L’altra faccia dei test genetici

Un’escalation silenziosa che, al momento, appare inarrestabile: il numero di test genetici effettuati in Italia cresce di anno in anno. Dal 1996 a oggi si è passati da 24 mila circa a quasi 200 mila. E’ questo uno dei dati emersi a Roma il 21 giugno, nel corso del convegno “I nostri dati genetici. Opportunità, rischi, diritti”, organizzato da Legambiente, dal Garante per la protezione dei dati personali e dal Comitato Nazionale di Bioetica. Cifre che accentuano le paure di chi teme gli effetti collaterali dello straordinario progresso scientifico in campo genetico. Servono regole, dunque, altrimenti si corre il rischio di creare una situazione nella quale il fine del bene comune diventa solo un inutile corollario alla legge del profitto.

I primi sintomi di questa degenerazione sono già avvertibili. Su Internet si trovano siti americani che vendono kit per test genetici fai-da-te. Che sono assolutamente inutili, perché per fare un test genetico basta analizzare un capello. Internet a parte, in Italia a preoccupare è anche la scarsa qualità professionale di molti operatori del settore. “In tutta Europa – afferma il professor Bruno Dallapiccola, del Dipartimento di Medicina Sperimentale e Patologia dell’Università La Sapienza di Roma – ci sono attualmente 330 laboratori che fanno test genetici. Di questi, 96 sono in Italia. Ci vorrebbe un controllo di qualità su chi ci lavora, ma nessun ente è preposto a questa funzione. Il risultato è che molto spesso i test vengono effettuati in strutture che non hanno le attrezzature e la preparazione necessarie”. Dello stesso parere è Marina Frontali, dell’Istituto di Medicina Sperimentale del Cnr: “Bisogna regolamentare l’attività dei laboratori esistenti in Italia. Servirebbe un comitato ad hoc, che includa tutte le parti, indichi linee d comportamento e monitorizzi la situazione”.

Ma a far scattare il campanello d’allarme non è solo il prevalere delle logiche commerciali o la scarsa preparazione di chi effettua le analisi. Il problema principale è che mancano ancora regole precise per quanto riguarda l’utilizzo dei dati genetici ottenuti con i test. Qui si entra davvero in un campo minato, perché si parla della tutela di informazioni personalissime, quali la nostra eredità genetica e la nostra salute, presente e futura. Chi o che cosa garantisce che questi dati non finiscano nelle mani dei datori di lavoro o delle compagnie di assicurazione? Come si può evitare che queste informazioni portino a discriminazioni nei confronti di individui o di gruppi? Come scongiurare, infine, il pericolo che i fautori dell’eugenetica trovino nuovi seguaci?

In campo internazionale finora ci si è limitati alle dichiarazioni di principio: la “Convenzione sui diritti dell’uomo e la biomedicina” del Consiglio d’Europa (Oviedo, aprile ‘97); la “Dichiarazione universale sul genoma umano e i diritti dell’uomo” dell’Unesco (novembre ‘97); le raccomandazioni dell’Organizzazione del Genoma Umano (Hugo), cui appartengono scienziati che operano nel campo della genetica. Appena si è passati dalle dichiarazioni alle decisioni, però, la situazione è cambiata. Esiste una direttiva dell’Unione Europea, la 44/98, che ribalta completamente i principi della Convenzione di Oviedo, anche se formalmente li rispetta. In questa direttiva con un escamotage è stata inserita una postilla in base alla quale le sequenze geniche, che secondo l’Unesco sono “patrimonio comune” dell’umanità, possono essere brevettate. Olanda e Italia si sono opposte senza successo alla sua emanazione. Ora tocca al Parlamento italiano limitare i danni. “Cercheremo di bloccare la direttiva 44/98 – afferma Massimo Scalia, deputato dei Verdi – o, meglio, di migliorarla, perché, comunque, in quanto direttiva comunitaria, deve essere recepita nel nostro ordinamento”.

“Nel nostro paese – dice il vicepresidente dell’Ufficio del Garante per la tutela dei dati personali, Enzo Santaniello – il quadro normativo in questo campo è ancora carente”. La legge 675 del ‘96 sulla privacy prevede garanzie particolari per i dati genetici. Il Garante ha finora emesso una serie di autorizzazioni che regolano l’utilizzazione dei dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale degli individui (e quindi anche i dati genetici). Ma entro il prossimo settembre sarà pronta un’autorizzazione apposita per il trattamento dei dati genetici. Il compito per l’ufficio del Garante non sarà semplice. A dirlo è lo stesso Stefano Rodotà, garante per la privacy e la tutela dei dati personali: “Sono qui in gioco due valori costituzionalmente riconosciuti: da una parte il diritto alla riservatezza, dall’altra il diritto alla salute”. Diritti che possono entrare in contrasto. “Non è affatto scontato – continua il Garante – che di fronte alla tutela della salute venga sempre meno il diritto alla privacy. In alcuni casi le persone sono portate a difendere quest’ultima. Le regole in questo campo, dunque, non possono essere assolute e incontrovertibili”.

Su una cosa, comunque, sono tutti d’accordo: serve una legislazione internazionale. Il caso dei siti americani che vendono kit per test genetici dimostra che un paese da solo può poco di fronte allo sviluppo del fenomeno. “Serve una convenzione firmata da vari paesi”, prosegue Rodotà. “L’Italia può avere un ruolo trainante. L’esempio potrebbe essere la Convenzione di Oviedo”. Gli fa eco Santaniello: “Il processo di evoluzione giuridica in questo campo deve essere ampliato a livello internazionale. Il principio base di ogni legislazione, sia essa nazionale o internazionale, deve essere comunque quello di evitare ogni tipo di discriminazione. Il modello può essere un decreto emesso dal Presidente dgli Stati Uniti, Bill Clinton, in cui si fa proibizione a tutti gli enti e uffici federali di discriminare i dipendenti in base ai loro dati genetici”. Serve, infine, una corretta informazione. “Di fronte alla pressione delle forze del mercato (case farmaceutiche, assicurazioni, datori di lavoro) – afferma Rodotà – ci vuole una grande consapevolezza sociale. Purtroppo, nelle discussioni, soprattutto quelle giornalistiche, c’è una tendenza alla drammatizzazione dei problemi, che produce ansie e paure nell’opinione pubblica”.

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