La mala aria

plasmodio malaria
(Credit: CDC/Dr. Mae Melvin Transwiki)

Ha determinato la sorte di storiche battaglie. Ne hanno parlato, tra gli altri, Omero e Goethe. Ma anche, dalle parti nostre e in tempi più recenti, Giovanni Verga, Carlo Levi e Leonardo Sciascia. E’ la malaria, che per secoli ha flagellato il nostro paese, soprattutto il sud. Ce la racconta, in un agile aggraziato volumetto (La mala aria), Alessandra Lavagnino, una biologa che ha partecipato in prima persona alla campagna antimalarica cui dobbiamo la sconfitta delle infezioni in Italia. A lei va il merito di aver combinato il più ineccepibile rigore storico e scientifico con la leggiadria di una penna accattivante, che ci accompagna lungo un percorso piacevole ma anche ricco di dati, notizie, fatti poco noti e digressioni gentilmente ammiccanti, di quelle che fanno pensare. Scopriamo così che una malattia può essere analizzata, in tutte le sue sfaccettature, anche in una forma poetica, che tuttavia nulla concede alla fantasia romanzesca.

Ma che cos’è la malaria, o, come più suggestivamente la chiama l’autrice, la mala aria? Iniziamo subito con il dire che per correttezza si dovrebbe parlare di malarie, o di male arie, al plurale, perché in realtà di infezioni malariche ne esistono tante. Alcune attaccano solo gli animali (zoofile), altre, invece, colpiscono l’essere umano (antropofile). Le infezioni antropofile sono di quattro tipi diversi, ognuna portata da un agente specifico, ossia da un tipo particolare di plasmodi, i minuscoli organismi unicellulari che si annidano nello stomaco delle zanzare del genere Anopheles e che scatenano l’infezione. Il più cattivo è il plasmodium falciparum, che provoca la malaria perniciosa. Detta anche maligna o tropicale, la malaria portata dal falciparum uccide ogni anno circa due milioni di bambini africani, la maggior parte dei quali non ha ancora compiuto i cinque anni: si tratta della prima causa di mortalità infantile. Praticamente a causa del terribile falciparum ogni diciotto secondi muore un bambino, e questo per limitarsi all’Africa, che è di gran lunga il continente più colpito. Ma vediamo in che modo si propaga questa terribile epidemia.

Tutto ha inizio dalla puntura di un anofele. La zanzara succhia il sangue di una persona infetta e mentre lo digerisce i plasmodi che vi sono contenuti si accoppiano e formano un oocinete, ovvero una cellula figlio in grado di muoversi. L’oocinete si affaccia all’esterno dello stomaco della zanzara dove inizia a riprodursi in forma asessuata. Si formano così tanti minuscoli pallini corrispondenti ognuno a una cellula e detti oocisti. Ma non è finita qui. Gli oocisti si gonfiano fino a scoppiare e formano altre occisti che s’infilano nelle ghiandole salivari della zanzara. A questo punto il gioco è fatto: quando l’anofele andrà a pungere un altro animale o un altro essere umano insieme alla sua saliva rilascerà nel capillare sanguigno anche le migliaia di cellule venute dalle oocisti. Queste assomigliano a dei sottilissimi aghetti, ciascuno con il proprio nucleo. Una volta approdate al nuovo organismo, vengono portate dalla corrente sanguigna prima ai polmoni e poi al fegato. Per questi microaghetti, chiamati sporoziti, le cellule epatiche sono una vera manna. Qui lo sporozita inizia a crescere e a dividersi, invadendo l’intera cellula e costituendo una nuova formazione, lo schizonte epatico, che contiene fino a quarantamila nuove cellule. Queste ultime sono talmente aggressive ed affamate che fanno scoppiare lo schizonte e si riversano nel circolo sanguigno. E’ allora che invadono i globuli rossi provocando anemia. Ed è allora che l’organismo ospite inizia ad avvertire i primi sintomi: brividi di freddo seguiti da febbre ardente e delirio, il tutto accompagnato da un forte senso di spossatezza.

I sintomi sono intermittenti nella malaria portata dal Plasmodium vivax, quella tipica dei climi temperati: durante l’inverno la temperatura dell’organismo infetto si abbassa fino a tornare alla normalità, per poi riprendere a salire nella primavera successiva. Il motivo di questa strana sintomatologia è che i plasmodi se ne vanno in letargo. Dopo la fatica della prima grande riproduzione asessuata avvenuta nelle cellule del fegato, il vivax si mette beatamente a dormire, tanto che in questa fase viene chiamato ipnozoita, vale a dire “animaletto addormentato”. E’ così, immersi in un dolce sonno, che i plasmodi attendono la primavera per poter riprendere la loro febbrile – è il caso di dirlo – attività. Ai primi tepori, infatti, riprendono le loro vecchie abitudini e iniziano a riprodursi riversandosi nel sangue. Con perfetta sincronia, nello stesso periodo nascono anche le nuove zanzare, così che la primavera è sia il periodo in cui tornano a manifestarsi i sintomi, sia il periodo in cui si verificano nuovi contagi. La cosiddetta “terzana primaverile” per secoli è stata curata con il chinino, che prima della classificazione di Linneo era noto come “corteccia della febbre”. Rimedio noto agli Indios peruviani, nel XVII secolo fu portato a Roma dai gesuiti, che iniziarono ad utilizzarlo macinato, per cui divenne noto anche come “polvere dei gesuiti”. I cinesi, invece, utilizzano l’artemisia.

Lo studio dei rimedi, comunque, ha una sua ragguardevole tradizione anche in Italia. E non solo perché abbiamo avuto importanti studiosi, tra cui primo tra tutti Giovanni Battista Grassi, che hanno contribuito in maniera significativa allo sviluppo della malariologia, ma anche perché le nostre terre, infestate per due millenni da infezioni malariche, sono state al centro d’importanti campagne, tra cui occorre ricordare almeno “The Sardinian Project”, il progetto realizzato nel dopoguerra dalla Rockfeller Foudation che è diventato anche un libro ed un caso da manuale. Non possiamo poi dimenticare che l’eradicazione della malaria è per il nostro paese una storia molto recente. L’esaurirsi della mortalità risale al ’48, mentre i maggiori progressi per il debellamento della morbosità vennero fatti negli anni immediatamente successivi: dai 139.156 casi registrati nel ’46, si passò ai soli 6 casi nel 1953. Nel 1956 si ebbe l’ultimo episodio epidemico a Palma di Montechiaro, nella provincia di Agrigento, mentre l’ultimo caso osservato risale al ’62.

Il libro

Alessandra Lavagnino
La mala aria
Sellerio 2010, pp. 219, euro 12,00

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