La strategia della formica

Edward O. Wilson

La conquista sociale della Terra

Raffaello Cortina Editore, Milano 2013, pp 356, euro 26

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“But one can make a good case that the 2010 paper would never have been published in Nature had it been submitted anonymously and subjected to ordinary peer-review, bereft of the massively authoritative name of
Edward O. Wilson”. Scrive parole pesanti Richard Dawkins, recensendo per il Guardian l’ultima fatica del biologo esperto di biodiversità e massimo mirmicologo Edward O. Wilson, emerito ad Harvard, e fa appello all’autorità dei 140 evoluzionisti che avevano co-firmato la replica all’articolo dello stesso Wilson, Martin Novak e Corina Tarnita pubblicato sulla prestigiosa rivista britannica. A cosa si deve tanta acrimonia, tanta vis polemica nei confronti di uno scienziato universalmente stimato, un “longlife hero” di Dawkins medesimo?

L’articolo incriminato segnava la svolta dell’evoluzionista Edward O. Wilson da deciso fautore della teoria
della kin selection (John Maynard Smith) basata sulla affinità genetica come forza dinamica decisiva
dell’evoluzione, a convinto sostenitore della selezione multilivello, risultato dell’interazione tra “le forze
selettive che prendono di mira i tratti dei singoli membri ed altre forze selettive che prendono di mira
i tratti di tutto il gruppo”. Ora questa teoria – che nel tempo ha raccolto vari e variegati proseliti – viene
spiegata, anzi raccontata al grande pubblico da Wilson stesso in questo volume con ambizioni filosofiche
dichiarate fino dalle prime pagine.

Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? Il famoso e mastodontico quadro di Gauguin (1897) fa
da filo conduttore a tutto l’ambizioso lavoro che spazia dalle origini evolutive degli insetti – che si perdono
nella notte dei tempi – al progressivo impoverimento della biodiversità terrestre e delle risorse naturali
causato dalla rapidissima “conquista della Terra” da parte dell’Homo sapiens con la sua cultura, la
sua tecnica, le sue credenze, le sue contraddizioni. I superorganismi creati dagli insetti eusociali – quelli
cioè in cui generazioni multiple residenti in uno specifico nido allevano collettivamente la prole, sono
organizzate in gruppi grazie a una divisione altruistica del lavoro e creano un livello successivo di complessità
biologica al di sopra dei singoli organismi (il formicaio, il termitaio) – sembrano contraddire la kin selection – o selezione parentale – con la presenza di individui che rinunciano alla riproduzione personale al fine di favorire
il successo riproduttivo di altri membri del gruppo. Una colonia eusociale, dividendosi i compiti, è avvantaggiata
nei confronti degli individui isolati che competono per la stessa nicchia. Nel mondo degli insetti, gli eusociali – termiti e formiche – hanno avuto uno straordinario successo ecologico rappresentando tutti insieme la
metà del peso corporeo complessivo di tutti gli insetti del pianeta: hanno conquistato la Terra.

Un’unica specie di primati si è evoluta come specie eusociale e grazie a ciò ha anch’essa conquistato la
Terra, favorita da un endoscheletro che ne ha permesso lo crescita corporea, un grande encefalo, la stazione
eretta, arti con nuove capacità di movimento e mani prensili. Nonostante la specie Homo sia infinitamente
più recente di quella di formiche e termiti, nel poco tempo concesso dall’evoluzione “il vantaggio
di gruppo ci ha reso come siamo”.

Tra i due e i tre milioni di anni fa, una specie di australopitecine prevalentemente vegetariana modificò
la propria dieta aumentando il consumo di carne. Per procurarsela occorreva cacciare, controllare il territorio,
unirsi in gruppi non solo parentali. Il successo del gruppo era evidente nei confronti degli individui solitari: il comportamento altruistico, indispensabile nella collaborazione di gruppo, poteva essere svantaggioso per l’individuo ma, portando beneficio al gruppo nel suo complesso, la sua sopravvivenza e la sua presenza nella
popolazione erano assicurate. La selezione della nostra specie, la nostra stessa intelligenza sociale che ha
dato vita all’arte, alla scienza, alla tecnica, si è evoluta grazie a due forze apparentemente opposte: quella
del “gene egoista” che premia gli interessi del singolo, e quella della selezione tra gruppi, che favorisce
l’altruismo. A questa “selezione multilivello” dobbiamo la nostra condizione privilegiata: “A livello
più alto dei due livelli rilevanti di organizzazione biologica, i gruppi fanno a gara tra loro, favorendo i
tratti sociali cooperativi fra i membri dello stesso gruppo. Al livello inferiore, i membri dello stesso gruppo
gareggiano tra loro in un modo che sfocia in comportamenti egoistici. Il contrasto fra i due livelli di
selezione naturale si è risolto in un genotipo chi-merico in ogni individuo che fa di ciascuno di noi
un santo o un peccatore”. Il problema dell’altruismo, che apparentemente contraddice la teoria del “gene
egoista”, è ben noto fin dai tempi di Darwin. Secondo la kin selection i membri del gruppo collaborano tra loro perché imparentati: l’altruismo può portare il singolo a sacrificarsi affinché i propri geni presenti negli altri individui del gruppo parentale possano sopravvivere e moltiplicarsi. Tra questi ci saranno anche
i geni che favoriscono l’altruismo: una colonia altruisticamente unita avrà la meglio nei confronti di un
gruppo costituito da individui egoisti; la colonia crescerà, e il gene dell’altruismo crescerà nella specie.
Ma se gli individui altruistici moriranno a causa di una minore fitness, come potrà persistere il tratto
altruistico?

William D. Hamilton nel 1964 pensò di contribuire alla soluzione del problema proponendo un modello
matematico centrato sull’assunto seguente: il “costo” di ogni tratto altruistico espresso dal singolo individuo
a svantaggio di sé stesso deve essere minore del suo beneficio a vantaggio di un altro individuo del gruppo parentale. Lo espresse con una disuguaglianza, rb > c, dove r è la frazione di geni condivisi dai due individui grazie a una comune discendenza, b è il beneficio assicurato al destinatario e c è il costo sofferto dall’individuo altruista. La frequenza di un allele che esprime l’altruismo crescerà nonostante un costo di fitness individuale
– in termini di sopravvivenza e riproduzione – grazie al vantaggio riproduttivo ottenuto dai parenti dell’individuo altruista. Ora Wilson ipotizza forze selettive che beneficiano il gruppo anche in assenza di affinità genetica, generando eusocialità: in caso di competizione tra gruppi il successo sarà in gran parte determinato dal comportamento sociale di ogni gruppo, dalla sua consistenza numerica, la sua coesione, da una corretta divisione del lavoro tra i suoi membri, dalla qualità della loro comunicazione: “in parte questi tratti sono ereditabili… la fitness genetica di ogni membro è determinata dal costo estorto e dai vantaggi acquisiti grazie alla sua appartenenza al gruppo, tra cui il favore e lo sfavore che ottiene dagli altri membri del gruppo in
forza del suo comportamento”. Ma Wilson va oltre: anche nel singolo individuo gli alleli “egoisti” selezionati
a livello individuale, sono contrastati dagli alleli che orientano verso un comportamento altruista nei confronti del gruppo. Questa ambivalenza spiega anche la natura conflittuale delle motivazioni umane, i nostri continui
conflitti psicologici interiori, i nostri sentimenti contrastanti, il nostro essere, contemporaneamente,
angeli e demoni.

È del tutto chiaro quanto questa interpretazione della selezione naturale appaia, a una lettura superficiale,
politicamente corretta e psicologicamente bella ed esaustiva. E quanto possa essere piegata a significati
politici, religiosi, moralistici. E filosofici, dallo storicismo all’idealismo hegeliano. Dopo tutto la selezione
di gruppo appare come una ragionevole estensione della teoria evoluzionistica e una spiegazione plausibile
della natura sociale degli esseri umani da contrapporsi al dogma riduzionista che la selezione agisca solo
a livello di geni. Da mistificazioni manipolatorie ci mette in guardia però, tra gli altri, Steven Pinker, che
sottolinea proprio questo aspetto: “No one owns the concept of natural selection nor can anyone police
the use of the term. But its explanatory power, it seems to me, is so distinctive and important that it
should not be diluted by metaphorical, poetic, fuzzy, or allusive extensions that only serve to obscure how profound the genuine version of the mechanism really is”.

Telmo Pievani, che firma la prefazione all’edizione italiana, pur mettendoci (al solito) in guardia contro il
«Darwinismo idealizzato» di Dawkins e compagni, ammette che “solo le minute e poco appariscenti ricerche
future… ci diranno se la selezione di gruppo saprà raccogliere evidenze di letteratura scientifica primaria
tali da renderla una forza principale del cambiamento evolutivo”. Le critiche, da parte dei sociobiologi
“ortodossi”, sono numerose, argomentate e spietate: altrettanto le repliche, che invocano nuovi
paradigmi. La battaglia continua, ma solo in lingua inglese.

Questo articolo è stato pubblicato con lo stesso titolo sul numero di Dicembre di Sapere

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