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L’inquinamento cittadino lo scopre un satellite

Calcolare la presenza di sostanze inquinanti sopra una città non è cosa semplice. O, meglio, non era. Dal  Max-Planck-Institut per la Chimica di Mainz (Germania) arriva infatti un nuovo sistema che permette di misurare con estrema precisione la concentrazione e il tempo di sopravvivenza degli ossidi azoto, basandosi unicamente sulle correnti d’aria e le rilevazioni eseguite dai satelliti. Il metodo, descritto sulle pagine di Science, potrebbe rivelarsi estremamente utile per valutare i livelli di sostanze inquinanti prodotti nelle città dei paesi in via di sviluppo, dove le rilevazioni ambientali sono effettuate con meno frequenza.

Gli ossidi di azoto (sia il mono che il di) sono dei sottoprodotti dei processi di combustione e giocano un ruolo chiave in molti processi di inquinamento della troposfera (i primi 15 chilometri di strato atmosferico). Oltre a essere tossiche, infatti, queste sostanze chimiche contribuiscono alla formazione di piogge acide, agiscono da precursori di aerosol inquinanti e catalizzano la formazione di ozono. Informazioni dettagliate sulle loro emissioni nelle megalopoli (città con oltre 10 milioni di abitanti) sono considerate essenziali per la costruzione di modelli sull’inquinamento sia a scala locale che globale.

Finora, uno dei problemi principali è stato come stimare la persistenza degli ossidi nell’atmosfera. Se da un lato, infatti, alcune strumentazioni satellitari sono in grado di stimare le emissioni di queste molecole nell’aria, dall’altro il calcolo della loro vita si è sempre basato unicamente su modelli teorici (nel giro di poche ore, infatti, il diossido di azoto interagisce con gruppi di idrossido che ne riducono la tossicità). Adesso, invece, grazie alla tecnica sviluppata da Steffen Beirle, è possibile stimare con precisione la quantità e la sopravvivenza degli ossidi di azoto, analizzando gli spostamenti dei composti in base alle condizioni ventose e alla distanza percorsa prima di reagire con i gruppi idrossilici.

Per testare il metodo, il team tedesco si è focalizzato inizialmente sulla capitale dell’Arabia Saudita, Riyadh, per via delle sue “caratteristiche favorevoli allo studio”. La città, infatti, conta oltre 5 milioni di abitanti e ha emissioni di ossidi di azoto molto elevate; non è soggetta a venti costanti, raramente è coperta da nuvole e soprattutto è estremamente isolata (nell’arco di 200 chilometri non sono presenti altri centri densamente abitati). Così, analizzando i dati satellitari, gli studiosi sono riusciti a calcolare un tempo di sopravvivenza degli ossidi pari a quattro ore.

Poi hanno allargato la loro analisi ad altre metropoli, scoprendo diversi tempi di sopravvivenza.

“Questo metodo rappresenta un passo in avanti rispetto ai modelli attuali poiché consente di avere delle informazioni più precise per ogni luogo preso in esame”, ha spiegato Steffen Beirle su Science. “ I modelli precedenti, invece, sovrastimavano o sottostimavano la persistenza di queste specie tossiche”. Come hanno sottolineato i ricercatori, la tecnica può essere applicata a diverse fonti di emissione di ossidi di azoto e potrebbe essere allargata anche ad altre sostanze inquinanti, qualora si trovasse il modo di farle rilevare dai satelliti.

L’ultimo numero di Science non affronta il problema azoto solo dall’alto, ma anche dal basso, ossia dal punto di vista degli oceani. Un gruppo di ricercatori coreani, infatti, è riuscito a dimostrare per la prima volta gli effetti negativi che l’eccesso di azoto ha sulla chimica delle acque. “ Per anni gli scienziati hanno sospettato che il deposito di azoto reattivo sulla superficie degli oceani provocasse cambiamenti nella loro composizione chimica. Ora abbiamo mostrato che l’eccesso di azoto è in grado di alterare il normale equilibrio tra azoto e fosforo”, ha detto Tae-Wook Kim, ricercatore della University of Science and Technology di Pohang. Kim, in particolare, ha confrontato le misurazioni di nitrato e fosfato effettuate nei mari che circondano la Corea e il Giappone tra gli anni Ottanta e il decennio 2000-2010. Ha così scoperto che l’accumulo di azoto atmosferico ha rotto l’equilibrio con l’azoto disciolto, alterando il rapporto azoto-fosforo nel Pacifico. “ Se la tendenza dovesse continuare – sostengono gli autori – la vita marina dell’area potrebbe subire gli effetti della mancanza di fosforo”.

Riferimenti: Science DOI: 10.1126/science.1207824

Via: wired.it

Credits immagine: NASA

Giulia Belardelli

Laureata in Teoria della Comunicazione, vive tra Roma e gli Stati Uniti, da dove collabora assiduamente con La Repubblica, Galileo, Wired.it, Media Duemila e altre testate. E' praticante presso il quotidiano italiano negli USA America Oggi-Radio ICN e si occupa soprattutto di cronaca statunitense. Ha lavorato, come stagista e collaboratrice, in varie redazioni, dall’Ansa ad Avvenimenti, da Rainews24 a Skytg24. Ha avuto esperienza di ufficio stampa e pubbliche relazioni e vinto una borsa di studio annuale alla University of Edinburgh, Scozia. Lì ha imparato a coniugare le sue due grandi passioni: il giornalismo e la natura. E’ pubblicista dal 2006; ama scrivere soprattutto di scienze, tecnologia e viaggi.

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