La “scienza umana” di Hoffmann

    Possono le scienze naturali e umanistiche convivere armoniosamente? A giudicare dall’opera e dal pensiero di Roald Hoffmann, premio Nobel per la chimica nel 1981 e autore di due raccolte di poesie, sembra proprio di sì. Anzi, la speranza di Hoffmann è proprio questa: che gli scienziati diventino un po’ più umanisti e gli umanisti un po’ più scienziati.

    Parla in modo affabile e gentile l’umanista-scienziato di origine polacca, trascinando l’ascoltatore in un flusso di pensieri e riflessioni, in un percorso che parte dalla sua attività di scrittore per arrivare ad argomenti che spaziano dal rapporto fra la scienza e la religione, al futuro del mondo del lavoro, all’importanza dell’educazione alla scienza. Un percorso che ha sempre al centro l’essere umano e la sua condizione. E non a caso uno dei punti di riferimento di Hoffmann è Primo Levi, anche lui chimico e scrittore, anche lui dedito alla scoperta della straordinaria ricchezza contenuta nell’opera dell’uomo comune, nel suo lavoro e nelle sue fatiche quotidiane.

    Insieme ad altri quattro premi Nobel e ad altri esperti, Hoffmann ha partecipato al convegno “Futuro del Sapere, Futuro del Lavoro”, a Milano il 5 e 6 giugno. Oggetto della sua relazione, il tema dell’educazione alla scienza. Hoffmann conosce bene l’importanza di questo argomento: molto del suo tempo è stato dedicato a rendere comprensibili a tutti i principi e le meraviglie della chimica. Una intensa attività di divulgatore scientifico, che lo ha reso famoso non solo negli Stati Uniti. Galileo gli ha rivolto alcune domande.

    Professor Hoffmann, non crede che con la progressiva specializzazione la scienza si stia allontanando sempre di più dal mondo reale, per chiudersi nei laboratori di ricerca?

    “In effetti sono preoccupato, davvero molto preoccupato dal fatto che l’ignoranza della scienza possa fare da ostacolo al processo democratico, per quanto imperfetto sia. Sono profondamente convinto che la ‘gente normale’ debba avere il potere di prendere decisioni: sull’ingegneria genetica, le discariche dei rifiuti, su fabbriche sicure o pericolose, su quali fra le sostanze che danno assuefazione debbano essere controllate o meno. Certo, la gente può appellarsi a degli esperti che spieghino i vantaggi e gli svantaggi, le scelte possibili, i benefici e i rischi. Ma gli esperti non hanno alcun mandato. La popolazione e i suoi rappresentanti invece sì”.

    Ma come pensa di rendere la scienza più accessibile proprio a quella ‘gente normale’ di cui parla?

    “Credo che il modo migliore per trasformare la scienza (e la chimica in particolare) in una disciplina attraente e consueta per la gente sia quello di collocarla saldamente nella cultura mondiale. E dunque non isolarla, non ritenerla una conoscenza poco comune, ma considerarla per quella che è, ovvero l’attività di esseri umani curiosi ma fallibili, che cercano di comprendere questo mondo in una modo complementare e non così diverso da quello in cui altri – gli artisti, in particolare – cercano di capirlo. In secondo luogo, vederla come una ricerca, con un lato materiale e uno spirituale, capace di affrontare le questioni morali ed etiche. Il mezzo più rapido per far sì che la scienza venga considerata un’anomalia è infatti proprio quello di rivendicare la sua totale razionalità, e di affermare la sua neutralità etica”.

    Nel suo ultimo lavoro, “Old Wine, New Flasks. Reflections on Science and Jewish Tradition”, un libro di prossima pubblicazione scritto in collaborazione con la teologa Shira Leibowitz Schimdt, vengono esaminati i rapporti fra la scienza e la religione ebraica. Da cosa deriva l’interesse per questo tema?

    “Scienza e religione hanno molte cose in comune. Ambedue partono dall’assunto che l’universo sia comprensibile per l’essere umano. E questo vuol dire che le nostre azioni hanno un significato. La scienza non può dare tutte le risposte, non potrà mai soddisfare tutti i bisogni delle persone, soprattutto le esigenze spirituali e psicologiche. Anche il lavoro ha un valore spirituale per la persona, ed è per questo che la nostra società dovrebbe valorizzare di più il capitale umano, in particolare le donne. Basta pensare a quanto affermava San Tommaso d’Aquino: “Bisogna sviluppare i semi che sono presenti in ognuno di noi”.

    Cosa pensa della tanto minacciata “fine del lavoro”, provocata dallo sviluppo delle tecnologie dell’informazione?

    “Il settore dei servizi non scomparirà, come alcuni credono. Per fare un esempio, i ristoranti continueranno ad esistere anche in futuro, proprio come ci sono ora e come c’erano anche prima della rivoluzione industriale. Ma vorrei fare un passo avanti, l’individuo non trae soltanto soddisfazioni di carattere materiale dal proprio lavoro, ma anche gratificazioni psicologiche. E questa capacità di trarre soddisfazione dalle proprie attività lavorative è probabilmente il prodotto dell’evoluzione della nostra specie. Non credo insomma a modelli e teorie che non tengono conto della complessità dell’essere umano. Ciascuno di noi ha invece delle responsabilità nel coltivare i propri e gli altrui semi della conoscenza. E per questo bisogna guardare al futuro con fiducia: sono convinto che gli ideali di giustizia sociale riemergeranno. Anche se ciò avverà solo quando gli scienziati diventeranno un po’ più umanisti, e gli umanisti un po’ più scienziati”.

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