MDMA, il peccato di Adam

Sostanza d’abuso regina della scena dance dalla seconda metà degli anni Ottanta dello scorso secolo, l’ecstasy ha incarnato nella sua storia molti volti e sostenuto mille usi diversi, distanti, talora antitetici, per approccio, metodi e finalità. Sintetizzata per la prima volta nel 1891 da Fritz Haber, dottorando tedesco di chimica e futuro Premio Nobel per la Chimica, l’MDMA (3,4 metilendiossi-metamfetamina) fu brevettata nel 1912 dall’industria farmaceutica Merck come sostanza intermedia per la sintesi di prodotti di interesse farmaceutico. Con il nome in codice di EA-1475 fu oggetto di studio nell’ambito del progetto MK-Ultra della CIA, finalizzato alla messa a punto di un siero della verità da utilizzare in operazioni di guerra e di intelligence. Ma per circa dieci anni, l’ecstasy ebbe anche largo impiego in psicoterapia, un utilizzo che recentemente è stato riscoperto ed è in corso di valutazione scientifica in alcuni paesi tra cui gli Stati Uniti, la Svizzera, Israele (1).

La preistoria degli usi medici

Gli usi medici dell’MDMA iniziarono nel 1965, quando negli Stati Uniti il chimico Alexander Shulgin riscoprì la sostanza nel corso dei suoi studi sistematici sulle fenetilamine, un gruppo di sostanze con un’azione psichedelica atipica. Già nel 1967, Shulgin e Claudio Naranjo avevano discusso l’utilizzo in psicoterapia dell’MDA [1], una molecola strettamente affine all’ecstasy e, con il nome di love drug, usata come sostanza d’abuso negli anni Sessanta [2]. All’epoca Shulgin era consulente della Drug Enforcement Administration (DEA), l’amministrazione federale statunitense per il controllo e la repressione del consumo di droghe. Con piena autorizzazione potè quindi sperimentare per circa dieci anni gli effetti dell’MDMA e delle altre fenetilamine su se stesso e su un gruppo di amici. La particolarità degli stati mentali indotti dall’MDMA convinsero Shulgin che il suo uso poteva dare grandi vantaggi nella ricerca psicologica e nella psicoterapia [3]. Nel 1978, pubblicando il primo resoconto mai dato alle stampe sull’azione psicotropa dell’MDMA [4], il ricercatore concludeva: «Ci sono pochi indicatori fisici dell’intossicazione e le sequele psicologiche sono virtualmente inesistenti. Dal punto di vista qualitativo, la sostanza sembra evocare un stato di coscienza alterato facilmente controllabile caratterizzato da elevazione dei toni emotivi e sensuali». Furono queste proprietà, ritenute interessanti in ambito psicoterapeutico, che suggerirono l’avvio di numerose sperimentazioni cliniche. Già dal 1974, tuttavia, l’MDMA aveva iniziato a diffondersi lentamente nella pratica psicoterapica grazie all’entusiasta opera di divulgazione e proselitismo fatta da Leo Zeff. Questi era uno psichiatra prossimo alla pensione, amico di Shulgin, attraverso il quale aveva conosciuto e provato gli effetti dell’MDMA. Zeff era convinto di aver trovato un prezioso strumento terapeutico, tanto che nei dieci anni successivi si impegnò molto per far conoscere la sostanza e le sue potenzialità agli psichiatri americani [5].

A partire dalla metà degli anni Settanta, così, un numero sempre maggiore di psichiatri statunitensi cominciò a utilizzare l’MDMA nelle terapie. Essi vedevano nella sostanza un potente sussidio terapico, capace di facilitare la comunicazione, l’empatia tra paziente e terapista, l’introspezione e la riduzione ell’ansia. In tale contesto l’MDMA divenne così nota ome Adam, un nome che alludeva allo stato di originaria serenità e innocenza che la sostanza sembrava ripristinare nei soggetti cui veniva somministrata [6]. Nonostante la fede riposta nell’efficacia terapeutica dell’MDMA, gli psichiatri che ne facevano uso erano riluttanti a realizzare e a pubblicare studi sistematici, temendo che ciò avrebbe accelerato la criminalizzazione ella sostanza, come era accaduto solo una decina d’anni prima per l’LSD, la mescalina e gli altri allucinogeni usati in psicoterapia [7].

Empatogena o entattogena?

Per distinguere nettamente l’ecstasy dal gruppo di allucinogeni già bandito, Ralph Metzner (2) propose nel 1983 l’introduzione di una nuova classe di definizione specifica, quella degli empatogeni. Così scriveva nella relazione alla conferenza su «Psichedelici e spiritualità» tenuta all’Università della California di Santa Barbara: «Un altro gruppo di sostanze sono le fenetilamine, di cui l’MDA (metilendossi-amfetamina) è un esempio. Invece di chiamarle sostanze psichedeliche, suggerirei il termine “empatogene”. Empatogeno significa generatore di empatia. […] Queste sostanze non provocano le visioni indotte dall’LSD. Esse non producono un pensiero a più livelli o l’obiettivazione, la separazione delle mente come fanno l’LSD e gli altri psichedelici. Esse generano uno stato di intensa empatia con sé e con gli altri nel senso più generale e profondo. Uno stato di empatia in cui il sentimento prevalente è che il sé, gli altri e il mondo sono buoni, che tutto va bene. […] In questo senso, i pazienti cui è stata data la sostanza possono osservare e affrontare i loro problemi attraverso l’empatia. Essi sembrano in grado di produrre cambiamenti su se stessi molto più rapidamente di quanto non si riesca a fare attraverso la terapia ordinaria». Al di là della retorica pseudo spiritualistica, la differenziazione così avanzata da Metzner era ben fondata sulla notevole diversità degli effetti dell’MDMA rispetto agli psichedelici.

Tre anni più tardi, con maggiore dettaglio e attraverso evidenze sperimentali, David Nichols discuteva nuovamente la questione della necessità dell’introduzione di una nuova categoria di composti psicotropi per trovare adeguata sistemazione concettuale all’MDMA. Con una approfondita analisi degli effetti e soprattutto delle somiglianze e delle differenze tra strutture chimiche, Nichols dimostrò che l’unicità dell’MDMA si fonda sulla assoluta singolarità delle sue capacità di modulare il tono affettivo e sulla diversità, sulla specificità strutturale e quindi sulla

peculiarità delle interazioni con il substrato cerebrale della molecola rispetto agli psichedelici cui ciò nonostante era stata assimilata. Nichols considerava il termine empatogeno inadeguato: troppo limitato, rispetto all’ampiezza e alla natura degli effetti dell’MDMA, e allusivo a qualcosa di dannoso, portando inopportunamente con sé il termine «patogeno». Egli proponeva, quindi, il termine «entattogeno»: «Sembra che gli effetti di queste sostanze [MDA, MDMA] rendano il terapeuta o il paziente capaci di raggiungere e affrontare complessi emozionali dolorosi che non sono ordinariamente accessibili. Dato che la parola “tatto” designa la capacità di comunicare e interagire con sensibilità e cura, in modo da evitare ogni offesa, mi sembra che la radice latina di questa parola, “tactus”, sarebbe appropriata come parte del termine. Con l’aggiunta della radice greca “en” (tra o dentro) e “gen” (produrre) si crea infine il termine “entattogeno” che significa capace di produrre commozione, sensibilità, apertura» [8].

La psicoterapia

Comunque definite, le qualità psicotrope di Adam risultavano per molti operatori dei sussidi ideali in psicoterapia. Dalla metà degli anni Settanta alla metà degli anni Ottanta, l’MDMA fu usato come catalizzatore per facilitare la comunicazione e l’empatia tra paziente e terapeuta, per stimolare la percezione emotiva e la capacità di introspezione e comprensione di sé. La sostanza veniva ritenuta un mezzo per attenuare le inibizioni, le tensioni e il disagio, l’angoscia difensiva della situazione terapeutica [9]. Nel 1985, Sophia Adamson raccolse e pubblicò un gran numero di resoconti sull’uso di Adam in contesto terapeutico, rilevando tra l’altro una percentuale non piccola di consumatori che avevano beneficiato della sostanza come «automedicazione» per problemi di umore [10]. Nel primo lavoro pubblicato sull’uso in contesto clinico, George Greer e Requa Tolbert [11] discussero i positivi riscontri rilevati utilizzando MDMA in sessioni di psicoterapia.

Secondo i due studiosi, diciotto dei ventinove soggetti dello studio avevano accertato cambiamenti positivi nell’umore dopo una singola sessione, ventitre avevano riscontrato favorevoli trasformazioni nell’attitudine verso se stessi e la vita in generale, ventotto avevano riscontrato dei progressi nelle relazioni interpersonali e tre su cinque coppie avevano rilevato miglioramenti nel loro rapporto. Inoltre, quattordici persone affermarono di aver ottenuto una diminuzione della pulsione all’uso e del consumo effettivo di altre sostanze psicotrope (tabacco, alcol, caffeina, cannabis, cocaina e LSD); tutti e nove i soggetti con disturbi psichiatrici diagnosticabili che erano stati compresi nello studio riferirono una netta diminuzione dei sintomi. Dal punto di vista del protocollo terapeutico, Greer e Tolbert ipotizzavano che l’aspetto più interessante di Adam ai fini della psicoterapia fosse la facilitazione di una comunicazione più diretta tra le persone coinvolte in una relazione emozionale significativa. Si può riconoscere tuttavia soltanto un valore parziale, forse solo aneddotico, allo studio di Greer e Tolbert. L’indagine fu svolta senza isolare o eliminare l’influenza delle aspettative e della conoscenza della situazione sia da parte dei soggetti esaminati, sia per i terapeuti, come si fa per esempio negli studi a doppio cieco. Essa si limitava inoltre a rilevare i resconti soggettivi dei pazienti, senza nessun tentativo di misurazione più oggettiva delle trasformazioni e dei miglioramenti eventualmente indotti dall’introduzione della sostanza nella terapia. Le stesse pecche metodologiche erano evidenti nel lavoro della Adamson e di Metzner [12], in cui i due rivendicavano l’efficacia dell’MDMA nella rievocazione della memoria e dei conflitti rimossi.

Adam diventa Ecstasy

Parallelamente alla crescente diffusione in clinica, Adam trovava accoglienza nella schiera elitaria di «esploratori» della coscienza, tra coloro che avevano vissuto l’avventura psichedelica della fine degli anni Sessanta con LSD, mescalina e Psilocybe (3). La diffusione e la commercializzazione di Adam crebbe, almeno fino ai primi anni Ottanta, in una sorta di circuito chiuso, all’interno dei più o meno bizzarri circoli della controcultura americana: in un mercato animato più dalla volontà di diffondere un nuovo strumento per la ricerca introspettiva e «metafisica» che dal miraggio del facile profitto. Le motivazioni e le attitudini dei fornitori di droga sono estremamente importanti nel determinare chi potrà avere accesso alla droga e come essa sarà usata. La rete di distribuzione gioca un ruolo chiave nella formazione delle norme che dettano le modalità d’uso, le aspettative e la percezione degli effetti piacevoli e dei pericoli connessi all’uso di una sostanza. Questo vale in particolar modo per il periodo iniziale di diffusione di una sostanza d’abuso, quando la conoscenza folkloristica dei consumatori riguardo le dosi appropriate, le forme di riduzione del rischio e i modelli culturali del consumo è ancora largamente indefinita.

Dal chiuso del mercato elitista, dove il consumo era controllato dal singolare valore mistico-terapeutico attribuito ad Adam, l’MDMA fu inevitabilmente attratta nei meccanismi della florida e cinica economia delle sostanze a uso voluttuario. Mutarono così immediatamente i sistemi e le finalità di commercializzazione, come testimonia il nuovo battesimo imposto ad Adam dai distributori clandestini: ecstasy, un nome certamente più adatto a una sostanza utile all’evasione, al divertimento, alla soddisfazione sensuale.

Era il 1983 quando un’organizzazione texana cominciò un’imponente opera di produzione e commercializzazione dell’ecstasy. La creazione della domanda fu perseguita attraverso un’accorta politica di propaganda: bassi prezzi e capillare distribuzione. L’ecstasy veniva venduta apertamente nei bar di Austin e di Dallas, tanto che l’acquisto poteva essere fatto anche tramite carta di credito. Si organizzavano e si pubblicizzavano i primi ecstasy parties in cui si acquistava, unitamente al biglietto, il diritto alla consumazione di una dose di MDMA, descritta ora come droga del divertimento e del ballo. Nel giro di un anno, l’uso silenzioso e limitato di Adam si trasformò in un fenomeno epidemico: l’MDMA era stata riformulata culturalmente. L’ecstasy aveva sostituito la cocaina tra i giovani yuppies e il suo uso ormai in larga parte voluttuario e assoggettato agli interessi di mercato scatenò l’allarme sociale e la richiesta di una regolamentazione del consumo.

Medici contro la proposta di bando

Nel luglio 1984, la Drug Enforcement Administration statunitense (DEA) comunicò l’intenzione di inserire l’ecstasy nella prima tabella delle sostanze sottoposte a controllo, la più restrittiva, quella comprendente i narcotici e le maggiori sostanze d’abuso. La proposta di criminalizzazione dell’ecstasy suscitò la reazione del nutrito gruppo di psichiatri che credevano nel suo valore terapeutico. Lester Grinspoon, James Bakalar, George Greer e Thomas Roberts chiesero alla DEA che l’eventuale regolamentazione e il tipo di controllo e restrizione all’uso dell’MDMA fossero decise attraverso una serie di audizioni di esperti sul tema.

Le posizioni, che qui di seguito riportiamo, contro la proposta di bando illustravano esaustivamente i protocolli e le finalità d’uso della sostanza in psicoterapia [13].

Joseph Downing, uno psichiatra di San Francisco con vasta esperienza nella terapia con sostanze psicotrope, mise in risalto la capacità dell’MDMA di attivare il processo di recupero delle memorie represse, traumatiche, e quindi le potenzialità d’uso della sostanza nel trattamento dei disordini psichiatrici gravi come la depressione maggiore e i disturbi psicotici reattivi.

Philip Wolfson, clinico al reparto di psichiatria dell’ospedale di Redwood City, California, enfatizzò invece l’utilità dell’MDMA nella riduzione delle difese psicologiche, nel miglioramento della capacità di sciogliere e integrare i conflitti psichici nella personalità. Sulla base dei positivi riscontri rilevati nel trattamento di pazienti psicotici, Wolfson sosteneva inoltre che l’MDMA rappresentasse un potente mezzo per la ricerca della coerenza e della coesione del sé, per centrare intorno all’io le esperienze eventualmente frantumate e diffuse.

Richard Yensen, uno psicologo clinico con una discreta esperienza dell’uso di sostanze psicotrope nella terapia, sottolineò la sicurezza e la maneggevolezza dell’uso della sostanza nel contesto terapeutico. E, a proposito della carenza di studi non soggettivi sull’efficacia dell’MDMA in clinica, auspicava l’autorizzazione all’uso proprio per effettuare studi a doppio cieco in grado di dare eventualmente una rappresentazione imparziale e scientifica dell’apparente utilità terapeutica.

E ancora: Robert Masters, uno dei pionieri dell’uso di sostanze psicotrope in psicoterapia, si soffermò sull’impressionante capacità dell’MDMA di eliminare le ideazioni e le emozioni negative nei soggetti con depressione maggiore e tendenze suicidarie, talora fugate con singole sessioni di psicoterapia supportata dalla sostanza. Pur riconoscendo la necessità di accumulare evidenze ulteriori sull’efficacia e la sicurezza di questo approccio terapeutico, Masters sosteneva che la limitata esperienza fosse tuttavia sufficiente a indicare l’MDMA quale potenziale terapia d’elezione per la depressione maggiore.

Nella sua audizione, lo psichiatra Robert Lynch sostenne addirittura che l’MDMA fosse potenzialmente la più importante sostanza per l’esplorazione della mente e l’intervento psichiatrico entrata in uso negli ultimi vent’anni. Le esperienze condotte l’avevano convinto che nella sessione di psicoterapia con MDMA lo stato mentale indotto dalla sostanza permettesse al paziente di divenire terapeuta di se stesso. Allo stesso tempo, era convinto che la tonalità affettiva e la particolarità dell’esperienza costituissero una formidabile spinta motivazionale alla trasformazione del comportamento in direzione del superamento dei problemi.

Già direttore della sezione trattamento psicosociale del National Insitute of Mental Health, John Docherty si schierò a favore del proseguimento della ricerca sugli usi medici della sostanza. Pur obiettando sull’inadeguatezza scientifica dell’esperienza dell’MDMA in ambito clinico, egli riteneva la sostanza uno strumento funzionale alla possibile integrazione tra l’approccio psicoterapico e quello farmacologico.

Notevole, infine, sotto il profilo delle implicazioni teoriche in psichiatria era la testimonianza di George Greer. Egli credeva nel potenziale terapeutico dell’MDMA, pur essendo consapevole che in questa applicazione la sostanza non era stata sottoposta ad alcun serio studio scientifico. Greer ne sosteneva la legittimità argomentando sulla distinzione tra trattamenti dall’efficacia scientificamente testata e interventi terapeutici accettati dalla comunità medica. Non tutti i trattamenti accettati e praticati in medicina, rilevava Greer, possono vantare un’efficacia accertata in sede scientifica, soprattutto in psichiatria. L’efficacia della psicoterapia stessa, con la miriade di tecniche che la caratterizzano, non ha uno statuto scientifico, purtuttavia essa è accettata in medicina.

Terminate le audizioni, il giudice Francis Young concluse che l’MDMA non sembrava presentare un elevato potenziale d’abuso, che vi era un uso terapeutico accettato e che sotto la supervisione medica la somministrazione della sostanza aveva un sufficiente grado di sicurezza. Per queste ragioni egli proponeva l’inserimento dell’MDMA nella tabella III, un provvedimento che avrebbe mantenuto l’uso medico della sostanza.

La direzione centrale della DEA rigettò le conclusioni del suo stesso giudice e confermò l’inserimento nella prima tabella delle sostanze psicotrope, quelle vietate per ogni uso, compreso quello medico e di ricerca. Una misura che era già stata deliberata in via provvisoria il 1° luglio del 1985. La giustificazione primaria del provvedimento si incentrava su uno studio non ancora pubblicato, condotto all’Università di Chicago dal gruppo di Lewis Seiden e George Ricaurte, che dimostrava nei ratti la tossicità dell’MDA (non dell’MDMA, si badi) sulle terminazioni dei neuroni che usano la serotonina come trasmettitore. Come sottolineato dagli stessi autori nelle conclusioni, il lavoro di Ricaurte non provava la neurotossicità dell’MDA sugli esseri umani: «Data la differenza tra le specie, nelle dosi, nella frequenza e nelle modalità di somministrazione, così come la maniera diversa in cui i ratti e gli uomini metabolizzano le amfetamine, sarebbe prematuro estrapolare le nostre acquisizioni agli uomini» [14]. Nell’esperimento infatti si usavano dosi in milligrammi per chilo cinque volte superiori a quelle mediamente usate dai consumatori; inoltre, la somministrazione sugli animali avveniva per endovena ed era ripetuta ogni dodici ore.

Piuttosto che alla forza della ricerca di Ricaurte, quindi, il bando dell’MDMA e la fine dell’uso medico di Adam sono da imputarsi in primo luogo a una volontà politica, a una scelta dettata soprattutto da istanze moralistiche, e in secondo luogo anche alla debolezza delle evidenze portate a favore dell’utilità medica della sostanza.

MDMA, una valutazione critica

L’uso e la ricerca sulle eventuali applicazioni psichiatriche dell’MDMA sono stati associati in non rari casi a modelli poco ortodossi di pratica clinica e indagine sperimentale, quando non addirittura a forme di misticismo in aperta negazione dello stesso approccio scientifico che caratterizza la biomedicina contemporanea. E anche le rare indagini sull’uso dell’MDMA in contesto terapeutico sono state segnate sin dall’inizio da gravi e numerose carenze: lacune nei controlli e trascuratezza dei protocolli sperimentali, scarso distacco scientifico, tendenza a fondarsi sull’aneddotica piuttosto che sull’osservazione sistematica, assenza di descrizioni adeguate dei pazienti e dei soggetti sottoposti allo studio, assenza di definizioni dei criteri per la misurazione dell’efficacia terapeutica, forte inclinazione alle interpretazioni speculative, peso eccessivo dei preconcetti nella ricerca e del valore pregiudizialmente positivo assegnato all’alterazione degli stati di coscienza.

Nel complesso, dunque, si è trattato di studi largamente distanti dagli standard scientifici. Ciò però non è un fatto infrequente nella scienza. Le nuove tradizioni di ricerca, i programmi di indagine su oggetti scientifici nuovi, come era l’MDMA, nella fase di avvio sono sempre e ovviamente caratterizzati da un grado elevato di imprecisione, dal proliferare di ipotesi, di approcci spesso errati, dalle teorizzazioni eterodosse e contraddittorie, talora dalla contaminazione con elementi culturali per definizione anti-scientifici. La debolezza scientifica, tuttavia, in questo caso sembra rimandare alla natura astratta dei presupposti teorici e dei principi ispiratori della pratica terapica con MDMA, alla loro sostanziale irriducibilità ai canoni dell’impresa scientifica. Essi erano infatti modellati sull’impianto dottrinale degli indirizzi psicoterapici di matrice analitica e umanistica più eterodossi e speculativi, del tutto incapaci di confrontarsi con la prepotente affermazione della psichiatria biologica e della farmacoterapia a essa associata.

MDMA e neuropsicofarmacologia

La particolarità dell’esperienza degli usi medici dell’MDMA pone un interessante problema da affrontare in sede storica. Perché, considerata la natura degli effetti dell’MDMA, la sostanza è stata usata solo come sussidio in psicoterapia e nessun serio tentativo è stato fatto per valutarne le eventuali potenzialità come psicofarmaco, come antidepressivo? La questione appare ancor più degna di rilievo se si considerano la storia e i principi guida delle ricerche che hanno portato alla formulazione e alla commercializzazione della fluoxetina, il Prozac, negli USA dal dicembre 1987.

Dalla metà degli anni Sessanta, il paradigma di ricerca per gli antidepressivi era fondato concettualmente sulla teoria aminergica della depressione e aveva come riferimento nella pratica terapeutica l’imipramina: una sostanza in grado di alleviare i sintomi della depressione ma non dotata di azione genericamente eccitante, un normalizzatore dell’umore piuttosto che uno stimolante aspecifico [15-16], o un «energizzatore psichico» [17]. Dal punto di vista teorico l’ipotesi aminergica postulava la depressione come manifestazione clinica di uno scarso funzionamento dei sistemi nervosi aminergici: noradrenalina, serotonina, dopamina [18].

Successivamente, a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, una serie di evidenze cliniche e farmacologiche sembrava indicare il ruolo centrale della trasmissione mediata dalla serotonina nella modulazione dell’umore e suggeriva l’ipotesi che i sintomi depressivi, quelli del comportamento alimentare e del disturbo ossessivo-compulsivo, fossero espressione peculiare dei deficit serotoninergici. In questo senso, la ricerca si concentrava sulla messa a punto di una sostanza in grado di potenziare selettivamente la trasmissione mediata dalla serotonina. Centinaia di composti furono così analizzati per la loro capacità di aumentare le funzioni serotoninergiche senza produrre modificazioni nel funzionamento di altri sistemi neuronali. Messa a punto e studiata nei laboratori della Lilly da David Wong nel 1974 [19], la fluoxetina è il risultato più importante di questo oneroso programma di ricerca sostenuto dalla dimensione dei profitti prevista dalle ricerche di mercato. Riscoperta negli stessi anni in cui veniva sviluppata la fluoxetina, l’MDMA presentava un profilo d’azione farmacologica praticamente coincidente con il modello previsto dal paradigma di ricerca dell’antidepressivo perfetto e del tutto simile a quello del Prozac.

Il pregiudizio morale  che ha fermato la scienza

Come la fluoxetina, l’MDMA è un inibitore selettivo della ricattura di serotonina, ma allo stesso tempo ne stimola pure il rilascio. Perché allora l’ecstasy non è stata studiata quale potenziale antidepressivo prima che si paventasse la sua controversa neurotossicità, prima che si affermasse, pure in maniera problematica, l’idea del suo potenziale d’abuso, senza nessun sistematico studio preclinico in grado di precisare efficacia e pericoli?

Un primo elemento da considerare è che l’MDMA era già coperta da un brevetto. Le ricerche tossicologiche, precliniche e cliniche che servono a saggiare l’efficacia e la sicurezza di un farmaco sono sostenute dalle case farmaceutiche in previsione della possibilità di brevettare la sostanza e così sfruttarla commercialmente con diritto di esclusiva. Questo era impossibile per l’MDMA. Senza finanziamenti e lobbies, la sostanza era destinata a ineluttabile condanna qualunque fosse stata la sua efficacia e la sua maneggevolezza in ambito clinico. Un altro fattore da considerare è d’ordine culturale. La nostra idea di farmaco non contempla la dimensione edonistica. Una sostanza medicamentosa deve servire a curare dei sintomi, ad alleviare il dolore. Tale non è se può dare piacere.

È evidente quanto sia controversa questa distinzione soprattutto in ambito psichiatrico. Lo ha dimostrato peraltro l’impressionante successo commerciale del Prozac, non raramente usato per innalzare il tono dell’umore piuttosto che trattare franchi sintomi depressivi. Una modalità d’uso «psicocosmetico» alla cui affermazione ha probabilmente contribuito la massificazione dell’uso stesso di ecstasy. Tuttavia, all’epoca del bando dell’MDMA, e data la cospicua diffusione dell’ecstasy come sostanza d’abuso, questa problematica interdizione morale al centro della farmacologia rimaneva imperativa e inesorabile.

Sempre a questo proposito vanno considerate la specificità e l’intensità degli effetti psicotropi dell’ecstasy. Il modello medico della psichiatria contemporanea non contempla l’uso di sostanze che possano produrre modalità di concepire la realtà e sentire emozioni distanti da quelle giudicate normali, ovvero discrepanti dagli stati emotivi abituali per un soggetto. Generalmente, al contrario, una sostanza in ambito psichiatrico viene usata per contrastare stati come questi, di regola riconosciuti patologici e disfunzionali. In tal senso, il dibattito sulla adeguatezza degli usi medici dell’ecstasy può servire come modello per l’analisi della problematica compresenza di elementi normativi ed etici e di fattori biologici nel concetto di normalità e patologia in ambito psichiatrico.

Probabilmente, però, più di ogni altro fattore, la scarsa o nulla considerazione dell’MDMA quale potenziale farmaco e la compatta opposizione anche solo all’avvio di serie valutazioni in clinica sono da imputare ai proclami, ai metodi e agli atteggiamenti dei suoi stessi patrocinatori, mentori trasognati e pittoreschi, sinora incapaci di prospettare una immagine dell’MDMA assimilabile alla tradizione scientifica e aperta all’indagine sperimentale.

L’articolo è stato pubblicato su Sapere nel numero di dicembre 2006. Stefano Canali è storico della medicina.

NOTE

(1) Attualmente sono in corso ricerche sull’uso dell’MDMA nel trattamento del disturbo da stress post-traumatico negli Stati Uniti (autorizzazione Food and Drug Administration); in Israele, presso l’Università di Tel Aviv; in Svizzera. Presso il McLean Hospital di Belmont, Massachusset, la Harvad University sta conducendo ricerche sull’uso dell’MDMA nel trattamento dell’ansia nei pazienti oncologici. In Spagna le ricerche iniziate a Madrid nel 2000 con l’autorizzazione Agencia Espanola del Medicamento – Ministero della Sanità, sono state interrotte nel 2003. Sono in corso audizioni presso il governo per la ripresa e il completamento dello studio.

(2) Ralph Metzner nel 1962 fu coautore con Thimoty Leary e Richard Alpert di The Psychedelic Experience.

(3) I Psilocybe sono un genere di funghi appartenente alla famiglia delle Strophariaceae. Contengono sostanze con spiccato effetto sul sistema nervoso (alcaloidi psicotropi quali psilocina e psilocibina, molecolarmente simili all’LSD o acido lisergico).

BIBLIOGRAFIA

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[18] SNYDER S.H., The new biology of mood, Pfizer, New York 1988.

[19] WONG D.T., HORNG J.S., BYMASTER F.P., HAUSER K.L., MOLLOY B.B., «A selective inhibitor of serotonin uptake: Lilly 110140, 3-(p-trifluoromethylphenoxy)-N-methyl-3-henylpropylamine », Life Sciences, 15, 3, 1974, pp. 471-79.

Leggi anche: Cosa fa l’ecstasy al cervello

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