La cura che verrà

“Non è olio di serpente”, si è sentita in dovere di precisare Science in apertura del suo dossier sulle cellule staminali. In effetti, l’elenco delle malattie oggi incurabili che potrebbero divenire guaribili grazie a queste cellule fa pensare alla reclame di una pozione miracolosa. Eppure, anche se la via per arrivarci sarà senz’altro lunga e tormentata, la promessa è quanto mai fondata. Grazie alle cellule staminali, si può oggi sperare di affrontare quella schiera di malanni che sono divenuti le cause prime di malattia e di morte nei paesi ricchi: le malattie degenerative e, in generale, quelle che causano lesioni non guaribili dei tessuti.Per guarire da mali come la malattia di Parkinson, o quella di Alzheimer, o l’infarto, una volta che il danno è fatto la medicina può ben poco. Passi avanti sono stati compiuti nella prevenzione, o nella cura dei sintomi, ma la riparazione delle lesioni resta quasi sempre irrealizzabile. La difficoltà nasce dalla natura stessa del corpo umano, che ha capacità di autoriparazione molto ristrette: un’escoriazione della pelle cicatrizza con facilità, un osso fratturato si risalda; se però un infarto distrugge una parte del muscolo cardiaco, il tessuto perso viene rimpiazzato da tessuto fibroso, incapace di contrarsi, e il cuore perde forza. Ci sono animali in cui non è così. La coda della lucertola, una volta persa, ricresce; i lombrichi, tagliati a metà, possono rigenerare due individui distinti. La cosa è possibile perché questi animali dispongono di una riserva di cellule molto duttili, capaci di moltiplicarsi e dare origine ai tessuti più svariati, ricostruendo le strutture perse: si tratta, per l’appunto, delle cellule staminali.Le cellule dei tessuti di un organismo adulto sono differenziate, cioè si sono specializzate per svolgere compiti specifici. Quelle nervose, per esempio, sviluppano i prolungamenti che consentono di condurre gli impulsi nervosi, e producono le proteine e le altre sostanze necessarie a tale funzione. Le cellule staminali, viceversa, non mostrano le caratteristiche tipiche di alcun tessuto differenziato ma sono contraddistinte da due capacità: moltiplicarsi a volontà, dando vita a copie innumerevoli di se stesse; e differenziarsi in cellule di più tipi diversi. Quando una popolazione di staminali si divide, alcune cellule figlie sono ancora staminali, identiche alle madri, che mantengono intatta la riserva; altre figlie iniziano invece un ciclo di trasformazioni che le porterà a divenire cellule differenziate di un determinato tessuto. Anche le staminali, in realtà, sono molto diverse tra loro; differiscono nella capacità di proliferare, di produrre un tessuto oppure un altro, di rispondere a determinati segnali che ne guidano lo sviluppo. Non si tratta però di differenze che balzano all’occhio: viste al microscopio, queste cellule sono simili l’una all’altra. Le diversità sono più sottili e consistono nel corredo di proteine che ciascuna staminale produce in un dato momento della sua vita; le proteine necessarie, appunto, per recepire determinati segnali e cambiare il proprio comportamento di conseguenza. La presenza di determinate proteine e l’assenza di altre contraddistingue ciascun tipo di staminale, proprio come la presenza dei prolungamenti contraddistingue le cellule nervose. Quando i ricercatori conoscono le proteine tipiche delle staminali di loro interesse, possono metterle in luce e identificare così le cellule.

Una volta differenziate, in genere le cellule perdono quasi del tutto la capacità di proliferare. Nei tessuti soggetti a un ricambio rapido, come l’epidermide o il sangue, per rimpiazzare le perdite resta anche nell’adulto una riserva di staminali, rispettivamente alla base della pelle e nel midollo osseo. Queste cellule, però, sono in grado di rigenerare solo il tessuto cui appartengono, o comunque una gamma ristretta di tessuti. E’ chiaro comunque che, per conquistare una capacità rigenerativa simile alla coda delle lucertole, l’uomo non può contare sulle sue scarne doti naturali; occorre imparare a prelevare cellule staminali adatte a generare i tessuti da riparare, oppure “ringiovanire” le cellule già differenziate, restituendo loro la capacità di proliferare. Le cellule staminali dovrebbero poi essere indotte a svilupparsi nel senso voluto, fino a ottenere tessuti o addirittura interi organi da introdurre nel corpo per riparare la lesione.Questa possibilità è apparsa per la prima volta realizzabile quando, sul finire del 1998, due gruppi di scienziati hanno annunciato di avere isolato e fatto crescere in laboratorio cellule staminali pluripotenti, prelevate da embrioni e feti umani. Queste cellule – che si indicano come cellule staminali embrionali – sono state la prima fonte a cui si è potuto pensare di attingere. Restano però due grossi ostacoli da superare. Il primo è di natura tecnica: il fatto che queste cellule siano potenzialmente in grado di formare qualsiasi tessuto non vuol dire che, nel concreto, si sia capaci di farle differenziare a piacimento per ricavarne i tessuti desiderati. Il secondo è un ostacolo etico: per prelevare le staminali bisogna inevitabilmente distruggere l’embrione, il che, per chi lo ritiene già un individuo umano a pieno titolo, è inaccettabile.

Le cellule staminali embrionali

Nel novembre del 1998, dopo almeno sei anni di tentativi, l’équipe di James Thomson, dell’Università del Wisconsin, ha reso noto di aver isolato e fatto crescere in laboratorio le staminali pluripotenti prelevate da embrioni umani. Ben prima che nella specie umana, le staminali erano state ricavate, nel 1981, da embrioni di topo; l’esperienza accumulata in questi animaletti è stata preziosa per accertare in quale stadio dello sviluppo embrionale dei mammiferi sono presenti le staminali pluripotenti e come si possa convincerle a crescere in coltura senza che si differenzino.Per guidare lo sviluppo delle staminali in laboratorio, si impiegano le stesse sostanze che ne dirigono il destino all’interno dell’organismo. Durante lo sviluppo dell’embrione, ogni cellula viene spinta a differenziarsi verso un determinato destino piuttosto che un altro da una fitta serie di segnali che scambia ininterrottamente con le altre; i segnali sono molecole di varia natura e sono detti, nell’insieme, fattori di crescita. I fattori di crescita segnalano alle cellule che li ricevono quali geni esprimere o spegnere e dunque quali proteine produrre; al variare dei fattori che riceve, la cellula produce un insieme di proteine differente e man mano cambia forma, prende a funzionare in modo diverso; procede, cioè, lungo un determinato percorso di differenziamento. Molti fattori di crescita sono stati individuati e possono essere estratti dai tessuti o prodotti in laboratorio.Dopo innumerevoli tentativi, Thomson è infine riuscito a mettere a punto il cocktail giusto: nel brodo da lui utilizzato, le staminali di blastocisti umane ricevono un segnale che indica loro non di differenziarsi ma di restare pluripotenti. Va precisato che le sostanze che danno questo segnale restano in gran parte ignote; le staminali, infatti, devono essere coltivate in compagnia di un altro tipo di cellule (i fibroblasti di topo), che evidentemente producono fattori di crescita sconosciuti, ma indispensabili per evitare il differenziamento.A pochi giorni da Thomson, il gruppo statunitense guidato da John Geahart, della Johns Hopkins University di Baltimora, ha fatto un annuncio analogo. La fonte era diversa: gli abbozzi delle gonadi di feti di uno o due mesi; nei genitali dell’embrione infatti, come ha scoperto Geahart, alcune cellule restano pluripotenti molto più a lungo che nel resto del corpo. Sia le staminali di Thomson che quelle di Geahart hanno dimostrato proprietà molto simili e sono, dunque, linee di cellule staminali pluripotenti umane. Con due anni di ritardo si è affacciato sulla scena un terzo concorrente: il gruppo di Martin Pera e Alan Trounson, della Monash University di Melbourne in Australia, che è riuscito anch’esso a isolare e coltivare le staminali embrionali umane inserendosi nella corsa. La sfida è divenuta a questo punto di imparare a controllare il comportamento di queste cellule in laboratorio.

Anche sotto questo profilo le ricerche sul topo sono state punti di partenza preziosi. Dalle staminali embrionali del topo sono state ricavate di volta in volta cellule nervose, muscolari, endoteliali (che rivestono l’interno dei vasi sanguigni) e del sangue. La chiave è sempre la stessa: il controllo delle condizioni in cui crescono le cellule. Giocando con il brodo di coltura, aggiungendovi questo o quel fattore di crescita e ponendo le staminali a contatto con un tipo di cellule o con un altro, si può orientarne il differenziamento. Le ricette si scoprono spesso per tentativi ed errori. A volte si parte da fattori di crescita noti e si cercano le dosi e le combinazioni giuste; in altre occasioni si sfrutta un brodo in cui crescono bene le cellule di un certo tipo. In un esperimento, per esempio, le staminali, messe nel brodo che si usa di norma per le cellule degli alveoli polmonari, si sono differenziate in tessuto polmonare.Riguardo alle cellule umane, gli studi sono proceduti in fretta. L’équipe australiana di Pera, partendo dall’osservazione fortuita che alcune staminali in coltura tendono spontaneamente a trasformarsi in cellule nervose o muscolari, ha per prima ottenuto in laboratorio neuroni umani. La Geron Corporation, un’azienda biofarmaceutica statunitense, dal canto suo, ha annunciato di aver prodotto i tre tipi principali di cellule nervose, nonché cellule del fegato e del muscolo cardiaco. Un’équipe israeliana dell’Università di Haifa, che aveva collaborato con Thomson, è riuscita a indirizzarne lo sviluppo in svariate direzioni grazie a varie combinazioni di fattori di crescita.

Per il momento comunque il controllo sulle staminali embrionali, e specialmente su quelle umane, resta piuttosto scarso. Anche solo coltivarle è un’impresa: vari studiosi che le hanno ricevute da Thomson hanno faticato non poco per riuscire a farle crescere senza che perdessero le loro preziose caratteristiche. Non è ancora accertato, inoltre, se le cellule ottenute in vitro rispecchino davvero sotto ogni aspetto i tessuti a cui sembrano assomigliare. In definitiva le staminali embrionali sono potenti ma capricciose e restano difficili da domare. Più docile, forse al prezzo di una minor vivacità, è l’altro grande gruppo di cellule a cui si spera di ricorrere per la terapia riparativa: le staminali dei tessuti adulti, dette cellule staminali adulte.

Le cellule staminali adulte

La visione tradizionale vuole che nell’adulto permangano solo pochi tipi di cellule staminali, limitate in sostanza ai tessuti soggetti a un forte ricambio. La stessa visione vuole inoltre che le staminali adulte, sebbene indifferenziate, abbiano ormai il destino segnato e non siano in grado di formare tessuti diversi da quello a cui appartengono; sono cioè multipotenti ma non pluripotenti. Entrambe le convinzioni sono state fortemente ridimensionate negli ultimi anni.Cellule staminali sono spuntate dai tessuti adulti più svariati, a partire da quello privo per eccellenza di capacità autoriparativa: il sistema nervoso centrale. Quando sono stati identificati i fattori che fanno crescere il tessuto nervoso, si è infatti constatato che dal tessuto cerebrale di topi adulti, messo in coltura con la giusta combinazione di fattori, si formano tutti i tipi principali di cellule nervose. Nel sistema nervoso centrale dei mammiferi adulti si trova quindi una riserva di cellule multipotenti, le staminali neurali, che in seguito, nel 1999, sono state individuate con precisione dal gruppo di Jonas Frisén, del Karolinska Institutet di Stoccolma. Quale sia la loro funzione nessuno sa dirlo con certezza; evidentemente non hanno un grosso ruolo riparativo, visto che sono incapaci di entrare in azione per riparare le lesioni, e una delle ipotesi avanzate è che prendano parte ai processi della memoria e dell’apprendimento.Ancor più inattesa è stata la seconda sorpresa: la “trasformazione del cervello in sangue”. All’inizio del 1999 un’équipe guidata da Angelo Vescovi, dell’Istituto neurologico Carlo Besta di Milano, ha reso noto che le staminali neurali sono in grado di differenziarsi in cellule mature del sangue. La dimostrazione è avvenuta nei topi. Gli animaletti sono stati irradiati, per distruggere le staminali emopoietiche del midollo osseo. Di norma, in questi casi, per ricostituire le cellule emopoietiche si trapianta un midollo sano. In questo esperimento, invece, i ricercatori hanno iniettato nel sangue dei topi un certo numero di staminali neurali, modificate geneticamente in modo da colorarsi di blu quando entrano a contatto con un reagente chimico ed essere quindi facilmente riconoscibili. Dopo qualche settimana, nel midollo dei topi sono state trovate staminali emopoietiche che si coloravano di blu: a dispetto di quanto si era sempre ritenuto, le staminali neurali sono state in grado di insediarsi nel midollo e di riconvertirsi, mettendosi a produrre cellule del sangue. Le staminali adulte, dunque, hanno il destino segnato solo fintanto che restano nel proprio tessuto e continuano a ricevere i segnali di differenziamento tipici del tessuto stesso. Ma la capacità di formare tessuti diversi non va del tutto persa e in un ambiente nuovo le cellule sono ancora sensibili a segnali diversi.

Altri studiosi hanno mostrato capacità di trasformazione analoghe per altri tipi di staminali. Per vedere fino a che punto si spingesse tanta versatilità, lo svedese Frisén ha provato a iniettare le staminali neurali (modificate per colorarsi in blu) all’interno di embrioni molto precoci di topo, allo stadio di blastocisti. I topolini nati da questa manipolazione erano sani e identici a topolini normali e i loro tessuti apparivano del tutto normali al microscopio. Quando però venivano trattati con il reagente che colora di blu le staminali neurali, in alcuni casi si vedevano comparire strisce azzurre, non solo nel tessuto nervoso ma anche nell’intestino, nel fegato, nel cuore, nel rene e in altri tessuti. Le staminali introdotte si erano quindi integrate perfettamente in tutti questi tessuti, tanto che non si potevano distinguere dalle cellule originali del topolino se non dopo la colorazione. La gamma di vie di differenziamento possibili, dunque, è davvero ampia.Nell’uomo, per ovvi motivi, non si possono fare esperimenti simili. Qualche informazione è stata raccolta con studi in coltura: Vescovi, per esempio, ha osservato che le staminali neurali umane, crescendo a contatto con i precursori delle cellule muscolari, si trasformano a loro volta in cellule muscolari ben differenziate. C’è poi un’altra fonte di informazioni. Una sorta di esperimento, analogo a quelli sui topolini, si realizza quando si sottopone un malato di leucemia a un trapianto di midollo osseo: il midollo del malato, che contiene le cellule leucemiche, viene distrutto e sostituito da quello sano del donatore. Il midollo trapiantato contiene le staminali emopoietiche e quindi produce nel ricevente i globuli rossi, i globuli bianchi e le piastrine. Ma non solo. In alcune donne che hanno ricevuto il midollo di un uomo, si sono trovate cellule del fegato contenenti il cromosoma Y; poiché questo cromosoma è esclusivo delle cellule maschili, le cellule del fegato non possono che essere derivate da staminali del midollo trapiantato, le quali, trascinate dal sangue, hanno raggiunto il fegato e si sono differenziate di conseguenza. Anche le staminali umane, dunque, mostrano una plasticità considerevole.

Le applicazioni

Nelle forme meno fantascientifiche le cellule staminali trovano già da tempo impieghi medici. Il trapianto di midollo osseo nei malati di leucemia è di fatto un trapianto di staminali emopoietiche, destinate a formare le cellule del sangue nel ricevente. Da qualche anno si è scoperto che le staminali non restano solo nel midollo ma, in piccola quantità, entrano in circolazione nel sangue; si è quindi messo a punto un metodo per raccoglierle dal sangue del donatore (al quale si risparmia il disagio del prelievo di midollo) o anche, nei neonati, dal cordone ombelicale e dalla placenta. Il sangue di questi organi è ricco di staminali piuttosto immature, che possono essere congelate e conservate in apposite banche per l’eventuale uso futuro da parte della stessa persona (che avrà subito a disposizione cellule perfettamente compatibili anziché dover attendere un donatore adatto) o di altri malati compatibili (nei quali le staminali immature hanno molte meno probabilità di provocare un rigetto rispetto a quelle prese da un adulto). L’inconveniente principale è che raccoglierle e conservarle costa molto e la probabilità di averne davvero bisogno è solo di una su alcune decine di migliaia.Anche l’autotrapianto di pelle (la copertura di ustioni o di altre lesioni con lembi di pelle del paziente stesso, prelevati da una zona integra) è in fin dei conti un trapianto di staminali: quelle presenti alla base dell’epidermide, che con il tempo rigenerano la pelle nuova.Per gran parte dei tessuti la sfida è più impegnativa. I ricercatori dell’Istituto Dermopatico dell’Immacolata di Roma hanno identificato una riserva di staminali nella cornea (la parte anteriore, trasparente, dell’occhio) e le hanno utilizzate per ricostruire lembi di cornea, con i quali hanno curato lesioni che non guariscono bene con il trapianto consueto.

In forte crescendo è la ricerca di “rattoppi” per i cuori infartuati. Il cuore, a quanto si sa, non possiede una riserva di staminali proprie, per cui gli studiosi si sono dovuti sbizzarrire nella ricerca di altre popolazioni che potessero integrarsi nel muscolo cardiaco. Nei ratti si sono tentate diverse vie. C’è chi è ricorso alle cellule mesenchimali, un altro gruppo di staminali trovato nel midollo osseo insieme alle emopoietiche, che sono in grado di formare cellule muscolari; iniettate nei cuori vicino alle aree infartuate, le cellule mesenchimali hanno riformato tessuto cardiaco vivo. Altri hanno fatto ricorso invece a cellule capaci di formare nuovi vasi sanguigni; il principio, in questo caso, è di migliorare l’irrorazione del tessuto sano superstite, che così può ingrossarsi e compensare la perdita di forza dovuta all’infarto. Più d’un tentativo ha dato risultati promettenti, spingendo a osare le prime sperimentazioni sull’uomo.Philippe Menasché, dell’Hôpital Bichat Claude Bernard di Parigi, ha approfittato di un’operazione chirurgica su un infartuato per impiantargli le staminali prese dai suoi stessi muscoli scheletrici; a distanza di mesi la zona infartuata ha riacquistato una certa capacità contrattile e contiene cellule vive. Con varianti sul tema, tentativi simili sono stati ripetuti in altri centri e i risultati fanno ben sperare, anche se gli studiosi sottolineano che per parlare di una tecnica efficace occorrerà attendere tempi ben più lunghi e ripetere la sperimentazione su numerosi malati.La prudenza, in effetti, non è mai troppa. Lo mostra bene la storia travagliata del trapianto di neuroni nelle persone con il morbo di Parkinson, primo importante tentativo di terapia riparativa del sistema nervoso centrale. Il cervello e il midollo spinale sono particolarmente colpiti dalle malattie degenerative, che includono, per citare solo le più comuni, la malattia di Alzheimer, la sclerosi multipla e la sclerosi laterale amiotrofica. I risultati delle intense ricerche sono apparsi molto incoraggianti non solo negli animali ma anche in qualche tentativo sui malati e talvolta si sono prospettate come imminenti terapie efficaci e affidabili. Ma la realtà è più complessa.

Il morbo di Parkinson distrugge una popolazione di neuroni che produce la dopamina, una sostanza usata dai neuroni per trasmettere i segnali. Una terapia in uso da oltre dieci anni prevede il trapianto nei malati di neuroni immaturi, prelevati da feti abortiti. Queste cellule sono già piuttosto avanti nel differenziamento, ma sono comunque più plastiche dei neuroni adulti e riescono a installarsi nella sede della lesione e sostituire in qualche misura il tessuto distrutto. I risultati, valutati dal confronto dei sintomi prima e dopo l’intervento, sono sempre apparsi buoni: una parte dei malati, seppur limitata, migliora, anche se nessuno guarisce. Per confermare la validità della terapia bisognava però confrontare un gruppo di malati sottoposti al trapianto e un gruppo simile non trattato. I risultati della prima verifica, pubblicati nella primavera del 2001 da Curt Freed dell’Università del Colorado, hanno raffreddato gli entusiasmi: tra i 20 trapiantati, solo qualcuno ha ottenuto un lieve miglioramento dei tremori rispetto ai non trattati, ma in compenso cinque hanno cominciato a soffrire di forti contorcimenti involontari degli arti, non controllabili con alcuna terapia. Il dibattito si è scatenato furente tra chi vede nella sperimentazione un fallimento totale e chi sottolinea che – per la prima volta – si è dimostrato con certezza qualche effetto positivo e la terapia, sebbene da perfezionare, è potenzialmente valida.Comunque, quand’anche la terapia funzionasse, resterebbe il limite insormontabile della quantità di neuroni disponibili, perché quelli ricavabili dai feti non sono neanche lontanamente sufficienti per tutti i malati. Una soluzione sarebbe quella di ricavare i neuroni che producono la dopamina da cellule staminali, come è già riuscito nei topi a partire da staminali embrionali.

La terapia cellulare è in via di sperimentazione anche per altre malattie del sistema nervoso, che pongono difficoltà ancora nuove. Quello del Parkinson è infatti un caso relativamente semplice: in un’area limitata del cervello degenera un gruppo di neuroni tutti uguali, che non hanno bisogno di essere connessi l’uno all’altro secondo uno schema rigido per poter funzionare. Ben più ostiche sono le malattie che colpiscono vaste aree del cervello, o che danneggiano circuiti costituiti da più tipi di neuroni diversi, che devono essere allacciati l’uno all’altro secondo una sequenza molto precisa per funzionare a dovere. Nessuno, oggi, ha idea di come controllare quali connessioni stabiliranno i neuroni una volta introdotti in un animale, quindi qualsiasi applicazione terapeutica in questi casi appare ancor più lontana.Meta ambita da molti studi è la cura del diabete. Il diabete dipende dall’incapacità di produrre l’insulina, e per curarlo si sta sperimentando, con un certo successo, il trapianto di quei grappoli di cellule che nel pancreas producono l’ormone: le isole pancreatiche. Si ripropone però ancora una volta il problema della scarsità di cellule: se il trapianto si dimostrerà efficace, le isole ricavate dai pancreas dei cadaveri non basteranno mai a curare tutti i diabetici. La speranza, ancora una volta, viene dalle staminali. Susan Bonner-Weir, del Joslin Diabetes Center di Boston, partendo da cellule staminali ritrovate nei condotti del pancreas, ha fatto crescere in laboratorio isole pancreatiche umane, che in vitro funzionano bene; tuttavia, come spesso accade con le staminali adulte, il numero di isole che si riesce a ottenere è scarso. Nel topo, la scorsa primavera, Ronald McKay, dei National Institutes of Health di Bethesda, ha prodotto le isole pancreatiche da staminali embrionali; se la cosa riuscisse anche con le cellule umane – un passaggio che non si è mai dimostrato facile – ogni problema di quantità sarebbe risolto.

Embrionali o adulte?

Riepilogando: dall’embrione precoce allo stadio di blastocisti o dalle gonadi dei feti si possono prelevare cellule pluripotenti, indicate in genere come staminali embrionali; dai feti (gonadi a parte), dal sangue del cordone ombelicale e da vari tessuti adulti si ricavano invece cellule con potenzialità più limitate, multipotenti, indicate come staminali adulte. Quali sono le più promettenti?Le cellule adulte sono senz’altro più eclettiche di quanto si ritenesse un tempo, ma è improbabile che abbiano capacità equivalenti a quelle embrionali. Non mostrano, per esempio, la stessa inestinguibile spinta proliferativa. E’ già stato accertato che una singola cellula embrionale umana può moltiplicarsi quanto basta per produrre tutto il tessuto necessario a curare una persona; le staminali adulte, al contrario, dopo un certo numero di divisioni perdono la capacità di proliferare e di differenziarsi. Il risvolto negativo di tanta esuberanza è la difficoltà di controllare il differenziamento per ottenere il tessuto desiderato; può anche accadere – ed è accaduto negli esperimenti su animali – che qualche cellula embrionale non si differenzi bene, resti pluripotente, conservi un’eccessiva capacità di proliferare e dia vita a bizzarri tumori formati da un miscuglio di tessuti di vario genere, detti teratomi.Le staminali adulte sono già incanalate lungo un preciso destino e devono compiere trasformazioni molto più limitate per divenire mature. Questo è al contempo il loro grosso pregio e il loro limite. E’ un pregio perché è molto più facile spingerle a formare il tessuto desiderato, tanto che il loro impiego terapeutico in alcuni casi è già routine (per esempio per le leucemie) o procede a grandi passi nella sperimentazione (per l’infarto); le cellule emopoietiche o quelle mesenchimali, introdotte nel sangue o nel cuore, maturano con relativa facilità nel senso desiderato. E’ un limite perché per riparare un tessuto bisogna avere a disposizione staminali già predisposte a formare quel tessuto, e bisogna averne a sufficienza, visto che non si moltiplicano più di tanto. In alcuni tessuti le staminali non sono state trovate, o comunque non si riesce a coltivarle; in altri, come il cervello, per prelevarle bisogna penetrare in profondità, con il rischio di causare seri danni; in molti casi il loro numero è scarso e cala con l’età, quando è più facile averne bisogno. Se si imparerà a controllare la capacità delle cellule adulte di cambiare destino, basterà prelevarle dalle fonti più agevoli, quali il grasso o la pelle, e convertirle nel tessuto voluto.

Le staminali adulte offrono infine un grosso vantaggio: in linea di principio, possono essere prese dal malato stesso in cui, dopo essere state moltiplicate e differenziate a dovere, saranno immesse; si eviterebbe così ogni problema di rigetto. Le cellule provenienti da un’altra persona, o da un embrione, possono invece essere aggredite dal sistema immunitario, come qualsiasi tessuto estraneo. Secondo alcuni scienziati il pericolo del rigetto è in realtà remoto, poiché le cellule embrionali sono poco riconoscibili dal sistema immunitario, e poiché cellule isolate sono meno riconoscibili di organi interi. Al riguardo non ci sono dati certi e le opinioni degli esperti differiscono. Per evitare il pericolo, comunque, si pensa a varie strade: creare staminali modificate geneticamente, in modo da eliminare dalla loro superficie le principali proteine che il sistema immunitario riconosce come estranee; oppure studiare trattamenti che rendano il malato tollerante allo specifico tessuto che riceve.L’ideale, però, sarebbe l’uso di cellule geneticamente identiche a quelle dell’ospite. Per alcune applicazioni potrebbero rivelarsi adatte, come si è detto, le staminali del malato stesso. Per altri impieghi, probabilmente, no. Bisognerebbe allora produrre cellule staminali pluripotenti, come quelle embrionali, ma geneticamente identiche a quelle del malato, come quelle adulte. La cosa è ipoteticamente possibile con una tecnica analoga a quella usata per la clonazione della pecora Dolly: quella del trasferimento di nucleo.Il trasferimento di nucleo

Per clonare Dolly, gli scienziati scozzesi del Roslin Institute e della PPL Therapeutics hanno preso il nucleo di una cellula adulta, differenziata, e lo hanno iniettato in una cellula uovo (ovocita), che ha poi iniziato a svilupparsi alla stregua di un uovo fecondato. Questo ha dimostrato che il differenziamento non è un processo irreversibile: se il nucleo viene strappato alla cellula d’origine e introdotto in un’ovocita, il cui citoplasma contiene i segnali per avviare lo sviluppo dell’embrione, il nucleo viene riprogrammato e ricomincia a esprimere tutte le proteine necessarie allo sviluppo embrionale.Da qui nasce l’ipotesi della produzione di staminali per trasferimento di nucleo: prendere il nucleo di una cellula del malato, trasferirlo in un ovocita, lasciare sviluppare l’embrione per pochi giorni (fino allo stadio di blastocisti) e prelevarne le cellule staminali pluripotenti, che avranno così lo stesso genoma del malato. La cosa è già stata realizzata con successo nel topo. Per le sue analogie con la clonazione riproduttiva – quella che ha generato Dolly – la procedura viene indicata anche con la ben nota espressione di “clonazione terapeutica”.In linea di principio, comunque, lo stesso risultato si potrebbe ottenere in un altro modo: individuando i fattori del citoplasma dell’ovocita che riprogrammano il nucleo e applicandoli direttamente alla cellula adulta differenziata per “ringiovanirla”, facendola tornare pluripotente o addirittura totipotente. Partendo da una cellula qualsiasi del malato, si otterrebbero così staminali con le stesse capacità di quelle embrionali, senza passare per uno stadio embrionale.

Il nodo ultimo, in definitiva, è quello di imparare a controllare i “viaggi avanti e indietro nel tempo” delle cellule, i processi di differenziamento e di ringiovanimento. Che cosa determina la progressione delle staminali embrionali verso destini diversi? In che modo le cellule multipotenti decidono quale tipo di tessuto formare? E cosa invece, nell’ovocita, fa ringiovanire i nuclei adulti? Qualche risposta inizia ad arrivare, e si ha qualche notizia di tentativi più o meno riusciti di far ringiovanire le cellule in coltura. Un successo è stato reso noto da Turu Kondo e Martin Raff, dell’University College di Londra: i precursori degli oligodendrociti (capaci di formare solo queste cellule) sono tornati staminali neurali multipotenti (in grado di formare tutti i tipi di cellule nervose); un passo all’indietro, quindi, nella scala del differenziamento. Altre notizie, più eclatanti, hanno parlato addirittura del ringiovanimento di cellule del tutto differenziate, ma per il momento si è sempre trattato di voci vaghe e non confermate dalla pubblicazione dei risultati. Allo stato attuale è dunque impossibile giudicare quanto la strada verso una macchina del tempo maneggevole sia ancora lunga e accidentata.

2 Commenti

  1. sino a che ci sono i finanziamenti continui,la ricerca va avanti,ma,quando non ci sono?soffriremo tutti.E’ una brutta usanza,italiana.

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