La chimica nel piatto

“Il buon sapore di una volta”, una frase che spesso viene pronunciata con un pizzico di malinconia. Specialmente quando i nostri palati assaggiano cibi provenienti da industrie alimentari, e non dal banco del contadino. Ma è veramente così? Per capire il ruolo delle tecnologie, sempre più innovative, che vengono utilizzate nei cicli di produzione degli alimenti, Galileo ha intervistato la Marisa Di Matteo, ordinaria di Tecnologie Alimentari presso il Dipartimento di Ingegneria Chimica e Alimentare dell’Università di Salerno. Che ci avverte: già i nostri antenati utilizzavano procedimenti per la produzione e modificazione del cibo che noi oggi chiamiamo ‘tecnologia’. E la continua innovazione e introduzione nel ciclo industriale di metodologie nuove ha portato quasi sempre benefici. I rischi più grossi si corrono quando ci si rivolge al piccolo produttore alimentare. E se i cibi contengono additivi chimici, spesso i consumatori sono corresponsabili: richiedono proprietà organolettiche che senza l’uso di prodotti chimici aggiuntivi non sarebbe possibile ottenere.

Professoressa Di Matteo, che cosa è la Tecnologia Alimentare?

“La Tecnologia Alimentare è la scienza che regola i procedimenti e i macchinari utilizzati per conservare o trasformare i cibi. Anche quelle che utilizzavano i nostri nonni per conservare e trasformare il cibo sono delle tecnologie alimentari. Il nome è lo stesso. Ma è il sistema di tecniche e di conoscenze scientifiche che è diverso. Nel nostro laboratorio ci stiamo occupando di ottimizzare e rinnovare tecnologie tradizionali. Cioè di innovare le tecnologie alimentari già in uso adeguandole agli standard qualitativi attuali”.

Per esempio?

“Le tecnologie di essiccazione, come quella al sole. Noi cerchiamo di far utilizzare magari delle serre o degli adsorbenti sempre nelle serre. In questo modo utilizziamo comunque la luce del sole ma velocizziamo il sistema. Lo stiamo facendo con i fichi essiccati e i pomodori. Prodotti che costano poco, per i quali non si possono sviluppare tecnologie costose, perché non converrebbe utilizzarle al piccolo imprenditore e al contadino. Ma che possono essere utilizzate proprio per minimizzare i costi e i tempi di trattamento, l’energia, e ottenere prodotti sicuri dal punto di vista igienico – sanitario”.

Il pomodoro secco. Un prodotto che può rappresentare, nell’immaginario dei consumatori, tutti quei cibi che difficilmente l’industria alimentare riuscirà a produrre con la qualità della nonna. Secondo lei è così?

“Quando lo si faceva in casa, si tagliava il pomodoro, lo si ricopriva di sale e lo si poggiava al sole, poi la sera lo si ritirava per non umidificarlo. Il pomodoro si essiccava in maniera dolce. Ma c’era problemi di tipo igienico, per esempio insetti e polvere. Con un’essiccazione così lenta ci vogliono almeno quattro giorni per completare il processo. E se sono presenti delle muffe troveremo delle aflatossine, che non sono desiderabili in un prodotto. Noi lo consideravamo salutare perché il sapore era buono, il colore ottimo, migliore di un sistema di tipo industriale. Ma dal punto di vista igienico- sanitario non era poi così buono e i costi della manodopera non erano elevati”.

Quindi l’industrializzazione dei processi alimentare ha portato dei benefici?

“Ha portato notevoli benefici. Anche se dipende dal tipo di tecnologia. Ci sono delle tecnologie pulite che hanno portato igiene al prodotto senza procurare danni con ingredienti estranei. Per esempio coloranti, o additivi. Queste ultimi spesso sono utilizzati perché il consumatore richiede delle proprietà organolettiche che senza trattamento chimico non è possibile ottenere. Lo stesso consumatore che poi richiede poca chimica. Di fatto c’è un corto circuito tra le richieste di chi acquista e i mezzi che le industrie adottano per ottenerle. In genere si cerca di trovare una via di mezzo. Uno degli obiettivi della moderna tecnologia innovativa è quello di minimizzare l’apporto di prodotti chimici e di migliorare le qualità igienico – sensoriali agendo sui parametri tempo- temperatura. Oppure l’utilizzo di sostanze naturali, per esempio la vitamina E come antiossidante”.

Allora i processi alimentari utilizzati nell’industria sono puliti?

“Non sempre. Perché le industrie alimentari devono, gioco forza, attenersi a delle regole. Se ci sono dei limiti legali l’industria molto in vista è logico che vi si attenga. Un’eventuale scoperta di una frode la danneggerebbe in maniera irreparabile. Io ho più paura dei piccoli produttori, di quelli che dicono che hanno prodotti perfetti perché hanno come rifornitori i contadini. In quel caso avrei molti problemi ad accettare l’alimento. Perché il piccolo produttore potrebbe usare sostanze che neanche conosce bene, per vendere il prodotto a un costo maggiore. E’ inutile cercare un prodotto tipico di qualità a basso costo, è un controsenso. Con la certificazione del prodotto tutto questo dovrebbe essere evitato”.

L’industria alimentare sfrutta a pieno le potenzialità di produzione delle sue materie prime?

“No. Si non è ancora in atto una filosofia del riciclo. Per esempio, consideriamo un litro di latte, attualmente sono in pochi quello che lo sfruttano appieno. Solamente le industrie che producono latte per l’alimentazione diretta. Se consideriamo i produttori di formaggi, i loro cicli di produzione hanno degli scarti, il siero del latte, che pochi riciclano. E questo scarso riciclo causa un carico inquinante. In generale l’industria alimentare ricicla poco. Molti reflui vengono riutilizzati solo per l’alimentazione animale mentre potrebbero essere usati per uso umano. Oppure sostanze da impiegare in altri campi. Chiaramente, l’adozione di tecnologie che permettono ciò dipende sempre se dal punto di vista economico. Se il bilancio costi – benefici, conviene alle industrie allora non c’è problema”.

Per concludere, lei si fida della grossa industria alimentare?

“L’industria non va demonizzata ma bisogna considerare caso per caso. Sicuramente i prodotti industriali rispettano le norme igieniche e la normativa di legge del settore, ma spesso peccano nella cura delle caratteristiche sensoriali. In altre parole, per andare incontro al mercato si realizzano prodotti molto piatti. Se parliamo poi di un piccolo produttore che per poter rendere competitivi i sui prodotti non utilizza materie prime di qualità, ma materie scadenti perché più economiche, una tecnologia non ottimale e additivi al limite di legge – se non del tutto illegali – per migliorare l’aspetto e la presentazione del prodotto, allora i pericoli per il consumatore ci sono. Credo che la formula migliore sia prendere le cose della nonna e ottimizzarle. E acquistare sempre prodotti certificati che ci possono dare senz’altro sicurezza. Oggi il mercato, e quindi le industrie, richiedono prodotti di qualità. Quindi, si può puntare molto su prodotti tipici che sono certificati. Prodotti che bene o male hanno un ciclo di produzione standardizzato e sono sottoposti ad analisi per avere la certificazione, perché devono rispondere a determinati criteri sia igienici che sensoriali. Ma le tecnologie che la permettono devono essere economiche. Altrimenti c’è’ molta difficoltà nell’adottarle”.

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