L’effetto del Prozac sui pesci

I farmaci non spariscono: i prodotti di rifiuto di quelli che assumiamo finiscono nelle acque di fiumi e laghi e hanno un impatto sulla vita di pesci e altre specie acquatiche. Perché gli impianti di depurazione delle acque non sono sempre in grado di intercettarli ed eliminarli, e conoscere esattamente gli effetti che tutto questo ha sui pesci non è affatto facile. Due studi americani presentati alla Conferenza della Society of Environmental Toxicology and Chemistry in California e discussi su Nature provano oggi a far chiarezza, dimostrando che l’accumulo di farmaci, in particolare estrogeni e antidepressivi, riduce non solo le capacità riproduttive di alcuni pesci ma anche la loro abilità di rispondere ai predatori, mettendo a rischio la sopravvivenza dell’intera popolazione.

Gli studi si sono concentrati su due classi di farmaci largamente usati: gli estrogeni contenuti nelle pillole contraccettive, e la fluoxetina, contenuta negli antidepressivi come il Prozac, e i loro effetti sono stati valutati analizzando il comportamento dei Pimephales promelas, una specie di pesce di acqua dolce molto comune nei laghi degli Stati Uniti e del Canada.

Nel primo studio i ricercatori dell’Università di Wisconsin-Milwaukee hanno analizzato l’effetto della fluoxetina sul comportamento riproduttivo dei P. promelas. “In condizioni normali questi pesci seguono un rituale molto elaborato per l’accoppiamento”, spiega Rebecca Klaper, ecologa responsabile della ricerca, “I maschi costruiscono il nido per le femmine e si prendono cura delle uova dopo che sono state fecondate”.

La presenza di fluoxetina nell’acqua invece modificava notevolmente questo comportamento: i maschi perdevano interesse per le femmine e si riproducevano di meno. E l’effetto era maggiore a concentrazioni più alte. Inoltre i pesci tendevano a diventare “ossessivi” nella costruzione del nido finché a concentrazioni estremamente elevate smettevano completamente di riprodursi e uccidevano le femmine. Il comportamento aggressivo dei maschi era temporaneo e spariva dopo un mese, ma le femmine rimanevano sterili. “È evidente che in questo intervallo di tempo qualcosa accade nei pesci”, continua la ricercatrice, “L’aumento della concentrazione di fluoxetina induce un cambiamento di espressione genica nel cervello dei maschi, ma come questo si traduca in un effetto comportamentale non è ancora chiaro”.

Gli effetti degli “scarti” dei farmaci di origine umana non riguardano solo il comportamento riproduttivo dei pesci. Lo studio di Dan Rearick dell’Università St Cloud State in Minnesota, presentanto allo stesso congresso di tossicologia, ha mostrato come elevati livelli di estrogeni influenzano i tempi di reazione ai pericoli delle larve di P. promelas. Usando una tecnica video ad alta velocità, il team di Rearick ha misurato un parametro chiamato C-start, ossia l’abilità di curvare il corpo a forma di C, un tipico movimento di fuga usato dai pesci per sfuggire a potenziali predatori. Le larve esposte a concentrazioni di 17-ß-estradiolo simili a quelle ambientali avevano tempi di risposta più lenti e solo il 45% di esse sopravviveva se nella vasca veniva introdotto un predatore (il Lepomis macrochirus), mentre il 55% di quelle non esposte agli estrogeni riusciva a scamparla. Paragonando i livelli di espressione genica nelle larve esposte e non esposte al 17-ß-estradiolo, gli studiosi hanno identificato un aumento del neurotrasmettitore dopamina, sostanza che potrebbe essere correlata agli effetti osservati.

“Sebbene la differenza di sopravvivenza non sia molto grande (45% contro 55%), le nostre simulazioni basate su un modello multi-generazionale di biologia delle popolazioni mostrano che l’effetto dell’esposizione agli estrogeni potrebbe essere tale da portare all’estinzione di queste specie di pesci. E questo è un dato preoccupante”, conclude Rearick. E uno studio condotto qualche anno fa non fa che confermare i sospetti: in un piccolo lago contaminato di estradiolo la popolazione di P. promelasera progressivamente diminuita.

Riferimenti: Nature doi:10.1038/nature.2012.11843

Credits immagine: nirbhao/Flickr

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