Liberi dall’amianto. O no?

Come un nemico invisibile e nascosto, l’amianto si annida in varie forme intorno a noi. Da quella naturale, quando giace all’aria aperta nelle miniere abbandonate, alla forma grezza, in sacchi stoccati nei magazzini o nei piazzali degli stabilimenti produttivi, fino all’amianto miscelato con il cemento nelle onduline dei tetti e nelle tamponature degli edifici. Le fibre killer sono ancora presenti in oltre 75 mila ettari di territorio italiano, continuando a mettere a rischio la salute dei cittadini. Tanto che dal 1993 al 2004 sono stati individuati oltre 9 mila casi di mesotelioma pleurico, tumore dell’apparato respiratorio, con una esposizione che nel 70 per cento dei casi è stata di tipo professionale. Eppure, nonostante questa emergenza sanitaria, le bonifiche dei siti più pericolosi procedono a rilento. E anche i privati cittadini che vogliono smantellare strutture in amianto sono abbandonati a loro stessi. E’ questo l’allarme lanciato da Legambiente nel dossier “Liberi dall’amianto”, presentato durante la seconda conferenza nazionale non governativa “Amianto e giustizia” promossa, tra gli altri, da Associazione italiana esposti all’amianto (Aiea), Medicina democratica nazionale e Medici per l’ambiente (Isde).

Il rapporto analizza i sette siti di interesse nazionale inclusi nel Programma nazionale di bonifica del Ministero dell’Ambiente avviato nel 1998: si tratta di cinque impianti produttivi ormai dismessi e di due miniere in cui si estraeva il materiale. Fino al 1992, infatti, anno in cui il suo impiego è divenuto fuorilegge, l’Italia era il secondo produttore a livello europeo, con più di 3,7 milioni di tonnellate di amianto grezzo estratto, prodotto e commercializzato nel paese. Questo spiega la situazione di province come Alessandria, con Casale Monferrato e i 47 comuni limitrofi costruiti anche con l’asbesto, città come Napoli (a Bagnoli) e Siracusa, caratterizzate dalla presenza di stabilimenti di produzione di cemento amianto (o fibrocemento) nelle loro zone industriali; Comuni come Bari e Broni (Pv) che ancora ospitano nel centro abitato importanti siti produttivi dismessi che lavoravano la fibra, fino alle miniere di Balangero (Torino), la più grande d’Europa, ed Emarese (Ao) da dove veniva estratto il minerale prima di essere lavorato nei cementifici italiani e non solo.

Ma come procedono le bonifiche? “A rilento, anche perché da parte del Ministero dell’Ambiente è mancata una gestione efficiente delle conferenze dei servizi per valutare e autorizzare progetti di bonifica”, spiega Stefano Ciafani, responsabile scientifico Legambiente. “Il Ministero monitora 57 siti inquinati anche da altre sostanze, e su alcuni di questi non si fanno riunioni da più di un anno”. Ecco la situazione. A Casale Monferrato, dove negli anni Settanta la Eternit produceva il 40 per cento del totale di cemento amianto, dal 1998 sono state portate a termine le bonifiche dello stabilimento e della sponda destra del fiume Po, di 125 mila metri quadri di edifici pubblici, di 420 mila metri quadri di coperture previste su un totale di un milione e di 60 aree tra sottotetti e cortili contaminati per una superficie di oltre 18 mila metri quadri. Nello stabilimento Eternit di Bagnoli, nei 20 ettari risultati contaminati, la bonifica è arrivata a 40-45 per cento dell’ultimo lotto dei lavori preventivati e si concluderà nei primi mesi del 2010. Qualche passo in avanti, anche se solo negli interventi di messa in sicurezza, anche per gli impianti Fibronit di Bari e Eternit di Siracusa, ma le bonifiche non sono ancora partite.

Va peggio per gli altri siti di interesse nazionale. A Broni, nel programma dal 2002, per mancanza di fondi sono stati fatti solo gli interventi di messa in sicurezza d’emergenza e il piano di caratterizzazione dell’area Fibronit, operazioni non completate invece nelle aree Ecored e Fibroservice. Il completamento della bonifica del sito, previsto per il 2013, ha già subito un ritardo di almeno un anno rispetto al programma. Anche sulla miniera di Emarese sono stati realizzati solo gli interventi di messa in sicurezza di emergenza, mentre la bonifica dei 500 mila metri quadri di materiale non è stata avviata. Stessi ritardi per la bonifica della miniera di Balangero, dove sono stati realizzati solo alcuni interventi di messa in sicurezza d’emergenza sulle due discariche a cielo aperto, sulle vasche di decantazione e degli stabilimenti produttivi.

“Poiché i ritardi sono evidenti, proponiamo di spostare la gestione dell’iter in ambito locale, presso le Regioni o i Comuni, lasciando comunque la supervisione al Ministero e agli enti tecnici nazionali che dovranno verificare e indirizzare i vari procedimenti di risanamento”, commenta Ciafani. Ma il problema va oltre i siti orfani: “L’amianto è presente in varie forme. E’ miscelato con il cemento nella classica ondulina dei tetti e nelle tamponature degli edifici industriali o domestici degli anni Settanta e Ottanta, nelle canne fumarie, nei cassoni dell’acqua, nei tramezzi – continua il responsabile di Legambiente – ed esistono milioni di micrositi con cui i cittadini convivono spesso senza sapere nulla. Per questo è necessaria una campagna di informazione sulla presenza e sui rischi dell’amianto rivolta a tutti i cittadini e agli operatori del settore”.

In realtà dovrebbero essere le singole Regioni a produrre dei censimenti degli edifici pubblici e privati interessati dal problema, a stilare una lista di priorità per capire con quale urgenza intervenire e impegnarsi per trovare siti dove trattare e smaltire rifiuti. “Solo pochissime Regioni però hanno fatto questo censimento come dovevano: alcune lo hanno condotto solo sulle strutture pubbliche, alcune hanno pianificato lo smaltimento mentre altre no, sperando di poter spedire i rifiuti all’estero come si fa spesso; il censimento va invece ampliato comprendendo anche gli edifici privati”, dice ancora Ciafani. I problemi però non finiscono qui. Gli interventi di smantellamento e di smaltimento, eseguiti da ditte specializzate, sono molto costosi. E mentre il Ministero si fa carico della bonifica degli edifici pubblici, i privati devono provvedere in proprio. Così spesso capita che, per ridurre i costi, i cittadini preferiscano lo smaltimento illegale, o che facciano smantellare le strutture in amianto da persone inesperte, con maggiori rischi per la salute.

“Alcuni smontano da soli i cassoni dell’acqua o le onduline, spezzando addirittura i materiali per renderli trasportabili, con grave rischio per la loro salute. D’altra parte solo poche amministrazioni locali garantiscono il ritiro gratuito delle lamiere fino a un tot di metri quadri, come accade per esempio a Milano. Pensiamo invece – conclude Ciafani – che dovrebbero essere previsti dei fondi nazionali e regionali che aiutino i comuni nel ritiro gratuito del materiale. Per questo proponiamo la creazione di un Fondo nazionale sul modello superfund americano, che garantisca in primo luogo le risorse economiche per le bonifiche dei siti orfani, ma che preveda anche un fondo cui le Regioni possano attingere su richiesta dei Comuni per sovvenzionare i privati cittadini”.

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