La salute tra fare e sapere

Dal punto di vista dell’evoluzione epistemologica del sapere biomedico, il secolo che si sta chiudendo è stato caratterizzato da un problema fondamentale: dare alla ricerca e alla pratica della medicina uno statuto metodologico in grado di tenere conto di due esigenze apparentemente in contrasto. L’attività del medico si è trovata infatti a dover mediare fra l’intendimento primario di prendersi cura della salute del singolo malato e le esigenze di eliminare l’oggetto concreto su cui si esplica la sua azione, per poter accedere a spiegazioni sufficientemente generali da rendere più efficace la sua capacità di produrre salute.

Questa dialettica intrinseca alla medicina si è manifesta attraverso un costante confronto tra le istanze della clinica e quelle del laboratorio. Nel corso degli anni è stato diversamente posto l’accento su quelli che dovevano, o dovrebbero, essere considerati i criteri di scientificità o di validazione della ricerca e della pratica medica. Qui si cercherà di ricostruire la fisionomia e l’evoluzione di alcune idee forti della medicina scientifica, in particolare di quelle che hanno alimentato l’ideale sperimentale della medicina fisiopatologica e della batteriologia medica, che hanno portato all’emergere della metodologia della sperimentazione clinica e che hanno caratterizzato la nascita e l’affermarsi della medicina molecolare.

Il ‘900 avrebbe dovuto portare a compimento la trasformazione scientifica della medicina secondo i canoni indicati dal grande fisiologo francese Claude Bernard, e, secondo il filosofo George Canguilhem, questo risultato sarebbe stato realizzato dalla nascita della batteriologia medica e dell’immunologia sia per gli sviluppi metodologici e conoscitivi sia per le conseguenti ricadute applicative dal punto di vista della prevenzione e del trattamento delle malattie infettive.

Il metodo sperimentale, come ha mostrato lo storico della medicina croato Mirko Grmek, non ha fatto la sua comparsa sulla scena della scienza medica improvvisamente, né come un’acquisizione intellettuale spontanea, ma è stato piuttosto il risultato di una lenta evoluzione adattativa per superare i limiti della psicologia del senso comune. Intorno alla metà del secolo scorso, la medicina scientifica adottò come riferimento epistemologico la scienza positiva fisico-matematica, e a tale modello si è ispirata anche durante tutto il ‘900 la ricerca di laboratorio. Per Claude Bernard, infatti, il metodo sperimentale ha “per fine di risalire sperimentalmente alle cause prossime dei fenomeni, cioè di far conoscere le loro condizioni d’esistenza”, e di ricondurre la malattia a una causa unica. La ricerca della causa unica si diffuse nei diversi ambiti della ricerca fisiopatologica e microbiologica negli ultimi decenni dell’800, rispondendo talvolta alla speranza di poter trovare un rimedio specifico per la malattia: se le malattie infettive erano dovute a germi identificabili, se il rachitismo era provocato dalla carenza di vitamina D e una malattia endocrina da un deficit o un eccesso di secrezione ghiandolare, si poteva intraprendere la ricerca di un trattamento preventivo o curativo specifico.

L’idea sperimentale di ricondurre le malattie a una causa unica e prossima tentò di realizzarsi con la scoperta dell’eziologia microbica delle malattie infettive, e venne formalizzato dai cosiddetti “postulati di Koch” o meglio “di Henle-Klebs-Koch”. Secondo questi postulati, la dimostrazione che un particolare microrganismo è la causa di una malattia infettiva implicava la caratterizzazione batteriologica e l’isolamento dell’agente, ma soprattutto la riproduzione della malattia in un modello animale. Koch riconobbe comunque, già nel 1890, che non era sempre possibile ottemperare ai postulati da lui rilanciati. Per alcune malattie, come la febbre tifoide, la difterite, la lebbra e il colera, non era possibile infettare animali con le colture pure, mentre per altre, come la malaria, era impossibile coltivare l’agente causale. Si sapeva inoltre dell’esistenza delle infezioni asintomatiche, in cui malattie dovute a microbi diversi potevano intervenire facendo del primo microrganismo un agente fortuito e non patogeno in presenza di una malattia non correlata. In sostanza, la medicina si è presto dovuta rassegnare a veder scomparire il miraggio della causa unica.

Con la scoperta delle malattie virali i “postulati di Koch” sarebbero stati modificati in modo da prendere in considerazione anche le circostanze dell’infezione e l’importanza della risposta immunitaria individuale nel determinare il manifestarsi o meno della malattia a livello clinico, oppure la sua gravità. Questi sviluppi, che sono stati accompagnati dall’emergere di nuovi modelli di patogenesi e dei concetti di “causalità multipla” e di “reti di fattori interagenti”, hanno consentito di proporre il “metodo di analisi causale”, sviluppato per le malattie infettive, per le malattie cronico-degenerative, per le malattie a eziologia immunitaria e per i tumori. Anche se, nel caso delle patologie cronico-degenerative, è intervenuto un diverso concetto di causalità, caratterizzato in senso statistico, e il termine stesso “causa” è stato sostituito con “fattore di rischio”. Nella moderna epidemiologia, una relazione causale viene in realtà riconosciuta “empiricamente fondata” quando è possibile dimostrare che i fattori in esame sono parte del complesso di circostanze che incrementano la probabilità che la malattia si manifesti, e quando una diminuzione di uno o più di questi fattori ne provoca una diminuzione della frequenza.

In questo quadro evolutivo, l’immunologia, derivata dall’incontro tra fisiologia e batteriologia medica, ha rappresentato un ponte di fondamentale importanza tra ricerca sperimentale e sviluppi concettuali dei meccanismi biopatologici di base, da un lato, e realtà clinica, dall’altro. La scoperta e la caratterizzazione biochimica e molecolare degli anticorpi e della loro sintesi, l’identificazione dell’articolata organizzazione delle interazioni cellulari, che sono alla base del funzionamento normale e patologico dell’immunità, e la caratterizzazione della logica funzionale di natura selettiva che governa le risposte immunitarie adattative rappresentano fondamentali conquiste della medicina scientifica, le cui ricadute hanno riguardato non solo la concettualizzazione delle malattie e la pratica clinica, ma anche l’approccio alla comprensione dei meccanismi molecolari e cellulari che governano le dinamiche dello sviluppo e della funzione nervosa.

Il riconoscimento dei limiti applicativi dei ‘postulati di Koch’ è avvenuto in concomitanza con una serie di problemi che derivavano dall’applicazione delle strategie di immunizzazione alla prevenzione e al trattamento delle malattie infettive. Nasceva così l’esigenza di dare un fondamento obiettivo alle scelte terapeutiche, in un contesto che, peraltro, vedeva la medicina scarsamente dotata di terapie efficaci. La soluzione che sarebbe scaturita avrebbe visto l’affermarsi dell’epidemiologia clinica e del metodo statistico come criteri di valutazione dell’efficacia dei trattamenti.

Il problema di stabilire in termini quantitativi, ovvero obiettivi, l’efficacia di una terapia, registrava nel 1898 il primo esperimento clinico, che seguiva al dibattito sul valore della statistica e del calcolo delle probabilità in medicina sviluppatosi nella prima metà dell’800. In questo esperimento si faceva uso per la prima volta di una sorta di randomizzazione per decidere se una paziente andava trattato con la terapia (in questo caso una sieroterapia antidifterica) o assegnato al gruppo di controllo. Agli inizi del ‘900 l’analisi statistica metteva in crisi la stessa batteriologia, dimostrando la scarsa affidabilità dei calcoli presentati per stabilire l’efficacia dei trattamenti dei test diagnostici. In Gran Bretagna e negli Stati Uniti cominciava intanto ad affermarsi, con la biometria, l’idea che il metodo statistico poteva rispondere a molti problemi, in primo luogo quello di stabilire se una nuova terapia poteva essere causalmente correlata con la risoluzione della malattia. Nel 1946-48, l’epidemiologo Austin Bradford Hill realizzava il primo esperimento clinico utilizzando la tecnica della randomizzazione in doppio cieco per determinare l’effetto della streptomicina sulla tubercolosi. La sperimentazione clinica utilizzata per dimostrare la sicurezza e l’efficacia di un nuovo farmaco sarebbe diventata obbligatoria negli Stati Uniti nel 1962, come conseguenza della tragedia causata dalle prescrizione della talidomide alle donne in gravidanza.

Il metodo statistico ha fornito una base induttiva immediata per una nuova immagine della natura, caratterizzata da una variabilità immanente, e ha risposto all’esigenza di trarre da questa immagine leggi di tendenza e proprietà collettive, da utilizzare sia per un ampliamento della conoscenza, sia per scopi pratici. Inoltre, per eliminare il sospetto di un’origine accidentale di esiti sperimentali non coincidenti, è stata introdotta la verifica sperimentale e la conferma dell’osservazione. In tal senso, il ragionamento probabilistico è venuto ad assumere in medicina un ruolo sempre più rilevante.

Se la tradizione clinica del passato basava le sue decisioni sull’esperienza medica accumulata, sull’intuizione e sull’informazione anedottica, la moderna medicina scientifica ha fatto proprio il significato di un’esperienza analizzata e autocriticata, e ciò ha incoraggiato l’uso deliberato dei metodi statistici negli studi clinici. La diagnosi di un tessuto, per esempio, è basata su un’inferenza induttiva, mentre la decisione di adottare una terapia piuttosto che un’altra, il problema di stabilire l’efficacia di un farmaco o il significato di un fattore come indicatore di rischio implicano delle stime di probabilità. Il metodo probabilistico, o induttivo, consente in sostanza di stabilire quale ipotesi sia più plausibile, a fronte del fatto che il caso impedisce di avere la certezza completa che una certa conclusione corrisponde alla realtà delle cose. E, malgrado le incertezze, il ragionamento e l’accertamento probabilistico generalmente producono predizioni valide.

E’ interessante notare che, sul piano dell’interpretazione epistemologica, continua a sopravvivere l’idea che il metodo sperimentale e l’indagine statistica rispondano a due diverse filosofie della natura. In realtà non vi è contraddizione, in quanto anche l’analisi statistica tenta di modellizzare la realtà, come fa il metodo sperimentale, eliminando gli elementi che la rendono contingente. Inoltre, anche nella fenomenologia statistica la ‘replicazione’ delle esperienze ha un ruolo oggettivo: solo in seguito a ripetute osservazioni controllate l’analisi statistica può portare alla luce le regole sottostanti a fenomeni essenzialmente variabili. Vi è tuttavia chi ricorre ai criteri statistici con spirito irrazionalistico, facendo della significatività statistica di un risultato un’espressione quasi taumaturgica di verità indiscutibili, o interpretando la strategia metodologica come una visione metafisica della natura, basata sull’incertezza. L’enfasi posta negli ultimi anni sulla “medicina delle prove di efficacia”, o la recente pubblicistica su caso e caos, sono esempi di uso retorico o miope dei risultati ottenuti attraverso l’approccio statistico. Raramente infatti si riconosce che questi concetti sono strumenti del pensiero scientifico critico che, non diversamente da altri, si collocano all’interno di una metodologia conoscitiva che non ha la funzione di fondare una visione del mondo, ma solo quella di consentire il controllo delle ipotesi.

Agli inizi del secolo, anche le idee cliniche di un’individualità irriducibile nel manifestarsi della malattia, denunciate come confuse dagli sperimentalisti, cominciarono a trovare una plausibilità scientifica. L’utilizzazione di nuovi strumenti tecnici, biochimici e radiologici, infatti, sviluppando modelli sempre più articolati delle malattie, davano speranza al tentativo di obiettivare la malattia come un universale a partire dall’osservazione clinica, avviando inoltre un processo di individualizzazione delle entità nosologiche.

In tale contesto cadeva la scoperta, annunciata da Archibald Garrod nel 1902, che alcune malattie umane si trasmettono ereditariamente secondo le leggi di Mendel. Studiando alcuni alberi genealogici, il medico inglese avanzò l’ipotesi che l’alcaptonuria, una sindrome artritica dovuta alla carenza di un enzima e accompagnata dall’escrezione di urine di colore scuro, non fosse “la manifestazione di una malattia, ma piuttosto della natura di un percorso alternativo del metabolismo”. Nel 1908 Garrod suggerì quindi che gli alcaptonurici mancassero di alcune reazioni metaboliche, in quanto omozigoti per un particolare gene recessivo. Fu sempre Garrod a concepire per primo il principio dell’azione di quel gene, ipotizzando che i fattori genetici specifichino delle reazioni biochimiche, come in effetti avrebbero poi dimostrato negli anni ‘40 George Beadle ed Edward Tatum. Collegando inoltre l’approccio clinico e quello genetico, il medico inglese equiparò le malattie dovute a “fattori innati” a errori della natura, e le interpretò alla luce della teoria evolutiva darwiniana: l’errore genetico, dal punto di vista del clinico, diventava così anche fonte di conoscenza sull’organismo sano e sull’organismo patologico.

Agli inizi degli anni ‘50 risalgono le radici del concetto di “malattia molecolare”. Nel 1949, infatti, Linus Pauling, paragonando l’emoglobina normale e dell’emoglobina dei soggetti affetti da anemia falciforme, dimostrò che questa malattia è dovuta a un’anomalia nella molecola di emoglobina, per cui i globuli rossi assumono una forma a falce negli individui omozigoti per il gene difettoso. E nel 1956, Vernon M. Ingram dimostrava che tale anomalia era dovuta a una mutazione genetica puntiforme che provoca alterazioni nella struttura tridimensionale dell’emoglobina, alterandone la funzionalità. Ma proprio intorno al concetto di “malattia molecolare” si è sviluppato un intenso dibattito fra i biologi molecolari e i fisiopatologi, che evidenzia due diverse visioni del rapporto struttura-funzione nelle malattie che dipendono da anomalie delle molecole informazionali. Infatti, se per i biologi molecolari si può parlare a tutti gli effetti di “lesioni” delle molecole (viste come “organi” che esplicano la loro funzione grazie a una determinata morfologia), i fisiopatologi criticano tale prospettiva riduzionistica che non distingue fra alterazione della molecola e alterazione dovuta a una molecola, ricordando che anche una malattia molecolare si esprime a diversi livelli funzionali (molecolare, cellulare, tissutale, ecc.).

Con l’avvento della genetica molecolare, il gene ha in qualche misura tentato di sostituire il microbo come supporto della concezione ontologica della malattia. Secondo la medicina predittiva basata sulla genetica molecolare, infatti, nel nostro patrimonio genetico risiede la causa ultima delle malattie. Con il sequenziamento del Dna umano si spera pertanto di dare una base di certezza alla diagnosi precoce, e di stabilire strategie di prevenzione e di trattamento delle malattie. Anche se è prevalsa a livello pubblico l’idea sbagliata dell’esistenza di una determinazione genetica delle malattie secondo una correlazione del tipo 1:1 (per cui ad un gene corrisponde un carattere), gli sviluppi della genetica molecolare e l’analisi delle malattie causate dall’effetto combinato di più geni insieme a diversi fattori ambientali, stanno modificando questo l’approccio. Bisogna infatti aggiungere che il punto di vista evoluzionistico, il solo che consente di dare un senso al problema dei rapporti geni-ambiente, comincia a colonizzare il ragionamento medico. La visione evoluzionistica dovrebbe finalmente consentire di illuminare meglio le ragioni per cui la malattia, in quanto fenomeno biologico, è necessariamente il prodotto di una causalità multiforme, dove fattori esogeni ed endogeni si congiungono per determinarne la comparsa.

La medicina è infine approdata a una nuova concezione multicausale della malattia, in cui assumono importanza svariati criteri impliciti, e di conseguenza anche l’analisi di criteri estrinseci che dipendono da particolari interessi e orientamenti metodologici, e che inducono a enfatizzare un particolare o particolari fattori come la causa dell’evento patologico che si intende spiegare. Ciononostante, occorre sottolineare che l’identificazione di una condizione significativa, e controllabile in via sperimentale, come fattore scatenante continua comunque a essere regolarmente utilizzata in medicina per la sua efficacia nel produrre risultati pratici. Infatti, su questa base si possono fondare argomenti controfattuali che consentono di arrivare a delle generalizzazioni per quanto riguarda l’adozione di misure preventive. Ma, per evitare di scadere in pericolosi dogmatismi, i medici dovranno anche acquisire la consapevolezza epistemologica che la malattia e la salute sono anche stati funzionali di organismi biologici con una particolare storia evolutiva, oltre che con un’anamnesi individuale. Una storia che stabilisce dei vincoli ben precisi alle capacità adattative, e che ha prodotto tratti fisiologici i quali, in condizioni diverse da quelle in cui è avvenuto l’adattamento evolutivo, possono manifestarsi come vere e proprie malattie. Di queste considerazioni evoluzionistiche si dovrà sempre più tenere conto nel definire gli obiettivi e le strategie più generali dell’intervento sanitario.

Bibliografia

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