Freeman Dyson
L’importanza di essere imprevedibile,
Di Renzo Editore 1998,
pp. 78, lire 16.000
Nel 1960, con un articolo pubblicato sul settimanale americano Science, il fisico inglese Freeman Dyson si avventurò nel campo dell’immaginazione – cosa piuttosto insolita per uno scienziato – supponendo l’esistenza di altre forme viventi nell’universo e fornendo una serie di strumenti per localizzarle. Le affermazioni di Dyson suscitarono immediatamente delle reazioni violente da parte dei colleghi più “ortodossi”. Ma attivarono anche la curiosità dei cultori della fantascienza, che ribattezzarono il suo metodo di ricerca con il nome di “sfera di Dyson”.
Da allora questo grande esploratore del mondo fisico è diventato un ‘outsider’, o un ‘genio incompreso’, a seconda dei punti di vista. L’astronoma Margherita Hack, per esempio, lo definisce “un fisico matematico che crede in un futuro da fantascienza”. Ma quanta fantascienza non è ormai diventata realtà?
La verità è che quando si ragiona su misure enormi – l’infinitamente piccolo della biologia molecolare o l’infinitamente grande della fisica teorica – gran parte della credibilità scientifica è affidata alla coerenza di una formula matematica, il più delle volte non verificabile, e a una buona dose di fantasia. E se si è sulla strada giusta, i fatti non potranno che dimostrarlo, anche se con un certo ritardo.
In questo ultimo libro la fantasia di Dyson spazia liberamente, trasformando ogni idea, anche la più strampalata, in un progetto da realizzare a breve o a lungo termine. Ecco così che il metodo migliore per trovare tracce di vita nell’oceano di Europa diventa quello di cercare “pesci congelati” in orbita attorno a Giove. E perché non andare a scovare i luoghi della superficie marziana dove si sono nascoste le “piante a sangue caldo”?
L’interesse del libro, però, non è solo in queste bizzarrie da scienziato pazzo. Ben più serie sono infatti le sue considerazioni sulla politica spaziale degli Stati Uniti. Perché mai, si chiede Dyson, sono stati spesi milioni di dollari per una spedizione su Marte, quando a Houston si disponeva già di meteoriti di provenienza marziana? Perché ci si ostina a mandare in orbita apparecchiature dalle dimensioni esagerate, quando basterebbe una navetta grande quanto un pollo per registrare accuratamente ciò che accade nello spazio circostante? Perché si continuano ad usare motori a propulsione, quando un raggio laser o un fascio magnetico potrebbero muovere un’intera montagna?
A queste domande Dyson non fornisce risposte. Ma insinua il dubbio e la curiosità: quel tanto che basta per essere “imprevedibile”.