L’effetto serra sul corpo umano

Si muore di caldo: è proprio il caso di dirlo. Le periodiche ondate di afa provocano un aumento del 10 per cento dei decessi giornalieri in tutto il mondo. Ma in futuro il numero delle vittime è destinato a crescere. Secondo una proiezione fatta su città campione nordamericane, asiatiche e nordafricane, nel 2020 le morti dovute al caldo eccessivo raddoppieranno o, addirittura, triplicheranno. Colpa dell’effetto serra e del cambiamento climatico che investono il pianeta, con conseguenze dirette anche sulla salute umana.

Quest’ultimo aspetto però è diventato oggetto di studio solo di recente. Soltanto l’anno scorso, infatti, è stato pubblicato il primo rapporto sull’impatto sanitario del cambiamento climatico, “Climate Change and Human Health”, a cui hanno contribuito l’Organizzazione Mondiale della Sanità, la World Meteorological Organization e l’Unep, l’agenzia Onu per la protezione dell’ambiente. “La salute delle popolazioni dipende anche da una certa stabilità del clima, dalla protezione dai raggi ultravioletti, da un adeguato rifornimento di acqua e cibo, dal mantenimento della biodiversità”, afferma Anthony McMichael della London School of Hygiene and Tropical Medicine, coautore del documento, giunto a Roma in questi giorni per presentarne i dati più significativi per la prima volta in Italia. “Ma come possiamo stimare l’impatto sulla salute a lungo termine?”, si chiede. La questione non è semplice. “Si tratta di calcolare qual è, ad esempio, la dose di raggi Uvb a rischio per il cancro della pelle. O, ancora, di trovare un modello matematico attendibile. E su questo fronte molto si sta facendo, grazie anche alla messa a punto di Miasma (Modelling framework of the health Impact Assessment of Man-induced Atmospheric change)”.

I risultati emersi da questi primi studi sono allarmanti. Se non si farà abbastanza per ridurre i gas responsabili dell’effetto serra, la prossima generazione si troverà di fronte a uno scenario da apocalisse: produzione agricola agli sgoccioli, innalzamento del livello marino, disastri naturali frequenti, ridotte razioni di acqua e cibo, siccità e desertificazione, che si accompagneranno a un’esplosione di epidemie. “La tendenza alla crescita della temperatura media del globo – si legge nel rapporto – “potrebbe favorire la comparsa e la propagazione di malattie infettive, anche in aree attualmente non interessate. Infatti, assieme ad altri fattori fisici e biologici (ad esempio, umidità, precipitazioni, presenza di ospiti e predatori, ecc…), la temperatura riveste un ruolo fondamentale nella distribuzione geografica e nella consistenza numerica di organismi che agiscono da vettori nella trasmissione di alcune malattie, come avviene per le zanzare portatrici di malaria”.

Se, com’è stato previsto, le temperature medie saliranno di 1 – 3,5 gradi centrigradi nel corso del prossimo secolo, le zanzare malariche portrebbero arrivare dal Messico agli Stati Uniti, dall’Africa all’area mediterranea. Oggi il 5 per cento della popolazione mondiale è colpito dalla malattia e ogni anno si contano 350 milioni di nuovi casi. “La stima per il prossimo secolo – scrivono gli esperti – vede salire vertiginosamente la percentuale della popolazione a rischio-malaria, che passerà dal 45 per cento al 60 per cento, e toccherà per prime le popolazioni che vivono attualmente ai margini delle aree in cui la malaria è una malattia endemica: zone tropicali, subtropicali, ma anche quelle temperate meno protette”. A tutto questo si aggiunge l’assottigliamento della fascia stratosferica di ozono, che provocherà un aumento dell’esposizione alle radiazioni ultraviolette. Secondo l’Unep, con una diminuzione del 10 per cento della fascia di ozono – che è quella registrata tra il ‘79 e il ‘92 – nei prossimi 30-40 anni, potrebbero esserci 250 mila nuovi casi di cancro della pelle. Le morti per il caldo invece aumenteranno soprattutto a Shanghai, Il Cairo, Atlanta, Detroit, Los Angeles o Montreal.

Per evitare il peggio gli esperti chiedono un’immediata realizzazione di strategie concrete per la riduzione dei gas serra. “Si deve arrivare a Kyoto, in Giappone, dove a dicembre si terrà la conferenza intergovernativa sui cambiamenti climatici globali, con un pacchetto di proposte serio e non con vaghe dichiarazioni di principio”, afferma Ermete Realacci, presidente di Legambiente. “Da una parte c’è effettivamente l’impegno formale dell’Unione europea di arrivare al 2010 con una quota di emissioni di anidride carbonica inferiore del 15 per cento ai valori del ‘90. Dall’altra, però, c’è la resistenza, forte, degli Stati Uniti di Clinton ad assumere qualsiasi impegno vincolante per la riduzione delle emissioni di gas nell’atmosfera. E questa posizione non solo getta un’ombra sul reale perseguimento degli obiettivi, ma anche sulla loro efficacia. Perché gli Usa, da soli, sono responsabili di un quarto delle emissioni in causa”.

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