La biologia tra legge e narrazione

“Il ruolo che si assegna al passato è la necessaria conseguenza del modo di considerare il presente e di interpretarlo. Il peso e l’incidenza che una determinata epoca attribuisce al tempo dipendono dalla considerazione che quella stessa epoca si fa delle cose e degli esseri viventi.” (François Jacob)

La nuova filosofia della scienza e la biologia teorica convergono oggi su una domanda relativa al ruolo scientifico della ricostruzione storica e della narrazione. Possono ormai affiancarsi spiegazioni consistenti e reciprocamente incompatibili (Putnam, 1987) e, d’altro canto è assodato che ostinarsi a cercare ancora un unico metodo scientifico valido per tutte le scienze risulta ormai non plausibile e infruttuoso (Toulmin, 1982).

Si delinea in questo modo uno spazio di possibile coesistenza tra criteri di ricerca tra di loro lontani e tuttora in corso di trasformazione.

Nonostante ciò la matrice neopositivista che considera l’epistemologia una sorta di giurisprudenza o di codice normativo per demarcare cosa è scienza da cosa non lo è continua ad essere un sottofondo implicito di riferimento anche per gran parte delle scienze del vivente (Ruse 1988). E questo nonostante che i tentativi di uniformare la razionalità scientifica nell’ordine di un metodo universale, possibilmente assiomatico, siano stati messi in crisi a partire dagli anni ‘70.

Eppure forse più che dalle posizioni critiche dei nuovi filosofi della scienza come Lakatos, Laudan, o Feyerabend, unite al relativismo di sociologi della scienza come Toulmin, Barnes, o Mulkay, il superamento di una epistemologia “legiferante” è segnalato da alcune quesitoni cruciali di metodo proprie delle scienze dei processi temporali.

Il nesso formale che legava strettamente spiegazione e previsione (nesso nomologico-deduttivo) si modifica e, da basilare, diventa circostanziato e locale. Il problema della dimostrazione e della conferma si arricchisce di nuove articolazioni e, in particolare in biologia, criteri di ricerca tradizionalmente considerati estranei all’indagine scientifica si caricano di un nuovo interesse.Si tratta delle metodologie usate per spiegare i fenomeni contingenti, casuali, il ruolo teorico di eventi unici ed irripetibili, il loro innesco di cambiamenti a cascata (costruttivi o distruttivi). In questo caso “eventi” possono essere improvvisi e clamorosi punti di svolta geoclimatici, impatti di materiale cosmico sul pianeta, così come “azioni” o “scelte” comportamentali di gruppi ristretti di popolazioni che modificano radicalmente contesto e patrimonio genetico di una specie. Nelle loro pur grandi diversità si tratta di fenomeni evidentemente molto lontani da quelli che possono costiture l’oggetto di una ricerca basata su invarianti universali e dimostrazioni certe.

L’irreversibilità

I fisici già da tempo si sono interessati ai fenomeni del tempo scalare, irreversibile, ai sistemi che si trasformano nel corso del tempo raggiungendo stati assolutamente non prevedibili, benché partiti da condizioni iniziali note e apparentemente identiche (Cini, 1994).Strutture, fenomeni, sistemi non solo attraversati e misurabili da questo tempo processuale, ma plasmati costitutivamente da esso, diventano così, a tutti gli effetti, oggetti storici in senso compiuto. E si impongono come fattori cruciali per la ricerca scientifica chiedendo una revisione dello stesso concetto di storicità come fenomeno della realtà tutta e non più appannaggio metodologico della sola storia umana.

Curiosamente questa trasformazione, ormai quasi obbligata nel cuore stesso dell’epistemologia, non sta investendo le scienze umane che, per definizione, studiano oggetti in primo luogo storici. Sociologia, antropologia, economia, sembrano risentire ancora del lungo sforzo di autolegittimazione scientifica compiuto per evitare le “incertezze” e la mancanza di previsionalità tipica della storia come disciplina.

L’ irreversibilità storica, la contingenza, la caducità, i tortuosi percorsi di sviluppo e di declino dei loro oggetti di studio sono costantemente esorcizzati nella ricerca di costanti più o meno universali, nello sforzo di previsione tendenziale o probabilistica dei comportamenti, globali o individuali. Insomma le scienze umane risultano discipline tuttora alla rincorsa della “scientificità” quantificante, della dimostrazione formale e si trovano paradossalmente ad essere scavalcate dal momento che invece proprio da settori della fisica o della matematica nasce l’attenzione ai sistemi caotici, all’irreversibilità e al caso.

L’”anomalia” della biologia

Senza dubbio è nella nuova biologia teorica che la questione metodologica del fare scienza mediante la storia sta raggiungendo la dimensione di un problema non più rinviabile.

La ricostruzione della teoria evoluzionista avviata negli anni ‘40, ridisegnando l’intero arco delle questioni di metodo di questa disciplina, mette in evidenza che il mondo vivente è un prodotto storico, una costruzione organizzata dal passato e costantemente in divenire. Gli organismi, le specie, gli ecosistemi, non ultimo il programma genetico individuale di cui fino a metà secolo si sottolineava soprattutto la caretteristica di codice ‘invariante’ sono i prodotti dalla storia profonda delle ere passate.

A buon diritto il biofisico Mario Ageno ricordava che “non ci sono per i fenomeni biologici altre spiegazioni possibili che quelle evolutive” e per Steven Rose, neurobiologo, teorico, storico e critico della biologia “nulla ha significato in biologia se non nel contesto della storia”. Ernst Mayr poi, teorico della Nuova Sintesi Evoluzionista, nonché, in prima persona, tra i suoi artefici di spicco, segnala come comune compito ormai maturo, sia per il biologo che si occupa delle questioni di metodo, sia per l’epistemologo attento alla sfida della pluralità delle metodologie, la necessità di lavorare a una nuova filosofia della biologia in chiave storico-processuale: ” la natura storica degli organismi deve essere considerata appieno, in particolare la presenza di un programma genetico storicamente acquisito”.

La teoria dell’evoluzione non insiste però solo su caratteristiche del cambiamento, come avviene per l’evoluzione geologica o cosmologica nelle dinamiche di stadi in successione, metabolismo trasformativo del pianeta, vivente e non. Presuppone, come suo fulcro, il concetto di “individualità”, un punto di particolare interesse filosofico.

E’ l’idea di biodiversità che trova dagli anni ‘50 espressione matematica in genetica delle popolazioni. Il ruolo giocato dagli individui, dai singoli, dai gruppi, le loro dinamiche nel tempo, le innovazioni di pochi (gruppi di cellule o popolazioni locali, animali o vegetali), amplificate nella progenie, a partire da un dato momento possono far divergere esponenzialmente interi destini di ecosistemi molto simili in partenza. L’unicità di ciascun oggetto e la pluralità dei suoi ruoli nella coevoluzione con gli ambienti sta agli antipodi della invarianza delle leggi della fisica classica, così come dalla varianza delle probabilità dei sistemi statistici.

La natura storica degli organismi va intesa dunque non in senso uniformemente processuale, ma secondo un’accezione ancor più prossima alla storia propria degli esseri umani. Quella che le varie storiografie ci mostrano come “azione” di civiltà, popoli, individui chiave, soggetti sociali, classi. Azione, cambiamento, costruzione, distruzione possono infatti essere raccontati, ricostruiti, spiegati, ma, di certo, mai soggetti a previsioni certe, né; passibili di dimostrazione formale o sperimentale.

Una convivenza difficile

Dal punto di vista dell’epistemologia si tratta allora di confrontarsi con una metodologia propriamente scientifica che risulta però inscritta in una metodologia storiografica. E’ quest’ultima che delimita lo sfondo su cui si possono collocare i momenti più analitici e riduzionisti, compresa la dimostrazione verificabile sperimentalmente. Livelli questi ultimi che possono essere sottoposti a procedure di previsione attraverso leggi e deduzioni e di dimostrazioni fattuali, così come mostrano i diversi settori della biologia molecolare.Questa integrazione dei due livelli, del livello della dimostrazione sperimentale e delle leggi all’interno di quello ricostruttivo-narrativo e dei processi, comporta una ridefinizione nuova dei pesi teorici di entrambe i metodi.

Non pochi filosofi tedeschi di fine secolo, attraverso la mediazione di Haekel, avevano colto proprio nell’evoluzionismo un momento di interfaccia tra le scienze naturali e le scienze storiche. Talora, come il neokantiano Paulsen, arrivando a ipotizzare che la biologia darwiniana avrebbe potuto avere ripercussioni sull’intero ambito delle scienze storiche e avrebbe contribuito di converso ad “una integrale storicizzazione delle scienze e dei loro oggetti”. Così come è noto che riconoscimenti di concordanza tematica tra materialismo storico ed evoluzionismo darwiniano erano venuti (sia pure in modo meno diretto di come si è ritenuto fino a non molto tempo fa) da Marx e da Engels. Del darwinismo Marx sottolineava appunto il fatto di essere una scienza storica che permetteva di unificare in un continuum “la Storia da noi scritta con quella da noi non scritta”.

Non bisogna però dimenticare che il disegno culturale complessivo dell’epoca intendeva per lo più una storicità contrassegnata dalla direzione cumulativa del progresso, tanto che la stessa vulgata evoluzionista non ne era immune. Deformando così il senso più profondo dell’evoluzionismo, estraneo a qualsiasi valorizzazione umana: l’evoluzionismo come processo e non come progresso.

Il rigore della ricostruzione

Ma perché l’intuizione di una dimensione di scientificità rigorosa ma non predittiva e dimostrativa, bensì ricostruttiva del passato, non ha avuto seguito fino ad oggi?

Dal versante epistemologico si osserva lo strutturarsi prima del neo positivismo, poi dei criteri di demarcazione tra scienze falsificabili e non scienze, tra cui anche la storia: tutte formazioni teoriche derivate dall’assunzione delle scienze esatte, astratte o sperimentali come prioritarie. Si escludono dalla possibilità di una falsificazione metodologica e dimostrabilità certa tutti quei saperi che riguardano le trasformazioni della realtà, materiale o psichica, prodotte dallo svolgersi stesso del tempo. Essi analizzano eventi del passato di cui ci arrivano solo tracce: un reperto fossile è indizio di specie estinte, così come un graffito rupestre, o un sintomo psichico, sono tracce di vissuti pregressi. Si tratta di tracce parziali, e dunque gli eventi sono conoscibili solo in via ipotetica e narrativa. Non sono sempre “verificabili”, dimostrabili sperimentalmente, perché non più riproducibili nel tempo presente.

Ma attribuire all’epistemologia classica ogni responsabilità è troppo e insieme troppo poco. Anche la biologia teorica sembra implicata direttamente in quest’esito a tutta prima antistorico. Addirittura la biologia evolutiva stessa. Infatti dopo l’eclissi del darwinismo d’inizio secolo, negli anni della sua riscoperta, proprio la Nuova Sintesi Evolutiva sottolinea con forza la sua caratteristica normativa: la legge della selezione naturale e le spiegazioni funzionaliste dell’adattamento sono una chiave di dimostrazione non necessariamente sperimentale, ma certamente logica. L’altro versante della biologia, quello molecolare, affida al riduzionismo, formale e fattuale, chimico-fisico e poi informatico, la ricerca di una via assiomatica per l’intera disciplina.

Eppure, proprio nei periodi in cui la biologia è stata riduzionista ad oltranza, ciò aveva la funzione di arginare un’altra corrente ideologica che, per tutta la prima parte del secolo, si dispiegava a fianco del suo riduzionismo “cartesiano”: il vitalismo. Molti dei punti chiave oggi importanti per valutare la dimensione della storicità in biologia provengono da questa corrente di pensiero. Ma il loro significato teorico era totalmente alterato: l’”evento storico”, la “contingenza”, l’inscindibilità propria di una visione globale, erano, per il vitalismo, prove di trascendenza. Il mondo vivente non era spiegabile solo secondo le leggi fisico-chimiche perché conteneva un “quid” legato alla creazione, e l’evento storico, interpretato come emergenza del nuovo, diventava l’Evento. Ma proprio l’uso della maiuscola ne trasformava completamente il senso.

Riduzionismo e vitalismo in biologia, per vie diverse, occultano dunque per tutta la prima metà del secolo il nocciolo storico di questa scienza. Dal canto suo l’epistemologia classica, come s’è detto, ratifica la spiegazione nell’ambito delle leggi di una scientificità classica contribuendo così a confinare ai margini della conoscenza scientifica la contingenza, la casualità dell’evento, l’intervento delle diversità individuali.

Ma se è vero, come ancora ricorda Mayr, che “l’unicità è la caratteristica principale di ogni evento nella storia evolutiva”, certamente leggi generali e invarianti universali sono strumenti limitativi nel quadro di una scienza dei processi storici.

Un incrocio metodologico fecondo

I problemi metodologici più interessanti nascono dalla concatenazione di due punti chiave. Dalle metodologie interpretative di ciò che è variabile e contingente, tramite la ricostruzione attraverso tracce parziali di sequenze passate, e, in seconda battuta, dalla ricerca dei modi in cui possono e debbono articolarsi questi criteri – propri di una metodologia ricostruttiva e narrativa – con quelli più tradizionalmente sperimentali e legati alla dimostrazione.

Questi criteri, che possono essere vissuti come un’anomalia all’interno di una epistemologia tutta normativa, possono essere un ponte sulla faglia che ha separato la scienza dalla storia.

Sulle possibili contaminazioni dei due campi stanno oggi lavorando proprio filosofi e biologi. Per taluni l’interpretazione stessa della catena causale è un modello di narrazione e di spiegazione storica. Ma se si può parlare di spiegazione, anche senza l’obbligo della previsione, al nesso causale può sostituirsi il nesso genetico tra gli avvenimenti. Viene così proposto l’ibrido della “spiegazione genetica”: in questo modo la rivalutazione della narrazione, con la sua funzione organizzativa analoga a quella della teoria nelle scienze esatte, si può estendere anche alle scienze processuali: O’Hara, Fain, White, Danto, Szarsky sono solo alcuni tra i nomi degli epistemologi, storici e biologi che, soprattutto nei paesi anglosassoni, percorrono questa strada.

Come ha giocato in questa partita la storia come disciplina umanistica? Quanto ha subito questa esclusione, quanto l’ha promossa?

In tempi recenti, l’importanza data in storiografia al metodo interpretativo (ermeneutica) ribadiva, riprendendo Windelband e Weber, la separazione tra scienze naturali, alla ricerca di leggi, e scienze dello spirito, fondate sulla narrazione, l’erudizione e la comunicazione.

La dimensione prevalentemente comunicativa, partecipativa, relativamente indifferente allo statuto dei criteri della dimostrazione e a una convalida che non dipende dall’intersoggettività – propria dello storicismo e dell’ermeneutica del ‘900 – apre per la metodologia storica spazi di indagine più consapevoli del ruolo del soggetto. Ma, come conseguenza, sottolinea la distanza con le scienze naturali.

D’altro canto, l’esito dell’idealismo italiano e poi la condanna della scienza “disumanizzante”, vista come mera tecnologia e astrazione, propria della scuola di Francoforte, si accoppiano quasi in un’antitesi simmetrica con le conseguenze del neo-positivismo logico.

Ma in questo modo non c’è posto né per la riflessione sulla storicità come problema di metodo proprio delle scienze processuali né per una riflessione sul valore di spiegazione della narrazione e della ricostruzione genetica in storiografia.

La rivincita della storia

Occorrerà aspettare storici rivoluzionari come Braudel, Febvre, Le Roy Ladurie, Le Goff, Vilar che, introducendo la microstoria e la storia delle mentalità, si interrogheranno sui fondamenti del criterio di spiegazione in storiografia, sulla dimostrabilità del metodo, sul rapporto tra modelli, unità esplicative, interpretazione e ricostruzione dell’evento. Tutto ciò investe lo statuto stesso della narrazione, posta com’è, tra genere letterario, dimensione retorica di un racconto del passato e forma conoscitiva che correla indizi, documenti frammentari, oggetti testimoni, attraverso un sistema di conferme incrociate che spezzano la staticità di ogni sistema classificatorio.

Inizia così una ricerca sul metodo storiografico lontana e diversa dalle varie filosofie della storia di derivazione hegeliana. Si tratta di una metodologia che potrà poi valere anche per tutte quelle discipline nelle quali si cerca una coerenza interna di informazioni su una sequenza di avvenimenti. Questa coerenza deriva dal legame tra il reperimento di dati e documenti e l’inferenza di nessi causali – o genetici – e i loro significati.

Tutto ciò estende su un unica scala ideale una comune metodologia: dall’archeologia, all’epigrafia, a parti dell’etnolgia, dell’etnobotanica, alla paleontologia, fino alla sistematica zoologica e vegetale, alla genetica di popolazioni, a settori delle scienze della Terra. Tutte aree di ricerca che hanno come oggetto primario il cambiamento nei casi in cui viene studiato attraverso tracce documentative scarse.

Storia umana e scienze naturali ritornano in questi casi a mostrarsi come luoghi molto meno antitetici di quanto storicismo e idealismo, da un lato, e neopositivismo e riduzionismo fisicalista, dall’altro, teorizzassero. Un’antitesi che non si colma certo, come sembra suggerire ancora gran parte delle scienze sociali, attraverso una “scientizzazione” della storia o la creazione di appositi invarianti dell’azione sociale, controllabili e prevedibili, almeno probabilisticamente.

Se la possibile congruenza tra forme conoscitive della storia umana e della ricerca biologica ed ecologica non si può realizzare attraverso una loro riduzione entro il canone dell’epistemologia classica, si può arrivare invece a nuove aperture tematiche e ad incroci fecondi tra criteri diversi.

Più che sulla genericità di una epistemologia della “complessità” buona per tutti gli usi e per tutte le ideologie, è possibile pensare a una compresenza differenziata di epistemologie parziali, plurali, ma non normative.

Bibliografia

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