La sfida della bioremediation

Uno degli aspetti che caratterizzano lo sviluppo economico di quest’ultimo secolo è il progressivo e rapido deterioramento dell’ambiente. Apparentemente il binomio “sviluppo = inquinamento ambientale” è stato acquisito anche nell’immaginario collettivo come una equazione necessaria ed ineluttabile. Tuttavia, è giunto il momento (o forse è già troppo tardi) di invertire questa tendenza e di correre ai ripari. La ricetta che propongono i microbiologi è molto semplice: per riparare almeno in parte le conseguenze devastanti dell’attività umana sul pianeta, dobbiamo chiedere aiuto ai microrganismi.

La salute dell’ambiente e quella dell’uomo sono strettamente correlate. E’ quindi sorprendente rilevare come le pagine dei quotidiani diano raramente spazio alle ricerche sul risanamento ambientale; contrariamente, le notizie che riguardano gli studi sul genoma umano e sulle malattie umane (alcune dovute al deterioramento dello stato ambientale) trovano la massima attenzione dei media. Ne deriva che la valenza strategica delle ricerche sul genoma umano prevalga anche nelle linee guida dei Programmi Nazionali di Ricerca (Pnr) dei Paesi industrializzati per le implicite ricadute su tutti quei processi produttivi e tecnologici che “ruotano” attorno al problema delle malattie umane: tecniche di Dna ricombinante, sviluppo di nuovi farmaci anti-tumorali, materiali biocompatibili, vaccini geneticamente ingegnerizzati, biosensori. Tutto ciò non ci sorprende e per certi versi è da considerarsi “politicamente corretto”.

Tuttavia, gli investimenti per quella che potremmo definire la “grande biologia” sono solo in parte giustificati. Se è ovvio che il maggior beneficiario degli studi sul genoma umano sarà, si spera, tutta l’Umanità, è anche vero che il “significato” o per meglio dire “il peso specifico” del genoma umano nel contesto generale dell’insieme degli organismi viventi è ben poca cosa. Per esempio, in termini di diversità enzimatica, il nostro Dna contiene le informazioni per attivare il metabolismo di un ridotto numero di nutrienti. Inoltre, noi umani non possiamo resistere in nessun modo a bruschi cambiamenti ambientali o insulti di tipo chimico-fisico (per esempio: pH acido o basico, radiazioni ad alta energia, stress nutrizionale, mancanza di ossigeno, alta o bassa pressione) dimostrando la nostra limitata adattabilità metabolica. A tutto ciò, si contrappone la straordinaria “biodiversità microbica”. I microrganismi rappresentano le forme di vita che hanno avuto maggior successo nella colonizzazione del nostro pianeta occupando tutti gli ambienti, inclusi quelli definiti come inospitali o estremi. Molti batteri vivono a temperature superiori ai 100 °C, a pH 1-2, e a pressioni superiori alle 400 atmosfere pur essendo provvisti di un Dna contenente circa l’1% dei geni presenti nel genoma umano. Questa limitata capacità genica è tuttavia in grado di definire e coordinare una complicata e perfetta macchina metabolica che consente ai batteri di crescere e proliferare. Infatti, una caratteristica prevalente nei microrganismi presenti nel suolo o nelle acque è la possibilità di utilizzare una enorme varietà di composti organici e di sostituire l’ossigeno in condizioni anaerobiche con composti inorganici come zolfo, solfati, nitrati, nitriti, solfossidi ed altro.

Questa plasticità metabolica rende l’uomo, che ha una crescita unicamente legata alla presenza di ossigeno, un organismo ridicolmente semplice dal punto di vista metabolico.Mentre gli organismi superiori (includendo anche quelli formati da una sola cellula) sono presenti sul nostro pianeta da circa 1 miliardo di anni, i batteri sono più “vecchi” di almeno 2 miliardi di anni ed hanno avuto pertanto più possibilità di adottare molteplici modalità metaboliche ed adattarsi a mutevoli situazioni ambientali. In questo senso è pertanto ragionevole pensare che tutti i meccanismi molecolari adottati dai viventi per trarre energia dall’ambiente siano stati preventivamente “provati” in termini di efficienza da qualche specie batterica presente sul pianeta. In aggiunta, la lunga esposizione a numerose classi di composti organici e inorganici (anche tossici) ha creato le condizioni per una pressione selettiva che ha indotto l’evoluzione di nuovi enzimi catabolici capaci di degradare o modificare i composti di partenza.

In pratica, milioni e milioni di anni di “stress ambientali” hanno prodotto dei catalizzatori biologici con una specificità ed efficienza inimmaginabili per nessun processo industriale creato dall’uomo. Infatti, i meccanismi molecolari adottati da enzimi come le mono- o le di-ossigenasi che rappresentano la prima via di attacco a molti composti aromatici da parte dei più comuni microrganismi del suolo, restano a tutt’oggi una formidabile sfida intellettuale per gli esperti di ingegneria delle reazioni chimiche. In molti casi, si sono evolute delle vie metaboliche in grado di degradare, completamente o in parte, sostanze altamente recalcitranti e cancerogene come i policlorobifenili (Pcb) o sostanze tossiche, anche se “naturali”, come gli idrocarburi. Tuttavia, a seguito dell’industrializzazione e dell’urbanizzazione, sono state rilasciate e si continuano a rilasciare nell’ambiente tonnellate di specie chimiche (xenobiotici dal greco xenos, estraneo) che non sono mai state presenti in quantità apprezzabile nella biosfera.

Tra questi composti i più resistenti all’azione degradativa dei microrganismi sono quelli che presentano legami cloro-carbonio e azoto-carbonio. I policlorobifenili, le clorodiossine, i composti nitroaromatici e simili, rappresentano alcune delle sostanze che causano situazioni di allarme ambientale nella collettività quando, accidentalmente, vengono riversate nella biosfera. Non a caso l’attuale legislazione italiana in materia di inquinamento chimico (derivazione della cosiddetta “Seveso 2”), risente senza dubbio delle esperienze legate ai grandi disastri ambientali a partire dagli anni ‘70: Icmesa di Seveso (1976), Acna di Cengio (1988), Farmoplant di Massa Carrara (1988), petroliera Haven nella rada di Genova (1991), sono solo alcuni tra gli esempi più eclatanti. In questo senso, i microrganismi sono venuti in contatto con la miriade di composti xenobiotici generati dall’uomo solo durante gli ultimi 100 anni, un periodo di tempo che rappresenta “un battito di ciglia” in termini di evoluzione.

Questo significa che molti dei batteri che conosciamo oggi non hanno ancora “imparato” (cioè a dire: non sono stati selezionati) a degradare molte sostanze xenobiotiche. Se i grandi disastri ambientali hanno sensibilizzato l’opinione pubblica sui problemi legati allo sviluppo di una “chimica pulita” che generi prodotti biodegradabili (green chemistry) e alla necessità di indirizzare la crescita economica ed industriale del Paese tenendo conto anche dell’impatto che le attività umane hanno sull’ambiente, poca attenzione è stata posta su di un tipo di inquinamento, ancora largamente sconosciuto sia su scala locale che globale: l’utilizzo massiccio di antibiotici, ormoni e sostanze immuno-regolatrici per l’allevamento animale. E’ stupefacente come l’immissione di queste sostanze nella biosfera sia scarsamente controllata e pertanto le ripercussioni che si avranno nell’ambiente non sono attualmente prevedibili; da qui, la necessità di costruire nuovi farmaci con accertata biodegradibilità è sicuramente prioritaria nell’ambito dei futuri piani di ricerca legati all’industria farmaceutica. Anche in questo caso, la conoscenza delle potenzialità enzimatiche dei microrganismi sarà la chiave per assicurare la salute ambientale.Di fronte alle emergenze ambientali appena accennate, i microbiologi molecolari che si occupano di bioremediation hanno posto da tempo a tutta la comunità (scientifica e non) la seguente domanda: dobbiamo aspettare che i microrganismi “vengano selezionati” dagli xenobiotici riversati continuamente nella biosfera o vale la pena intervenire per accelerare questo processo?

In altri termini: possiamo permetterci di attendere che l’ambiente inquinato induca in tempi non definibili ma certamente lunghi (almeno svariati decenni) la selezione di “nuovi batteri” che possano degradare le sostanze attualmente recalcitranti, o l’emergenza è tale che dobbiamo tentare la “costruzione in vitro” di batteri provvisti di nuovi enzimi?

Ingegneria genetica e bioremediation

Già da molti decenni i microbiologi ambientali hanno isolato e caratterizzato molte specie batteriche in grado di crescere su complesse o inusuali fonti di energia (pesticidi, idrocarburi, solventi, erbicidi ecc.) senza tuttavia comprenderne appieno i meccanismi molecolari specifici. Solo con l’avvento e la massiccia utilizzazione delle tecniche di genetica molecolare sono stati fatti passi fondamentali per la delucidazione a livello genetico delle vie metaboliche implicate, creando così i presupposti per quella che viene comunemente definita “ingegneria genetica o tecnica del Dna ricombinante”. Quest’ultimo approccio prevede la possibilità di effettuare procedure di “taglia e incolla” di segmenti di Dna tra specie batteriche non necessariamente affini e pertanto di intervenire direttamente su pacchetti di geni (operoni), che regolano ben definite vie metaboliche.

Già dalle fine degli anni Ottanta il gruppo di ricerca diretto da Ken Timmis presso l’Università di Ginevra aveva dimostrato come fosse possibile in laboratorio “combinare geni” di varia origine in batteri aerobi del genere Pseudomonas, rendendoli così in grado di degradare miscele complesse di cloro- ed alchil-benzoati [1]. Negli stessi anni, l’opinione pubblica mondiale venne sensibilizzata verso i problemi ambientali a seguito dell’incidente della petroliera Exxon Valdez sulle coste dell’Alaska (marzo 1989); gli interventi messi in atto per rimuovere le migliaia di tonnellate di idrocarburi (per un costo stimato di circa un miliardo e mezzo di dollari) misero in luce le straordinarie possibilità delle tecniche di bioremediation basate sull’uso di microrganismi appositamente selezionati per la degradazione di un ben definito inquinante [2].

I risultati incoraggianti ottenuti sulle coste dell’Alaska con le procedure di bioremediation basate sull’attivazione e selezione della popolazione microbica residente (autoctona), non hanno dato seguito a risultati altrettanto brillanti allorquando sono stati introdotti nell’habitat inquinato microrganismi estranei (alloctoni) e/o ingegnerizzati. Si è ipotizzato pertanto che in un ambiente naturale, le condizioni alle quali l’organismo estraneo viene sottoposto, siano molto diverse da quelle di laboratorio, in genere “ottimali e controllate”. Questo tuttavia non è sempre vero perché anche su piccola scala di laboratorio, il microrganismo aggiunto a campioni naturali (microcosmi) deve rapidamente adattarsi a condizioni di stress ambientale (presenza di inquinanti) e inoltre deve competere con la popolazione microbica autoctona che spesso ha il sopravvento nel giro di poche settimane. Questi, ed altri problemi, hanno reso il lavoro dei microbiologi e degli ingegneri ambientali alquanto complesso ed il cammino per definire le reali possibilità delle tecniche basate sull’utilizzo di batteri alloctoni (bioaugmentation), è al momento ancora in salita e irto di insidie.

Pur con tutti i limiti insiti nelle tecniche di bioremediation, l’opinione pubblica e le Agenzie per il finanziamento della ricerca Europea, Statunitense e Giapponese sull’ambiente, si sono fin dal principio dimostrate particolarmente sensibili alle ricerche tese a favorire lo sviluppo delle tecniche fondate sull’impiego dei microrganismi. Questi studi hanno tuttavia subito una fase di rallentamento agli inizi degli anni Novanta quando è risultato chiaro a tutti che in parallelo a queste tecnologie (che potremmo definire di tipo “naturale”), si erano messe a punto le procedure per la creazione di batteri ricombinanti (cioè ingegnerizzati), e che durante il “processo di costruzione e selezione” di microrganismi potenzialmente utilizzabili in bioremediation, si era fatto largo uso di marcatori molecolari (“cassette di resistenza”), in grado di conferire al microrganismo la capacità di crescere in presenza di uno o più antibiotici.

La potenziale pericolosità di rilasciare in ambiente (anche confinato) organismi resistenti agli antibiotici e quindi teoricamente in grado di trasferire la resistenza ad altri batteri (in particolare patogeni), fu immediatamente recepita dall’opinione pubblica e dalle Agenzie ambientali internazionali indirizzando la ricerca (almeno quella pubblica) verso progetti tesi alla identificazione di nuovi marcatori genetici di tipo non-antibiotico, per esempio la “resistenza ai metalli pesanti”. Raggiunto questo importante obiettivo, i dubbi sull’utilizzo di microrganismi ricombinanti in sistemi “controllati e confinati” (tecniche definite ex situ) si sono largamente dissolti. Attualmente, i progetti di ricerca portati avanti in molti laboratori di biotecnologie microbiche, vanno nella direzione di “attrezzare” il batterio ricombinante non solo con le vie enzimatiche idonee alla biodegradazione del composto desiderato, ma anche con gli enzimi necessari alla produzione di composti che aumentino la biodisponibilità dell’inquinante (biosurfattanti).

Quest’ultimo aspetto è infatti di straordinaria importanza per la fattibilità del processo degradativo: è implicito che se l’inquinante (o la miscela di inquinanti) non è solubile o scarsamente solubile in acqua, avrà ben poche possibilità di essere degradato dal microrganismo.

Il falso dilemma: attendere o agire?

Tutti sappiamo che l’ecosistema si regge su regole scarsamente conosciute e su sottili equilibri solo in parte definiti. Sappiamo anche, tuttavia, che l’ambiente nel quale l’uomo vive è fortemente degradato a causa delle attività umane altamente inquinanti. Esistono perciò varie scuole di pensiero, all’interno della comunità scientifica, che stanno dibattendo da anni su quali siano le procedure più efficaci e meno rischiose per l’ecosistema nelle tecniche di bioremediation. Semplificando all’estremo i concetti dibattuti, i fautori della tesi di un immediato utilizzo di microrganismi ricombinanti sostengono che, tutto sommato, le tecniche del Dna ricombinante producono in laboratorio, e in breve tempo, ciò che “in natura” verrebbe comunque fatto in tempi enormemente più lunghi. In aggiunta, non esiste allo stato delle cose nessuna evidenza che il rilascio di un microrganismo costruito ad hoc per nutrirsi di uno o più composti tossici (per l’uomo) possa creare dei danni all’ecosistema.

 Al contrario, il rischio di mantenere quantità enormi di inquinanti nell’ambiente è reale, e non può essere ulteriormente ignorato. A questa linea per così dire “interventista”, si contrappone la scuola di pensiero che propugna la natural attenuation (attenuazione naturale) come procedura non invasiva e rispettosa dell’ecosistema. In pratica, i sostenitori di questa tecnica, definita dai propri detrattori come “del non fare”, sostengono che in molti casi le comunità microbiche naturali hanno nel loro interno le potenzialità per evolvere in tempi medio-lunghi (alcuni decenni), verso la selezione di specie in grado di attenuare o annullare del tutto i rischi associati al contaminante. Questa procedura richiede ovviamente delle profonde conoscenze biogeochimiche su quelle che potrebbero essere le dinamiche all’interno del sito contaminato, in modo da prevedere fin dal principio l’evoluzione positiva o negativa del processo di attenuazione dell’inquinante. L’attenuazione non deve necessariamente essere intesa come un processo di distruzione o di biodegradazione dell’inquinante in quanto potrebbe anche implicare l’immobilizzazione del contaminante stesso (per es. su particelle del suolo), diminuendone così i rischi per l’uomo e l’ambiente.

Recentemente la natural attenuation è stata ufficialmente riconosciuta dalla US Environmental Protection Agency (Epa) come “un approccio di risanamento basato sulla conoscenza e l’analisi quantitativa dei processi naturali a protezione dell’uomo contro i rischi derivanti dall’esposizione a pericolosi contaminanti” [3]. Da quanto detto risulta in modo evidente l’assoluta necessità che gli studi sulle tecniche di bioremediation non solo proseguano, ma vengano affrontati su scala organizzativa e finanziaria più ampia, e soprattutto in modo interdisciplinare. Sappiamo molto, anche se in modo confuso e frammentato [4], ma ciò che sappiamo è ancora troppo poco per affrontare il problema in modo organico. Visti i ripetuti fallimenti, anche in esperimenti su piccola scala e a breve termine, il rilascio in ambiente di batteri geneticamente modificati resta al momento solo uno scottante argomento di discussione fin qui utilizzato dai detrattori delle ricerche molecolari in microbiologia per tagliare i finanziamenti nel settore.

In definitiva, non appare ragionevole abbandonare, almeno come sviluppo delle ricerche, una strada, quella “biotecnologica”, a favore dell’altra, quella “naturale”, in quanto le casistiche di contaminazione con cui si ha a che fare (per diversità di inquinanti e di comparti interessati all’inquinamento), sono tali da poter richiedere, per la bonifica dei siti a costi sostenibili, i diversi approcci: a) natural attenuation supportata da approfondite analisi di rischio nei casi di rischi non elevati, b) biostimolazione della biomassa autoctona mediante attuazione di opportuni processi nei casi in cui la biomassa si riveli sufficientemente efficace, c) introduzione di biomassa selezionata e accresciuta a partire da quella autoctona nei casi in cui sia particolarmente lungo e difficoltoso l’accrescimento della biomassa nelle condizioni presenti nel sito, ed infine d) l’uso di biomassa alloctona (microrganismi ingegnerizzati) in bioreattori strettamente confinati.

La nuova frontiera: microrganismi “non coltivabili”

Non esistono al momento dati certi sulla biodiversità microbica. Tuttavia, da una stima molto attendibile, possiamo affermare che le conoscenze sulla biochimica e fisiologia dei microrganismi riguardano una piccolissima percentuale (circa 0.1%) di tutte le specie batteriche che popolano il pianeta, in quanto questa frazione è composta da specie coltivabili in laboratorio. Pertanto, se abbiamo imparato così tanto in termini di bioremediation solo studiando una frazione del mondo microbico, le potenzialità ancora nascoste in quei batteri che i ricercatori non sono ancora riusciti a coltivare in vitro, sono del tutto inimmaginabili. La prova certa, anche se indiretta, di questo immenso patrimonio biologico inesplorato è emersa molti anni fa (1996), allorquando il genoma di un microrganismo “estremo” (Methanococcus jannaschii) è stato per la prima volta sequenziato e confrontato con quello di batteri più comuni (per esempio Escherichia coli). Sorprendentemente, più del 50% del genoma di M. jannaschii non aveva una controparte in E. coli a dimostrazione di quanto poco conosciamo della genomica batterica e delle sue potenziali applicazioni anche finalizzate all’ambiente. Se questo è vero per un batterio come M. jannaschii incluso nello 0.1% di specie coltivabili, le ricerche legate alla conoscenza del 99.9% di batteri definiti “non-coltivabili” rappresentano la nuova frontiera della microbiologia ambientale. Infatti, nessuno conosce l’influenza nell’ambito dei cicli biogeochimici delle popolazioni batteriche non-coltivabili, e ancora meno noti sono i fattori che determinano la loro non-coltivabilità.

A questo riguardo negli ultimi anni è apparsa un’ampia letteratura sui segnali di natura chimica che i singoli componenti di una comunità batterica si scambiano tra loro. Questo singolare fenomeno, chiamato quorum sensing (percezione della densità critica), coinvolge tutti quei meccanismi (largamente sconosciuti), che regolano la crescita e le interazioni di una popolazione di microrganismi. In altri termini, la scarsa o abbondante crescita di una colonia batterica non sarebbe casuale o, come la logica suggerirebbe, dipendente da questo o quel nutriente, ma sarebbe determinata da “regole precise” codificate a livello genico.

La nostra previsione è che nel prossimo decennio l’avanzamento delle conoscenze sui fattori genetici che regolano il quorum sensing, ci permetterà di “agire” sui meccanismi che determinano la non-coltivabilità di molte specie batteriche, la cui presenza in ambiente è attualmente dimostrabile solo sotto forma di materiale genetico. Le tecniche molecolari infatti (vedi spalla), ci permettono già da ora di estrarre e amplificare il Dna da campioni ambientali e confrontarlo con le sequenze conosciute in modo da determinarne la specie d’appartenenza (analisi in silico). Queste tecniche sono fondamentali non solo per la identificazione delle specie presenti in un determinato habitat (coltivabili e non), ma anche e soprattutto per conoscere la dinamica delle popolazioni sottoposte a stress ambientali. Siamo in grado di affrontare “l’eccesso di biodiversità”?Alcuni ricercatori sostengono, in modo del tutto provocatorio, che non ha senso aumentare il livello delle nostre conoscenze sulla biodiversità microbica, in quanto già oggi siamo impotenti e incapaci di coordinare l’immensa quantità di informazioni, che ci deriva dalla ricerca mondiale nel settore.

Secondo le ultime stime, i microrganismi analizzati fino a oggi sono in grado di degradare 650 composti diversi, utilizzando circa 450 enzimi che generano almeno 700 reazioni di interesse per la bioremediation. Nonostante ciò, possiamo predire il destino e l’effetto di molte sostanze tossiche o cancerogene solo su piccola scala e in sistemi circoscritti. Troppo poco! In buona sostanza si ravvisa l’esigenza prioritaria di razionalizzare in modo trasversale il complesso delle nozioni teorico-applicative, creando una “solida rete informatica dedicata” che analizzi in modo intelligente (reti neurali), le informazioni in nostro possesso. Questo lavoro necessiterebbe di uno sforzo organizzativo e finanziario paragonabile a quello già fatto nei settori della fisica, della ricerca spaziale, della biologia molecolare e dell’astrofisica. In effetti, il Cern (fisica delle particelle), l’Esa (agenzia spaziale europea), l’Embl (Laboratorio europeo per la biologia molecolare), l’Eso (Osservatorio europeo per l’astrofisica) non hanno una controparte specifica nel settore della microbiologia ambientale e tanto meno nel sotto-settore della bioremediation.

Ricerca di base e bioremediation: la situazione italiana

Appare chiaro da quanto detto, che le politiche nazionali dei Paesi industrializzati non possono ulteriormente trascurare i problemi connessi ai rischi ambientali. La domanda che sorge spontanea a questo punto è: il nostro Paese è dotato di mezzi, strutture e competenze adeguate per affrontare la sfida ambientale?Il Programma Nazionale di Ricerca (Pnr) approvato nel maggio del 2000, presentava una interessante “fotografia” dello stato della ricerca scientifica nel nostro Paese. Spulciando tra le numerose pagine, risultava che nel 1990 la spesa globale per Ricerca & Sviluppo (R&S) in rapporto al Prodotto Nazionale Lordo (Pil), era di 1.3%; nel 2000 tale valore era sceso a 1.03, con una diminuzione del 23%. Nel 1997 l’Italia spendeva in ricerca di base lo 0.24% del Pil, (nel 1993 era lo 0.26) con una incidenza delle imprese pari a 0.01%. Nel periodo 1990-97 il numero di addetti alla ricerca, su 10.000 occupati, era aumentato del 6% contro il 100% in Finlandia, 50% in Spagna, 26% in Giappone e 22% in Francia.

Nel 2000 il numero totale dei ricercatori in Italia era il 72% della media dei Paesi Ue, contro il 45% della media USA e il 41% del Giappone, con una età media degli addetti (Cnr, Enea e università) compresa tra 48 e 54 anni. Da queste scarne cifre risultava pertanto che il lavoro di ricerca in Italia, oltre che essere sottodimensionato ed esposto ad un rapido processo di invecchiamento degli addetti, offriva prospettive tali da non renderlo più attraente e competitivo per i giovani. In aggiunta la ricerca di base, finanziata al 96% dallo Stato, era praticamente inesistente nelle imprese. Anche se i dati sopra esposti si riferiscono al 2000, è abbastanza evidente che a tutt’oggi la situazione non è certamente mutata. Purtroppo le statistiche presentate nelle Linee Guida per la Politica Scientifica e Tecnologica del Governo (aprile 2002), non sono direttamente confrontabili con quelle del piano precedente; tuttavia, in alcuni punti giungono alle stesse conclusioni ovvero che “per la spesa in R&S, l’Italia è ultima nella fascia dei Paesi con PIL compreso fra 20.000/25.000 dollari pro-capite, mentre in termini di dimensione del mercato del lavoro per attività R&S, l’Italia è in coda alla graduatoria dei Paesi industrializzati seguita solo da Grecia, Spagna e Portogallo”.

La situazione non certo incoraggiante appena delineata si inserisce in una realtà internazionale nella quale i summit di Marrakech e di Kyoto hanno dimostrato che l’opinione pubblica chiede agli “esperti” previsioni certe sui cambiamenti globali che interessano il nostro pianeta. E’ implicito che queste risposte non possono e non potranno essere mai date senza che vi sia, dal punto di vista politico, la consapevolezza che solo potenziando (con finanziamenti e strutture adeguate) la ricerca di base, potremo raggiungere un livello di conoscenze sufficienti per prevenire e risolvere i problemi che affliggono l’ambiente in cui viviamo. In tutto questo i microrganismi sono una componente chiave dei cicli biogeochimici e sono i principali attori nelle tecniche di bioremediation. La nostra speranza, sia nella veste di comuni mortali che in quella di ricercatori, è che i generici intendimenti programmatici presenti nel PNR nazionale per il periodo 2003-2006 (“garantire un rilevante contributo alla soluzione dei problemi posti dallo sviluppo sostenibile, dal cambiamento globale, dalla sicurezza degli alimenti e dai rischi per la salute”), vengano tradotti in atti concreti. In attesa che questo avvenga siamo certi che i batteri continueranno silenziosamente a darci una mano per mantenere l’ambiente più pulito.

BIBLIOGRAFIA

[1] Timmis K. N. et al., Science, 235, 1987, pp. 593-596.
[2] Harvey S. et al., Biotechnology, 8, 1990, pp. 228-230.
[3] USEPA_SAB, “Monitored Natural Attenuation”, USEPA Research Program (1400A) 2001.
[4] De Lorenzo, V., Environmental Microbiology, 4, 2002, pp. 6-8.

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