia, come spesso accadeva in quell’epoca, visto che il seminario forniva anche una buona preparazione culturale. Questa fu la prima occasione in cui dimostrò la sua precoce personalità completando gli studi per la consacrazione a sacerdote con un anno di anticipo rispetto alle leggi canoniche. A soli 23 anni, nel 1800, fu nominato abate e chiamato a insegnare filosofia nella scuola comunale di S. Sebastiano, che poteva considerarsi l’Ateneo locale. Oggi resta l’antica facciata del complesso originario, e l’attuale edificio ospita la sede della Biblioteca Civica in cui sono conservati i suoi manoscritti, i libri e gli articoli da lui pubblicati. La gerarchia della chiesa locale riconobbe subito la sua notevoli capacità e fu eletto esaminatore prosinodale dei sacerdoti concorrenti alle parrocchie, quindi nel collegio vescovile aveva diritto di valutare e definire le questioni di morale e le norme liturgiche (5). Il ristretto numero di lettere e di manoscritti rimasti non forniscono molti elementi utili a ricostruire questo suo primo periodo di attività, tuttavia molti indizi portano a concludere che proprio in questi anni prese forma la sua vera passione, la fisica. Come nacque questo forte interesse non lo sappiamo, ma certamente vi fu innanzitutto un lavoro di preparazione teorica e, a partire almeno dal 1800, lo sviluppo di una solida pratica sperimentale. Questa fu accumulata in pochi anni, e anche se non vi era una preparazione ufficiale accademica, essa portò i primi frutti concreti. Nel 1805 ebbe il riconoscimento degli studi fatti nel campo della elettrologia e ottenne l’incarico di professore di “Fisica sperimentale e matematica applicata” all’Imperial Regio Convitto, divenuto poi con proclama napoleonico l’attuale Liceo Classico Scipione Maffei. A partire da questo periodo è possibile scandire la sua vita scientifica in tre periodi principali: gli anni 1805-1815, durante i quali mise a punto le sue pile e le perfezionò raggiungendo la fama; un secondo periodo che va dal 1816 al 1830 durante i quali perfezionò i suoi pendoli che divennero veri e propri orologi; e gli anni dal 1830 fino alla morte, nel 1846, durante i quali lavorò consolidando la sua posizione e portando avanti le sue ricerche sulle sue pile secche, i sistemi elettrostatici e scrivendo libri di testo per l’insegnamento (6).

Le ricerche sull’elettricità

All’inizio dell’Ottocento il filone principale di ricerca nella fisica era quello legato ai fenomeni elettrici e magnetici. In Italia, i primi studi sistematici di elettrologia risalgono alla Accademia del Cimento: nei “Saggi” si trovano infatti resoconti di esperienze volte a studiare le proprietà attrattive che si originavano per strofinio in sostanze come l’ambra, la ceralacca, lo zaffiro, il topazio, lo zolfo e il vetro. Per trovare un’opera di un certo impegno, sia teorico che sperimentale, si deve arrivare al 1746, anno in cui a Venezia veniva pubblicato anonimo il libro “Dell’elettricismo. O sia delle forze elettriche de’ corpi svelate dalla fisica sperimentale”, che ebbe una buona diffusione. Venivano affrontati gli argomenti allora più dibattuti dell’elettrostatica, fino all’ambizioso tentativo di impostare una “teoria delle forze elettriche”. L’opera che Giovanni Battista Beccaria (1716?-1781) pubblicò a Torino nel 1753 con il titolo “Dell’elettricismo artificiale e naturale libri due” era invece tra le prime di alto livello. In essa veniva proposta una sistemazione organica della complessa fenomenologia riguardante i numerosi effetti elettrostatici allora conosciuti. Tra le numerose esperienze originali descritte nel libro, vi erano i primi studi sulla dispersione delle cariche elettriche nell’aria. Una caratteristica particolare dell’approccio di Beccaria ai problemi dei fenomeni elettrici era la tendenza ad impostare una analisi quantitativa delle grandezze fisiche coinvolte nelle esperienze. Questi erano gli anni in cui l’effetto Volta era il tema del momento ed aveva attratto diversi fisici che si erano dati alla sperimentazione in Inghilterra, Francia, Germania portando avanti diversi sistemi di costruzione delle pile, al pari di quello che succede oggi dove la microelettronica è il campo di ricerche più affollato.

Fino al 1800 la produzione di fenomeni elettrici era infatti essenzialmente legata agli effetti ricavati dallo strofinio di sostanze isolanti diverse. Naturalmente la produzione dei fenomeni avveniva tramite l’uso di macchine elettrostatiche sempre più grandi, come quelle di van Marum e di Cuthbertson, conservate nei musei olandesi. Grandi dischi girando vorticosamente producevano tensioni anche superiori ai 100.000 volt, scariche lunghe mezzo metro e caricavano bottiglie di Leida, ossia rudimentali condensatori, capaci di uccidere un uomo, come talvolta accadeva negli esperimenti. Tutti sistemi di scarsa praticità che non facevano intravedere un uso pratico dell’elettricità. In questo momento storico un fisico italiano annunciava una serie di fenomeni elettrici per molti aspetti vistosi, generati con semplici laminette di metallo e una soluzione di acqua e acido. L’annuncio di Volta produsse una incredibile fioritura di indagini sulle relazioni che intercorrevano tra l’elettricità di tipo frankliniano, quella animale e quella voltaica, oltre alla dinamica dei fenomeni chimici prodotti dal galvanismo. Giuseppe Zamboni iniziò il lavoro sperimentale sicuramente ancor prima dell’insegnamento come si deduce da una lettera ricevuta dal milanese Luigi Sebastiano Alloy, del 4 luglio 1800, nella quale quest’ultimo gli chiedeva una serie di consigli per costruire pile elettriche come quelle che il nostro aveva evidentemente già realizzato. Dunque già nel 1800 le sue prime pile secche funzionavano e si facevano conoscere soprattutto perché tentavano di risolvere alcuni difetti delle pile voltiane. Queste erano un grande passo avanti, tanto che Davy “nel 1810 considerò la batteria voltaica la sveglia per tutti gli sperimentatori europei, lo strumento che aveva consentito scoperte formidabili” (7). Ma vi erano diversi inconvenienti. Intanto, lo zinco si consumava sotto l’azione dell’acido solforico, sia che la pila fornisse corrente o meno, e questo era un seccante sacrificio di carattere accessorio. Se d’altra parte non si metteva l’acido nell’acqua, la pila forniva una corrente molto minore ed andava assai presto soggetta ad un secondo inconveniente, che comunque prima o poi si presentava: la polarizzazione. Dopo un periodo di funzionamento, che poteva essere di minuti o di ore la pila cessava di funzionare fino a che il liquido non fosse stato rimescolato e gli elettrodi accuratamente ripuliti: la chimica dava quindi dei fastidi.

Si formava infatti del solfato di zinco in vicinanza del polo negativo, ma si trattava di un sale solubilissimo e sembrava non creare problemi. Sul polo positivo si sviluppava invece idrogeno che, oltre ad essere isolante, sciogliendosi nell’acqua dava luogo a una tensione inversa che bloccava la pila. Queste cose non furono capite subito, ma si dovette attendere la metà del secolo XIX, per escogitare alcuni metodi per risolvere la difficoltà. Una parziale alternativa fu ideata poi nei primi anni dell’800 da Guillaume Antoine De Luc (Ginevra 1729-1812), ma soprattutto da Zamboni, i quali aggirarono l’ostacolo dell’aggressione chimica dei metalli con le loro “pile secche” che si basavano sulla eliminazione delle sostanza chimiche “umide” tradizionali. In ogni caso rimaneva da risolvere in maniera efficace il problema dell’isolamento delle pile. A parte l’ambra, la mica, il quarzo, lo zolfo, fragili oppure costosi, non esistevano molti isolanti di buona qualità: il vetro era già sufficiente, ma aveva la pessima proprietà di assorbire in superficie acqua e smog, perdendo così le proprietà isolanti. Si poteva ovviare all’inconveniente verniciando il vetro con gommalacca (l’ordinaria vernice a spirito dei mobilieri) che però aveva durata limitata. Tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento si preferì ricorrere alla ricopertura del vetro con uno strato di ceralacca applicato a caldo. E poiché la ceralacca era di colore rosso, a causa del minio che entra nella sua composizione, l’elettrodo isolato delle macchine elettrostatiche fu caratterizzato dai vistosi supporti colorati in rosso. Anche Zamboni si era reso conto che “la colonna voltiana infatti, per l’ossidamento de’ due metalli bagnati dalla soluzione acida e salsa, portava seco il germe della propria sua distruzione. Conduttore solido non poteva mettersi in luogo dell’acqua, che la sua forza elettromotrice avrebbe guastato: ciò appunto diceano espresso i principi teorici e gli studi sperimentali del Volta. Ma fra i corpi che, per contenere in sé alcuna traccia di umidità, danno qualche passaggio al flusso elettrico senza tuttavia nuocere ai metalli, era bene e non forse indarno cercare. E la tensione intanto (uscita quasi altrui di vista per la sua tenuità) non avrebbe potuto, pel men perfetto ufficio del conduttore, farsi a più doppi ingrandire sino a trarne qualche nuovo utile effetto?”.

A partire dal 1810 l’attenzione dello Zamboni era presa completamente dalla costruzione di una pila dalle qualità superiori a quella del Volta. L’originalità delle sue idee va vista proprio in questa direzione poiché la sua realizzazione teorica e sperimentale più interessante, fu la elaborazione la costruzione e la applicazione pratica delle pile cosiddette “a secco”. Una interessante caratteristica fu la piccola dimensione in cui riusciva a stipare migliaia di coppie elettromotrici per aumentare la tensione prodotta. Per questo mise a punto anche degli strumenti per costruirle nella forma voluta e per inscatolarle con i sigillanti più adatti.

Le pile Zamboni

Le pile, dette “a secco”, erano costruite con materiali che l’abate riteneva avessero i migliori effetti elettromotori senza l’intervento apparente di processi chimici, i quali lentamente modificavano i metalli e degradavano le prestazioni della pila. Quindi aveva eliminato il liquido acido e corrosivo che portava a consunzione i metalli. In realtà funzionavano grazie alla presenza dell’umidità presente nell’aria, sufficiente per la conducibilità tra metalli diversi (lo Zamboni non aveva colto questo aspetto e il principio di funzionamento non fu da lui compreso pienamente). Infatti nella pila Zamboni l’elettrolita c’era: si trattava della piccola provvista di acidi grassi presenti nelle sostanze organiche con cui l’autore spalmava gli straterelli metallici che costituivano la pila. Ognuna era formata da 2.000 o più dischetti realizzati con fogli di carta commerciale detta “carta d’argento” (sulla quale era stesa una sottile lamina di stagno o di una lega di rame e zinco chiamata “tombacco”) sulla cui superficie veniva spalmata una pasta composta di carbone di legno dolce polverizzato, impastato con acqua o lavorato con acido nitrico. Agli esordi delle prime pile Zamboni scrisse ad Alessandro Volta almeno due lettere già nel 1812 per presentargli i risultati del suo lavoro. Il Volta gli rispose suggerendo che il “manganese nero di ottima qualità supera di assai nella facoltà elettromotrice e la piombaggine e il miglior carbone”. Naturalmente l’idea di eliminare sostanze chimiche che deterioravano le coppie metalliche non era nuova infatti era stata tentata dallo stesso Volta, da Johann Wilhelm Ritter, da Jean-Baptiste Biot (che impiegò come conduttore il nitrato di potassio), da G.B. Behrens (con rame, zinco e carta dorata), nel 1803 da Jean Nicolas Pierre Hachette, Charles-Bernard Desormes (semplici coppie di zinco e rame separate da colla d’amido) e nel 1809 Jean André De Luc (con zinco argento e carta bagnata).

In seguito ai suggerimenti del Volta e dopo aver sperimentato l’uso del solfato di zinco polverizzato e sciolto nell’acqua, Zamboni passò all’ossido di manganese nero e friabile stemperato in acqua con aggiunta di un po’ di colla d’amido. Il problema principale era costituito infatti dal fissaggio del biossido di manganese che veniva fatto aderire sui dischi anche con diverse sostanze, ovvero miscele legate con olio di ravizzone o latte, o con miele. Le miscele erano poi eventualmente sospese in una soluzione molto concentrata di solfato di zinco. I dischi erano infilati sovrapposti in un tubo di vetro verniciato internamente ed esternamente con mastice isolante. Dopo molte prove aveva constatato che la comune carta funzionava molto bene come materiale separatore tra le coppie metalliche. L’umido che essa conteneva era sufficiente per permettere il passaggio dell’elettricità. La scarsa quantità di umidità e l’aderenza delle particelle della carta che n’era imbevuta non consentivano d’intaccare i metalli se non in tempi molto lunghi, inoltre il sottile velo di ossido che si produceva serviva da protezione contro un’ulteriore maggiore ossidazione. La pila veniva poi ricoperta di colofonia fusa (o pece greca, una resina che prendeva il nome da Colofone ed era il residuo solido della preparazione dell’essenza di trementina), poi intonacata con cera vergine, che non assorbiva nel tempo l’umidità delle carte, e infine coperta con due o tre mani di vernice isolante. Il principale problema di queste pile, che ne rende oggi difficile la ricostruzione è dovuto all’impiego dei materiali originali usati come elementi di coesione dell’ossido di manganese (8).

Il problema dell’isolamento delle colonne di dischi era già stato osservato da Alessandro Volta, e rendeva instabili gli effetti della produzione elettrica, tanto che scriveva allo Zamboni: “Tali effetti complicati nelle varie circostanze è impossibile calcolarli esattamente, però si possono con facilità valutare all’ingrosso; e a rilevare quanto influisca vantaggiosamente l’umido dei bollettini cartacei, o simili, basta tenere la pila per uno o due giorni in luogo umido, ed esporla poi in un luogo e giorno convenientemente asciutto; siccome a rilevare l’influenza nociva dell’umido esterno, basta indurvi a bella posta tale umidità superficiale; che se infine procurisi l’umido maggiore a detti bollettini, nel modo indicato, o altrimenti, e allo stesso tempo la maggior secchezza all’esterna superficie della pila, con esporla e.g. per brev’ora a un’aura di fuoco, o a raggi del sole, si otterrà tutto quel vigore e prontezza di segni elettrici, ch’atta a dare cotal pila, che non è a rigore, ma può ancora denominarsi pila a secco”. Il Volta aveva però apprezzato le soluzioni adottate dallo Zamboni scrivendogli tra l’altro: ”… ma a più gradi degli elettrometri applicati immediatamente all’uno e all’altro polo, le notabili vicende e alternative a cui soggiacciono esse tensioni, indicate da essi elettrometri; e soprattutto le quasi perpetue oscillazioni de’ pendolini adattati alla maniera di De Luc, e le realmente perpetue dell’ago calamitato adattato alla maniera sua, prestantissimo signor Professore, nella molto più bella, comoda, ed elegante macchinetta da Lei così bene immaginata e descritta, che mi piace al sommo e non posso finir di lodare”.

Queste pile generavano una differenza di potenziale di alcune migliaia di volt ma correnti trascurabili dell’ordine dei microampére. Il sistema costruttivo garantiva una lentissima polarizzazione. Questa caratteristica assai allettante delle pile secche dava una durata nel tempo eccezionale in quanto con brevi tempi di arresto del loro uso si aveva una parziale ricarica per la cattura dell’umidità atmosferica. Infatti in un secondo tempo il fisico veronese capì che non doveva isolare completamente le pile ma che era necessaria una minima comunicazione con l’ambiente esterno. A conferma di questa dote lo stesso Zamboni scriveva che alcuni suoi pendoli alimentati dalle pile erano in funzione da anni senza mai arrestarsi. Uno fu messo in azione il 18 maggio del 1839 all’Istituto di Fisica di Modena e funzionò in maniera pressoché ininterrotta per quasi 100 anni (9). Questo elettromotore perpetuo consisteva di un pendolino leggerissimo imperniato su un asse in movimento tra due elettrodi di platino distanti tra loro circa 3 centimetri e collegati alle pile. Il pendolo era costituito da un filo di platino di circa 10 centimetri di lunghezza e da due anelli metallici concentrici rigidamente connessi tra loro con al centro un asse leggerissimo che giaceva su due sostegni orizzontali di quarzo. Il controllo del funzionamento nel tempo del pendolo aveva evidenziato una lenta variazione della sua velocità: nel 1839 faceva 95 oscillazioni (semplici) al minuto. Al controllo del febbraio 1932 furono misurate 46 oscillazioni ma dopo un periodo di risposo lo strumento nel giugno dello stesso anno era salito a 60 oscillazioni. Si capisce allora come lo Zamboni, osservando un funzionamento così lungo, avesse scelto di chiamare le sue pile “Elettromotore perpetuo”, termine che va interpretato alla luce delle conoscenze dei primi decenni dell’800. In tal senso allora il perpetuo dello Zamboni, che non va confuso con eterno, due concetti diversi (10).

Un’altra caratteristica delle pile fu la piccola dimensione in cui riusciva a stipare migliaia di coppie elettromotrici per aumentare la tensione prodotta. Per questo mise a punto anche degli strumenti per costruirle nella forma voluta e per inscatolarle con i sigillanti più adatti. Giunse così ad una produzione che oggi chiameremo di piccola serie. Infatti riuscì a vendere le sue pile a diversi colleghi per i loro gabinetti di fisica, per le scuole, ai privati che li mettevano in casa anche come semplice oggetto di curiosità con i pendoli e ingranaggi che le pile muovevano. Ormai le sue pile erano conosciute fino a Napoli e oltre cortina in Francia, Austria, Inghilterra, come dimostrano le lettere del suo carteggio privato. In uno dei suoi viaggi a Vienna presentò l’elettromotore all’imperatore Francesco I e al Metternich, mentre nel 1822 si recò a Parigi, fu accolto dalla Accademia francese con ampie note giornalistiche e presentò all’istituto di Francia i suoi strumenti (11). L’abilità diplomatica e la fama nella sua città avevano però anticipato di molto la possibilità di lavorare con il meglio di quanto vi era disponibile sul mercato. Infatti nel 1804 a Milano aveva visionato una ricca collezione di macchine inglesi che riteneva moto utili al suo laboratorio. Così al suo ritorno le fece acquistare dal Consiglio Provinciale per 11.000 lire milanesi, un capitale enorme per l’epoca, se solo si pensa che il bilancio annuale del liceo era intorno alle 2.000 lire. Al suo laboratorio aveva dedicato tutte le sue economie ed energie tanto da dotarlo tecnicamente in maniera assai consistente e poteva rivaleggiare e primeggiare in Italia con tutti, superato solo dai gabinetti di due università del Regno d’Italia.

La cura costruttiva e i perfezionamenti continui avevano portato le pile Zamboni ad uno stadio di efficienza temporale veramente notevole e sulla loro lunghissima durata non vi erano dubbi. A questo punto lo Zamboni e i suoi collaboratori ebbero un’idea quasi inevitabile. Perché non applicare l’elettricità agli orologi meccanici come fonte di movimento senza avere più la seccatura delle periodiche ricariche? Il lavoro successivo fu quindi quello di trovare il modo di utilizzare le pile su veri orologi meccanici con scappamento, costruendo un apposito apparato elettrico in grado di muovere il pendolo e ottenendo un funzionamento ininterrotto.

I pendoli e gli orologi

L’applicazione pratica dell’energia elettrica prodotta dalle pile fu un obiettivo dello Zamboni sin dall’inizio delle sue sperimentazioni, infatti nel 1812 scriveva nel lavoro “Della pila a secco” che “oltre le perpetue oscillazioni di cui l’ingegnoso meccanico far potrebbe qualche utile applicazione”. E più avanti “è troppo naturale il pensiero di tale applicazione, perché dato un modo oscillatorio non è certo difficile produrre con esso il moto circolare di una ruota”. Per realizzare il suo progetto aveva un fedele alleato, il meccanico del laboratorio di fisica dell’Istituto in cui insegnava, Carlo Streizig (macchinista del gabinetto fisico del Regio Liceo), che era anche orologiaio. La sua collaborazione era fondamentale poiché Zamboni era cosciente che gli mancavano le abilità meccaniche specifiche. Sotto la sua guida fu costruita la parte meccanica dell’oscillatore cui vennero accoppiate due pile di sua costruzione e fin dall’inizio del 1814 la macchina era esposta nell’officina privata dello Streizig, dove molti veronesi e gli amanti delle scienze stranieri andavano a vederlo. La fama era dovuta alla apparente interminabile energia delle pile che muovevano per mesi l’oscillatore senza alcuna manutenzione. Successivamente l’orologiaio veronese Giovanni Bianchi, e il macchinista dell’Accademia di Agricoltura Commercio ed Arti di Verona Antonio Camerlengo, costruirono diversi esemplari di un vero orologio a pendolo, con i suggerimenti dello Zamboni, che veniva mosso dalle pile. Un esemplare è tuttora conservato dai discendenti, altri esemplari sono conservati al Liceo Maffei di Verona (due orologi originali esteticamente assai pregevoli senza però le relative pile). Un pendolo completo di pile originali datato 1830, funzionante ancora nel 1930, è conservato al Museo di Storia della Fisica del dell’Università di Padova (12).

L’intervento di meccanici esperti in meccanismi per orologi fu di grande aiuto allo Zamboni, come ricorda il conte Scopoli negli Atti dell’Accademia di Agricoltura Commercio ed Arti di Verona del 1824. “Posta la macchina in esercizio destò una piacevole sorpresa, ma il Zamboni s’avvide presto, che non corrispondeva alle sue speranze; onde si pose a meditare di concerto col macchinista nostro Antonio Camerlengo come giunger meglio all’intento, e il Camerlengo trovò il modo di far servire la potenza del pendolo oscillante fra le colonne elettromotrici a caricare l’orologio; ritrovamento che così all’Accademia che gli fè dono d’una medaglia del valore di 30 Zecchini (13). L’orologio è in continuo moto, e potete esaminarlo nel gabinetto fisico, ove però il troverete ora assai più esatto per nuove aggiunte del solertissimo Zamboni. Sostituì egli al pendolo un volante superiore, che non fra due, ma fra quattro pile s’aggira in cerchio equilibrato, e perché nelle stagioni meno elettriche il peso non sia traboccante lo volle obbligato ad un attrito, che modera il suo abbassarsi con legge, direste, proporzionale”. Anche l’Accademia delle Scienze di Parigi nel 1830 riconobbe la validità delle sue macchine elettriche. In un discorso all’Accademia nella seduta del 29 novembre Arago esordiva con queste parole: “In fatto di moto perpetuo nulla mai si farà di meglio del grazioso istrumento inventato dal signor Zamboni, il cui principio motore è l’elettricità delle pile conosciute col nome di pile a secco. Un piccolo corpo leggero sospeso ad un filo di seta tra i due poli di queste pile, è continuamente attratto e respinto dall’elettricità.”

Il funzionamento dei pendoli e degli orologi elettrostatici veri e propri era basato su un meccanismo abbastanza semplice. La parte oscillante in materiale conduttore si spostava tra due placche metalliche (o elettrodi) che erano collegate con le pile. Ogni placca portava cariche elettriche di diverso tipo. Quando il pendolo si avvicinava ad esempio alla placca con le cariche positive e la toccava una parte delle cariche si portavano sul pendolo. A questo punto entrambi erano positivamente carichi e quindi si respingevano. Il pendolo (positivo) andava allora verso l’elettrodo con le cariche negative il quale lo attirava. Ma appena veniva toccato il pendolo si caricava anch’esso negativamente e veniva respinto dall’elettrodo. Quindi andava nuovamente verso l’elettrodo positivo dal quale era anche attirato. E così via in un ciclo apparentemente senza fine.

Prima applicazione della corrente elettrica

La storia dei pendoli di Zamboni non fu però priva eventi paralleli di altri personaggi che vantavano la primogenitura della realizzazione di un segnatempo elettrico, degno di tale appellativo (14). Un caso interessante è quello di Francis Ronalds che era convinto di aver costruito il primo orologio elettrostatico. Ma l’aspetto più buffo di questa vicenda è che comunque Ronalds dovette usare pile dello Zamboni come alimentatori. Inoltre costruì sistemi inaffidabili per la forte dipendenza dalle condizioni climatiche. Aveva tentato di ovviare al problema con complicati meccanismi di compensazione senza tuttavia raggiungere in maniera soddisfacente lo scopo. Sulla prima paternità dell’orologio elettrico sono a favore dello Zamboni due fatti. Nel 1815 egli mandò una lettera alla Royal Society con gli schemi del suo orologio; inoltre nel 1814 Paolo Assalini, primo chirurgo del Principe Eugenio Beauharnais Herzog von Leuchtenberg (1781-1824) era venuto a Verona a ritirare una pila per Sua Altezza Reale e rimase favorevolmente sorpreso dall’elettromotore perpetuo. Tornato a Monaco Assalini mostrò il funzionamento dell’elettromotore Zamboni all’Accademia Reale delle Scienze di Baviera, che diede incarico al suo meccanico, il signor Ramis, di costruire un apparecchio simile per la collezione dell’Accademia, il quale fu pronto e poi annunciato il 18 marzo 1815. Ronalds concepì l’idea di adattare un pendolo per far oscillare stabilmente un sistema per indicare lo scorrere del tempo regolando la quantità di carica prodotte dalle colonne elettriche (le pile). I primi risultati dei suoi esperimenti li comunicò il 9 marzo 1815 al Philosophical Magazine. Già questa data lo spiazzava poiché i primi risultati sperimentali dello Zamboni li aveva ottenuti nel 1812, mentre il pendolo che aveva presentato ufficialmente era del 1814. Inoltre tra 1814 e il 1815 con il meccanico collaboratore Carlo Streizig aveva probabilmente fatto i primi tentativi per far funzionare un orologio meccanico con le pile a secco. Comunque la comunicazione di Ronalds apre dettagliando i suoi scopi e fa una breve storia della colonna elettrica. “Ma io ho costantemente preferito il secondo metodo impiegato da De Luc per osservare i fenomeni del suo curioso strumento, che mi sono sforzato di rendere più conveniente usando una palla molto più grande sul pendolo; facendo questo pendolo con un filo metallico non flessibile invece di un filo sottile di argento; provocandolo a partecipare al moto del pendolo comune con quello dell’attrazione elettrica, e applicando le sue vibrazioni al movimento degli indici. Il ringraziamento va al sig. Gorham, orologiaio di Kensigton che costruì i meccanismi” (15).

Come si vede anche Ronalds si serviva di un meccanico per la messa a punto dei meccanismi per un orologio vero e proprio. Inoltre Ronalds continua: “Si può anche facilmente concepire che la rapidità delle vibrazioni è influenzata dalle variazioni del sistema elettrico di alimentazione della colonna, che sono favorite dalle circostanze stabilite da De Luc, Singer e me, cioè calore, umidità ed elettricità dell’aria dell’ambiente … ”. Dunque la macchina di Ronalds soffriva notevolmente della variazione delle condizioni atmosferiche ed era ben lungi da una accettabile stabilità nel tempo e semplicità di messa a punto. Infatti “Le colonne … hanno tenuto il pendolo in attività circa tre settimane. Quando la temperatura oltrepassa i 53 gradi (Fahrenheit) per ogni grado guadagna circa due secondi in cinque minuti; ma quando è sotto a tale temperatura diminuisce la sua velocità gradualmente, fino ad oscillare non più velocemente di un secondo. Si può considerare che un orologio che si altera di due secondi in solo cinque minuti per il cambiamento della temperatura di un grado Fahrenheit sia arduo da prendere seriamente”. Infatti rappresenta un cambiamento di 10 minuti al giorno per ogni variazione di temperatura di un grado. Il 15 settembre dello stesso anno Ronalds scrisse alla rivista un’altra nota intitolata “On correcting the rate of an Electric Clock by a compensation for changes in temperature”, da cui si ricava la complicazione necessaria che dovette introdurre per avere una regolarità di funzionamento accettabile. “Avendo fatto recenti tentativi per applicare la colonna di De Luc alla misura del tempo mi permetta di descrivere quello che ha avuto maggior successo …. Con il seguente metodo ho ottenuto una miglior compensazione per l’effetto di un aumento di temperatura, il quale aumentando la potenza della colonna, accelera la velocità delle vibrazioni. Un’asta è sospesa come un ago, vicino per quanto possibile al centro di gravità, portante ad un capo dell’orologio, e dall’altro un peso quasi in contrapposizione. Un termometro a spirito quasi dello stesso tipo di quelli usati in Francia … è piazzato sotto l’asta; la parte che contiene lo spirito è lunga 35 pollici, e un pollice viene sospinto, e la parte che contiene nel suo terminale più basso del mercurio è sostenuto per mezzo pollice”.

Nonostante tutto questo lavoro Ronalds doveva anche ammettere che “i principali difetti siano ora quelli derivanti dalla differenza tra i ritmi di riscaldamento e raffreddamento dello spirito del termometro e delle colonne, e da alcune circostanze sconosciute che sono state attribuite allo stato elettrico dell’aria dell’ambiente. Impiegando una serie più numerosa di colonne e un pendolo più pesante questo sembra oscillare più correttamente. Tra le altre interessanti intelligenze dal vostro dotto corrispondente M. Van Mons, sembra che il sig. Zamboni sia stato in grado di produrre forti scariche e scosse dalla colonna, la costruzione della quale sembra aver così grandemente risolto. Con l’aiuto di un condensatore l’ho vantaggiosamente sostituito per l’elettroforo nella lampada ad aria infiammabile (idrogeno) di Volta, che è adatta allo scopo; ma le colonne del sig. Zamboni potrebbero essere usate senza questo aiuto”. Ecco allora che nel settembre 1815 Ronalds si deve servire delle pile di Zamboni, ma giunge in ritardo. Un altro scienziato inglese, George Singer, infatti dichiarava che “più elegante e allo stesso tempo di semplice movimento sembra essere la colonna e il sistema del sig. Zamboni che ha fatto interessanti scoperte sulla struttura generale dello strumento. Impiega un ago verticale supportato da un delicato perno o lama di coltello leggermente sopra il centro di gravità, la posizione del quale può essere facilmente modificata per mezzo di un peso scorrevole attaccato all’estremità inferiore dell’ago che può essere regolato ed avere una accurata scala di taratura e manterrà le sue oscillazioni su uno spazio considerevole con un impulso anche molto leggero”.

Vi è poi un ultimo punto a favore dello Zamboni: sappiamo che all’inizio del 1815 aveva inviato una relazione ed un pendolo a Joseph Banks, presidente della Royal Society, il quale in una lettera a Ronalds scriveva: “Lo strumento a cui alludete nella vostra lettera concludo che è una modifica del congegno di De Luc da parte di un membro di nome Zamboni che è nella mia casa … ora appartenente alla Royal Society”.Anche un ulteriore articolo di Ronalds del 6 giugno 1815 sul Philosophical Magazine intitolato “On the Electric Column of Mr. DE LUC” conferma il primato dello Zamboni, negando l’evidenza: “La pila di De Luc applicata all’orologio di Ronalds permette di osservare facilmente le variazioni meteorologiche atmosferiche. L’uso del termine colonna elettrica e agente elettrico viene usato perché credo che i suoi ingegnosi esperimenti e potenti deduzioni dagli esperimenti del sig. Zamboni e altri provano vera la proposizione avanzata dal De Luc”. Come si vede il vizio di copiare o di voler affermare la erronea priorità dei propri lavori si è trascinata da tempi remoti e non è un guaio che talvolta affligge alcuni moderni ricercatori a caccia di gloria e finanziamenti.

Gli sviluppi delle pile Zamboni

La storia delle pile Zamboni non finì tuttavia con la sua morte sebbene in Italia l’interesse per esse diminuì notevolmente, ma nuovi capitoli ebbero altri protagonisti. Il metodo costruttivo “Zamboni” venne recuperato all’estero, infatti troviamo il suo nome sui cataloghi di strumenti elettrici ed elettromeccanici, come quelli dei primi anni del ‘900. Si trattava della Colonna Zamboni di Elster & Geitel in modelli con diversa differenza di potenziale, apparsa sul catalogo “Physikalische Apparate” di Ferdinand Ernecke a Berlino. Troviamo poi le pile secche di Zamboni con guaina protettrice da 300-350 volt, con i poli alloggiati in piatti d’ebanite con la superficie ingrandita artificialmente, oppure la pila Zamboni di Elster e Geitel modificata da Noack, composta da 1.000 o 2.000 foglietti di carta dorata e argentata con dischi in ottone per gli accoppiamenti. Infine la pila Zamboni in carta d’oro e d’argento con montatura in vetro con terminali a morsetto ai poli e scelta variabile tra 1.000 e 6.000 dischi con diametri da 28 a 50 millimetri, pubblicizzate nel catalogo “Appareil de Physique” (1906) di Max Kohl. Il capitolo successivo però è quello che ritengo più bello e significativo anche dell’approccio che diverse culture hanno con la scienza e con la sua storia. Un secolo dopo ritroviamo inaspettatamente le sue pile protagoniste nella seconda guerra mondiale. Mentre gli italiani si accontentavano dei venti milioni di baionette e della retorica fascista, gli inglesi, dalle solide tradizioni scientifiche, avevano ripreso in considerazione e ricostruito le pile Zamboni con metodi più moderni. Partirono da un esemplare di pila a secco costruita al Clarendon Laboratory dell’Università di Oxford nel 1840, che aveva funzionato fino alla metà del Novecento. Ristudiarono la problematica presso l’Admiralty Research Laboratory, e ricostruito su grande scala le eccezionali caratteristiche di queste pile rinnovando parzialmente la tecnologia che nel 1945 era ben più avanzata di un secolo prima. Le pile erano in grado di produrre una tensione fino a 10.000 volt e venivano impiegate per alimentare i convertitori d’immagini all’infrarosso, che servivano per la visione notturna durante le missioni belliche, e per i quali occorreva una sorgente di alta tensione leggera, piccola, comoda da maneggiare e trasportare (16).

I primi tentativi inglesi per realizzare le coppie elettromotrici oggi danno più l’idea di una spesa fatta alla drogheria all’angolo sotto casa raccogliendo quello che si trovava, piuttosto che il frutto di una ricerca di laboratorio. Veniva infatti utilizzata una sottile miscela di pasta d’amido (fornita dalla Lyons Ink, Ltd. e dalla Sichel Adhesive Ltd.), biossido di manganese e tracce di cloruro di zinco spruzzata su carta (fornita dalla East Lancashire Paper Company). Dopo l’asciugatura la carta veniva ricoperta con stagnola usando un accenno di pasta come legante. I primi risultati diedero una pila con 0,6 volt per disco. Un miglioramento si ottenne con una nuova miscela legante composta di biossido di manganese (fornito dalla British Drug Houses, Ltd., Boots Ltd. e Venesta Ltd.), gelatina cotta (fatta dalla British Glues and Chemicals, Ltd.), soluzione di cloruro di zinco al 10 per cento e acqua. In tale situazione era fondamentale il tipo di adesivo usato che non doveva avere una resistenza elettrica troppo alta quando si asciugava. Fu ritenuta idonea la Stationary Office Glucine Paste. In seguito venne aggiunta alla soluzione una piccola quantità di acquaragia per prevenire la schiumosità, con una lavorazione che portava ogni foglio completo allo spessore di un decimo di millimetro. I dischi ricavati dai fogli erano stipati in tubi di nitrato di cellulosa lunghi da 16 a 22 centimetri a seconda del voltaggio richiesto, con coperchi esterni in ottone sigillati con vernice a base di cellulosa. Per aumentare l’isolamento in ambienti più difficili venivano anche immersi in cera fusa. Successivamente vennero usati tubi in metacrilato di metile.

Dopo la guerra le pile servirono anche in campo astronomico per alimentare il sensore infrarosso montato su un telescopio, ma l’applicazione più duratura delle pile zamboniane rimane l’elettroscopio di Bohnenberger a campo ausiliario e ad elevata sensibilità. Successivamente anche le Officine Galileo di Firenze iniziarono la costruzione delle pile Zamboni, in versione compatta, e utilizzate fino al 1950 come sussidi didattici per le esercitazioni scolastiche. Era costituita da 1.000 o 2.000 coppie di dischi di carta argentata e dorata sorretti da un’asta di ebanite e premuti fra due armature terminali con serrafili a uncino. Dopo di che la nostra pila entrò nella storia.

BIBLIOGRAFIA

1] G. Zamboni, Della pila elettrica a secco. Dissertazione, Verona, Dionigio Ramanzini, 1812

2] G. Zamboni, Descrizione ed uso dell’elettromotore perpetuo, Verona, Tipografia Mainardi, 1814

3] S. Leschiutta, Gli “elettricisti” italiani della prima metà dell’Ottocento, Giornale di Fisica, 35 (1-2), 1994, p. 3

4] A. Orlandi, La ricerca e la letteratura scientifica, in Cultura e vita civile a Verona, Verona, Banca Popolare di Verona, 1979, p. 373

5] P. Maggi, Elogio dell’ab. Giuseppe Zamboni, letto all’Accademia d’Agricoltura Commercio e Arti, in Memorie dell’Accademia di Agricoltura Commercio e Arti di Verona, vol. XXV, 1851, p. 452; A. Rivato, Per le solenni esequie dell’abate Giuseppe Zamboni prof. di Fisica e matematica applicata fatte nella cattedrale il giorno XI dicembre an. MDCCCXLVI. Elogio., Verona, Tipografia Libanti, 1847

6] M. Tinazzi, Perpetual electromotive of Giuseppe Zamboni. Manufacture, comparisons and develops, Atti del XVI Congresso Nazionale di Storia della Fisica e dell’Astronomia, Centro Volta, Villa Olmo, Como, 24-25 maggio 1996, 1997, p. 667

7] F. Abbri, E. Torracca, L’elettrochimica, in Storia della Scienza Moderna e Contemporanea, Torino, UTET,1988, p. 301

8] F. Klemm, Zamboni e la sua pila a secco nel 200° anniversario della nascita, in Atti e Memorie dell’Accademia di Agricoltura Scienze e Lettere di Verona, Serie VI – Vol. XXVII, 1976, p. 159; G. Lenzi, La pila a secco dell’abate prof. Giuseppe Zamboni, in Atti e Memorie dell’Accademia di Agricoltura Scienze e Lettere di Verona, Serie VI – Vol. XXVII, 1976, p. 167; G. Zamboni, L’elettromotore perpetuo. Trattato diviso in due parti, Verona, Tipografia Erede Merlo, 1820-22

9] M. Pierucci, Nuovo Cimento, giugno, S8, 10, 1933, p. XVI

10] G. Zamboni, Sull’elettromotore perpetuo. Istruzione teorico-pratica, Verona, Tipografia di Giuseppe Antonelli, 1843

11] C.K. Aked, P. Rizzardi, Dell’orologio applicato all’elettromotore perpetuo, in Antiquarian Horlogy, 9 (5), 1975, p. 524

12] L. Nerini, G.A. Salandin, Duecento anni di elettricità, Museo di Storia della Fisica del Dipartimento di Fisica “Galileo Galilei”, Padova, Università degli studi di Padova, 1995

13] P.F. Forlati, Il primo orologio azionato dall’elettrico riprende a camminare dopo oltre 150 anni, La Clessidra, 6, 1972, p. 18

14] C.K. Aked, The First Electric Clock, in Antiquarian Horlogy, 8 (3), 1973, p. 276

15] F. Ronalds, Experiments on the Variable Action of the Electric Column, in Philosophical Magazine, xliii, 414, 1814, p. 6

16] T.H. Pratt, The Infra Red Image Converter Tube, Electronic Engineering, 20, 1948, p. 314

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here