Categorie: Società

Insostenibile incertezza

Se c’è una parola che può riassumere la vita di chi soffre di artrite reumatoide, questa è “incertezza”. In Italia, prima di arrivare a una diagnosi della malattia, le persone possono aspettare anche due anni. Il ritardo dipende da vari motivi: dal mancato riconoscimento dei sintomi da parte dei medici di base, alla trascuratezza dei pazienti, per il 75 per cento donne. In ogni caso, una volta stabilita la causa del dolore, spesso non si sa bene a chi rivolgersi, né come affrontare la malattia. Tanto che oltre il 37 per cento dei malati si preoccupa esclusivamente dei sintomi e assume antidolorifici e antinfiammatori invece che curare la causa con farmaci appropriati. Mancano, insomma, informazione e assistenza adeguate, che possono fare la differenza per una diagnosi precoce e cambiare di molto il decorso della malattia. È il messaggio che lanciano oggi la Società italiana di reumatologia (Sir), l’Associazione nazionale malati reumatici (Anmar) e la Fondazione Censis, durante la presentazione del Primo rapporto sociale sull’artrite reumatoide “Un percorso ad ostacoli”, un’indagine scientifica sull’impatto che questa patologia cronica ha sulla qualità della vita.

Le statistiche sono state condotte su un campione di 646 pazienti (di cui 469 donne) e 300 medici di base. I dati parlano da soli, e confermano sostanzialmente quanto già sapeva l’Anmar. Un anno, in media, per avere una diagnosi: in oltre il 40 per cento dei casi i sintomi sono stati confusi con quelli dell’artrosi, dei reumatismi, del normale invecchiamento o, comunque, non considerati indicativi di una patologia. In seguito alla diagnosi, l’80 per cento dei pazienti accertati non frequenta centri specializzati, causa la lontananza dalla residenza, la mancanza di informazione sul servizio e liste di attesa di 50 giorni in media. Questo porta anche ad un approccio “erratico” alle terapie: solo il 60 per cento si cura con farmaci di fondo Dmrds (Disease modifying antirheumatic drugs), e appena il 7 per cento con farmaci biologici in grado di bloccare la progressione della malattia.

Le ripercussioni di un approccio sbagliato o tardivo sulla qualità della vita non sono indifferenti se si considera che l’83 per cento degli intervistati vive nella costante paura di un’invalidità permanente, il 33 ha dovuto rinunciare al lavoro dopo pochi anni dalla diagnosi, il 50 per cento soffre di depressione, il 26 ha rinunciato alla vita sessuale e il 9 alla maternità o alla paternità. “C’è una finestra temporale di pochi mesi in cui è possibile modificare in modo radicale il decorso della malattia e migliorare l’aspettativa e la qualità di vita delle persone colpite dall’artrite reumatoide”, commenta Fausto Salaffi, docente di Reumatologia dell’Università Politecnica delle Marche, che ha collaborato allo studio. Un ritardo nella diagnosi e nel trattamento appropriato non porta solo a una disabilità fisica, ma anche psicologica e sociale. (t.m.)

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