La ricerca sul supervirus si ferma per 60 giorni

Una pausa di 60 giorni. Per chiarire i possibili benefici derivanti dalla ricerca, illustrare le procedure di sicurezza adottate e per discutere dei comportamenti – scientifici e regolatori – da adottare in un caso come questo. Quello, cioè, del supervirus H5N1, la variante del patogeno dell’aviaria potenzialmente in grado di uccidere milioni di persone grazie a poche mutazioni che lo rendono superinfettivo, perché capace anche di trasmettersi per via aerea. Una scoperta scientifica tale da chiamare in causa, poco più di un mese fa, il National Science Advisory Board for Biosecurity statunitense, per decidere se tenere o meno nascosti i risultati del team di Ron Fouchier dell’Erasmus Medical Center (Paesi Bassi) e di Yoshihiro Kawaoka dell’University of Wisconsin.  

Quando è arrivata la notizia del ceppo di H5N1 superinfettivo, la comunità scientifica (e non) ha cominciato a interrogarsi sulla convenienza e la necessità di pubblicare o meno i dati inerenti la ricerca: da una parte i ricercatori sostengono che il traguardo raggiunto potrebbe aiutare lo sviluppo di vaccini e a prevenire possibili infezioni, d’altra è indubbio anche il rischio che una ricerca del genere porta con sè. 

Infatti, senza considerare i pericoli derivanti da una possibile fuga dei virus dai laboratori, rendere disponibili i dati attraverso le pubblicazioni scientifiche universalmente accessibili significa renderli alla portata di tutti. Anche di potenziali terroristi che potrebbero utilizzarli per scopi tutt’altro che nobili. Così, come riporta Nature News, dopo la revisione dei paper scientifici (affinché questi contenessero i risultati ma non i dettagli della ricerca, così che i dati sensibili potessero essere in qualche modo al riparo) è arrivata la decisione di una pausa di 60 giorni. 

Due mesi di sospensione dalle attività di ricerca sui ceppi mutanti, annunciata in contemporanea su Science e Nature, con cui i due gruppi di ricercatori artefici della scoperta sperano di calmare le acque, attenuando le paure della comunità scientifica riguardo i potenziali rischi derivanti dai loro studi.“Riconosciamo il bisogno di spiegare chiaramente i benefici di questa importante ricerca e le misure prese per minimizzare i rischi”, scrivono nel documento condiviso in cui annunciano la moratoria, “e proponiamo di farlo in un forum internazionale in cui la comunità scientifica discuta insieme e abbia modo di dibattere sul problema”

Ma non tutti avrebbero accettato di buon grado la moratoria. Come riporta Wired.com, secondo Michael Osterholm dell’University of Minnesota’s Center for Infectious Disease Research and Policy, la pausa di 60 giorni non può essere sufficiente a prendere delle misure per gestire situazioni del genere. Insomma, serve più tempo. Mentre per Richard Ebright, della Rutgers University (New Jersey), lo stop non ha alcun significato. Non sarebbe nulla di più che una procedura di public relation. 

via wired.it

Credits immagine a Håkan Dahlström via Flickr

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