L’epistemologia da attraversare

    Riscrivere i presupposti del realismo tramite la nozione di confine. Questo, in estrema sintesi, l’obiettivo che Silvano Tagliagambe si prefigge in Epistemologia del confine (Il Saggiatore, Milano 1997). A giudizio di Tagliagambe, infatti, il realismo è in crisi perché i suoi presupposti risultano inadeguati a rendere conto epistemologicamente di alcune tra le più recenti e feconde teorie scientifiche.

    Il primo presupposto da abbandonare è quello che stabilisce che sia possibile separare i sistemi di indagine dai sistemi indagati: osservatore e osservato possono essere considerati autonomi. Il secondo principio afferma che un sistema non può essere influenzato da eventi e sistemi posti in una regione completamente diversa e non contigua dello spazio-tempo. Infine, il principio di rappresentabilità individua la presenza di uno stretto rapporto tra conoscenza e visualizzazione della stessa. Al fine di conoscere, suggerisce questo principio, dobbiamo essere in grado di rappresentarci, quasi in termini visivi, l’oggetto di conoscenza.

    Come mai si ritiene necessario suonare il de profundis per questi principi? L’elemento scatenante il giudizio è sicuramente la meccanica quantistica. In essa, nessuno dei tre principi, se non forse a esclusione dell’ultimo, può essere sostenuto con ragione. Non certo la “separabilità”, visto il principio di indeterminazione di Heisenberg che stabilisce, proprio a causa dell’interazione tra osservatore, sistema di misura e osservato, l’impossibilità di misurare con precisione momento e velocità di una particella. Né viene soddisfatto il principio di “località”, in quanto a due sistemi che abbiano interagito, e che poi siano stati separati, vengono assegnati degli stati connessi (entangled) di modo tale che interazioni con uno di essi conducono alla determinazione di proprietà sull’altro. Dati questi fallimenti, il realismo rimane dunque da ricostruire. Ecco dunque la proposta della nozione di confine.

    Abbiamo, tuttavia, accennato che il presupposto della “rappresentabilità” ha un suo statuto speciale. Esso, infatti, viene criticato se considerato da una certa angolazione, in particolare se inteso secondo il modello cognitivista classico. Questo modello concepisce la nozione di rappresentazione o come immagine o come proposizione (con tutte le possibili combinazioni di riduzione dell’uno all’altra o di convivenza). Tuttavia, entrambe queste concezioni si scontrano con diversi risultati e pratiche della scienza. L’immaginazione visiva sembra fuori luogo o inadeguata nel caso della meccanica quantistica come nel caso della matematica, quella proposizionale sembra insufficiente nel caso dell’analisi delle strutture architettoniche.

    Non si tratta, si badi, soltanto dell’insufficienza espressiva delle rappresentazioni, ossia del fatto che esse non sempre ci consentono di dire tutto quello che dovremmo dire, ma anche della loro concezione teoretica, intese come relazioni di corrispondenza con qualcosa, siano essi fatti o eventi. E’ questo secondo aspetto che Tagliagambe critica: tale messa in corrispondenza va a vuoto in molte delle più astratte teoretizzazioni della scienza moderna, rendendo così operativamente inefficace il principio.

    Al posto di questo principio di rappresentabilità, e qui inizia a prendere corpo la parte costruttiva del lavoro, va opposta una nozione di rappresentazione che risulti connessa alle attività, ai processi e alle operazioni effettivamente svolte dal sistema. Poiché questi sistemi vanno concepiti come “aperti”, cioè in continuo interscambio informativo con l’ambiente, ecco che l’attività e la processualità dei sistemi si risolve nell’interazione fra i sistemi e l’ambiente circostante, un’interazione che al variare dell’uno fa seguire variazioni anche dell’altro, in un processo di interscambio continuo.

    Tuttavia, tali interazioni non vanno intese in senso simbolico, come vogliono i cognitivisti classici, ma in termini subsimbolici, come si esprimono i teorici del connessionismo. Il risultato più evidente di questo cambio di prospettiva è, secondo Tagliagambe, che non esiste una e una sola corrispondenza, posta sul piano simbolico, tra sistemi di rappresentazione e realtà, ma sono possibili molteplici messe in relazione che consentono quindi diverse “letture” dell’attività dei sistemi. Inoltre, non essendo queste letture basate sul sistema simbolico, esse risulteranno “incarnate” nel sistema stesso.

    L’incarnazione di ciò che resta della nozione di rappresentazione risulta accoppiata alla nozione di “schema d’azione”. Tramite essa Tagliagambe, che in questo si rifà a Kant, porta alle estreme conseguenze l’idea che è nell’attività e nei processi dei sistemi che va risolto il problema delle basi della conoscenza. Non è possibile un soggetto conoscente considerato in astratto rispetto a ciò che lo caratterizza in quanto sistema cognitivo, e i prodotti epistemici ed epistemologici di un tale soggetto non possono risultare separati dali propri limiti e dai propri vincoli cognitivi. Si entra così nel vivo della nozione che Tagliagambe vuole cardine per il realismo: il confine.

    La fonte concettuale dalla quale Tagliagambe prende le mosse è il lavoro del geochimico sovietico Vladimir Vernadskij. Questo studioso ha posto le basi per la definizione della nozione di “biosfera”. Essa è una delle diverse “geosfere” con le quali è possibile caratterizzare il nostro pianeta inteso nel senso più ampio possibile. Entro queste geosfere la biosfera, che comprende gli organismi biologici, è quella ove meglio si può osservare il continuo rapporto di trasformazione e interazione fra l’organismo e l’ambiente. La biosfera è dunque una linea di confine nel senso di un “luogo di contatto specifico tra interno ed esterno, un meccanismo cuscinetto a due facce, una rivolta verso l’organizzazione intrinseca del sistema, l’altra verso l’ambiente, che proprio perché si presenta così può mettere in comunicazione reciproca ambiti che tuttavia restano separati nella loro specifica determinazione. Esso è quindi sia elemento di separazione, sia tratto d’unione di sfere diverse” (p. 110). In questa caratterizzazione della duplicità della nozione di confine è dunque racchiusa la chiave di volta sulla quale ricostruire un realismo a più sfaccettature, più sensibile nei confronti della complessità tipica dell’ambiente circostante.

    In che modo questo approccio si rivela utile per il realismo? Perché la nozione di confine è costitutiva della nozione di interazione e quest’ultima nozione è indispensabile per dare un senso alle più recenti teorie scientifiche. Il primo esempio è proprio quella meccanica quantistica dalla quale Tagliagambe ha preso le proprie mosse. Discutendo le diverse analisi che personaggi come Born o Dirac propugnarono nei primi anni di vita di quella teoria, Tagliagambe mostra che si deve riconfigurare il rapporto tra ricercatore e oggetto della conoscenza entro la cornice teorica rappresentata da questa nozione a due facce (cfr. p. 148, 257) e che tramite questa si possono proficuamente riorganizzare i concetti epistemologici che sottendono anche a discipline differenti, dalle scienze cognitive all’architettura fino all’informatica.

    E’ possibile percorrere la strada indicata da Tagliagambe? A mio avviso essa è la strada giusta, ma alcuni dei suoi orizzonti necessitano di ulteriori precisazioni. Vediamo in che senso. La nozione di confine che viene proposta è una nozione, per così dire, metafisica (o se si preferisce metaepistemologica). Questa nozione, infatti, non è solo utilizzata per descrivere o indicare normativamente i metodi e i presupposti della conoscenza, ma si offre anche come strumento teorico per descrivere cosa è la conoscenza. In questo senso essa è l’elemento cardine di un discorso sul discorso della conoscenza (in questo senso è metaepistemologica). Così intesa, tuttavia, essa potrebbe presentare una sorta di “scollamento” tra il livello di secondo ordine, metafisico o metaepistemologico, e quello di primo ordine, epistemologico. Questo equivale a dire che ogni volta che la nozione viene integrata nella riflessione su una determinata disciplina scientifica, essa può subire delle oscillazioni troppo marcate.

    Da ciò consegue il rischio che la nozione di confine sia usata in un certo modo, per esempio, entro la fisica subatomica, e in un altro entro l’architettura. Ossia, per proseguire l’esempio, mentre nella fisica subatomica c’è interazione fra osservatore e osservato, e tale interazione impedisce la determinazione della misura, in architettura è l’interazione tra osservatore e osservato che consente la precisione della misura. Chiaramente c’è qui un problema di scala e, al tempo stesso, questo rivela anche la duplicità della nozione di confine su cui Tagliagambe insiste. Ma la mancata definizione del rapporto che sussiste tra la forma generale della nozione di confine e il modo in cui tale nozione va, per così dire, “implementata”, può portare a difficoltà concettuali come quella prima immaginata.

    Tagliagambe è consapevole di questo rischio, e non a caso egli insiste sulle capacità di adattamento degli organismi al problema, una capacità che si attua anche nella ricerca scientifica. In questo senso, le varie realizzazioni della nozione verrebbero alla luce nella pratica, nell’interazione, e non sarebbe possibile stabilirle a priori. La sfida è dunque aperta, ovvero non viene proposta un’epistemologia “normativizzante”, ma si offre un punto di vista del tutto generale e, appunto, metaepistemologico. In prospettiva, il quadro che emerge è quello di un’epistemologia che interagisce con la scienza, e che non si nasconde più “nelle sue pieghe”. Che piaccia o meno agli scienziati.

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