La sfida è ancora aperta

È una malattia che non risparmia. Una volta innescato, il processo neurodegenerativo è inesorabile. I neuroni si spengono, uno a uno, come le luci di una casa illuminata, senza che ci sia modo di fermare il buio che progressivamente oscura le idee, le parole, la memoria, il senso della realtà, le emozioni, fino a cancellare perfino l’identità di sé e degli altri. Le capacità fisiche e cognitive si deteriorano, la persona diventa vulnerabile, ora depressa, ora aggressiva, incapace di una vita normale e spesso ingestibile per i familiari. Sono passati cento anni da quando un medico tedesco, Alois Alzheimer, ha identificato per la prima volta questo morbo, definendolo “una malattia insolita della corteccia cerebrale”. Oggi l’Alzheimer, che colpisce 500 mila persone solo in Italia e la cui incidenza risulta in costante aumento, nessuno lo definirebbe più “insolito”. Si torna a parlarne, per fare il punto sullo stato dell’arte della ricerca, il 16 settembre in un incontro scientifico sul tema “Nuove strategie terapeutiche per la malattia di Alzheimer” presso l’Irccs Centro San Giovanni di Dio Fatebenefratelli di Brescia, l’Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico rivolto specificamente alla riabilitazione dei malati di Alzheimer e psichiatrici. L’occasione è la XII Giornata Mondiale dell’Alzheimer che ricorre il 21 settembre. I ricercatori hanno fatto grandi passi avanti nella comprensione della malattia: l’imputato numero uno è la beta-amiloide, un frammento tossico, non smaltibile, di una normale proteina prodotta dai neuroni, che si accumula negli spazi cellulari e intercellulari formando placche e grovigli neurofibrillari. “Ci sono due enzimi, la beta e la gamma-secretasi, che come due forbici mal funzionanti, tagliano la catena della proteina nel punto sbagliato: i residui non sono solubili, si depositano, innescando una reazione immunitaria che avvia i processi killer della cellula”, spiega Paolo Maria Rossini, direttore dell’Irccs Fatebefratelli di Brescia. La beta-amiloide agisce come una sorta di collante: paralizza i neuroni, isola i collegamenti tra le cellule, come un chewin-gum in un microchip elettrico. Allo stato attuale non esiste terapia o vaccino in grado di prevenire, curare o fermare il decorso irreversibile della malattia. Ma la frequenza di articoli scientifici pubblicati sulle riviste internazionali non lascia adito a dubbi sugli gli sforzi della comunità scientifica in questo senso. Recemente, sull’American Journal of Pathology, è uscito uno studio del Flanders Interuniversity Institute for Biotechnology (Belgio) che suggeriva un nesso tra la beta-amiloide e il danneggiamento dei vasi sanguigni cerebrali, indicando come la proteina rendesse vene e arterie via via incapaci di smaltirla, con conseguente formazione delle placche. Su Science è apparsa una ricerca della University of Minnesota che provava la reversibilità della memoria in topi ingegnerizzati ad hoc in seguito alla disattivazione del gene che produce la versione mutata delle proteine beta-amiloide e tau. Si potrebbe continuare, senza alcuna speranza di essere esaustivi. Ogni studio sembra aprire una strada da percorrere, un campo di indagine da approfondire, una risposta che è dietro l’angolo. Ma a che punto siamo? “La ricerca di base si concentra ora su tre filoni principali”, continua Rossini. “I meccanismi che regolano l’orologio biologico dei neuroni e l’apoptosi, la morte cellulare programmata, i meccanismi di formazione della beta-amiloide e il ruolo della proteina tau, che facilita l’agglomerazione dei grovigli neurofibrillari”. Sugli stessi fronti si lavora anche alla ricerca di terapie. “Quelle più promettenti sono una terapia contro la gamma-secretasi e un vaccino anti beta-amiloide, che possa immunizzare l’organismo attraverso degli anticorpi per il frammento tossico. Altri studi riguardano l’uso di terapie antiossidanti che riducono la quantità di ferro, rame, zinco e altri metalli nel cervello”.Fare previsioni, allo stato delle cose, rimane molto difficile. “Pensiamo di essere vicini. Se tutto andrà bene, tra due o tre anni potrebbero partire le sperimentazioni su larga scala. Forse, per il 2010, possiamo sperare di avere qualcosa di più significativo di quanto abbiamo ora”.

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