Lo scaffale di Galileo

Ludovico Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico: Il Novecento, voll. VIII-IX, (a cura di) Enrico Bellone e Corrado Mangione, Garzanti, Milano 1996, pp. XVIII-1220, lire 360.000.

Gli ultimi due volumi (VIII e IX) della geymonatiana Storia del pensiero filosofico e scientifico escono, come ricordano i curatori, Enrico Bellone e Corrado Mangione, a vent’anni esatti di distanza dalla pubblicazione del primo aggiornamento dell’opera originale, dedicato anch’esso al Novecento ed apparso nell’agosto 1976.

Lì, nell’”Avvertenza” scritta personalmente da Geymonat, l’intera opera era presentata come “rivolta sì ad esporre criticamente i complessi sviluppi del pensiero filosofico e scientifico attraverso i secoli, ma soprattutto a fornire un punto di riferimento abbastanza preciso a chi voglia orientarsi, secondo una prospettiva razionalistica, negli intricati dibattiti odierni”. Più che comprensibilmente, Bellone e Mangione, nel presentare i due nuovi volumi, si sentono chiamati a misurarsi oggi con quest’impostazione originaria, giustificando le differenze più vistose con il mutamento del clima culturale complessivo.

Ironia della sorte, la cronologia finale che chiude i due volumi di aggiornamento, recita: “1991: Fine dell’URSS. Muore Geymonat”. Ma già il decennio precedente aveva visto declinare molti degli orientamenti più tipicamente geymonatiani. La sua progettata sintesi tra gli approcci formali ai problemi dell’epistemologia e il materialismo dialettico, come pure la sua idea neo-illuministica sul ruolo propulsore e democratico che avrebbe dovuto svolgere la cultura nella battaglia per il conseguimento di una società più giusta, ispirata da una coscienza sociale nuova e più alta che sarebbe dovuta scaturire dalle lotte dei lavoratori, cominciavano ad apparire aspirazioni fuori tempo, da studiare con gli occhi dello storico. Il quale sarà costretto a sentenziare che la filosofia di Geymonat, se la si intende come un “punto di riferimento preciso”, ha chiuso ormai da anni il suo ciclo vitale, esattamente come i sistemi idealistici di Croce e Gentile (e dei loro tardi epigoni) che, giusto vent’anni prima, Geymonat aveva considerato estinti.

Ma, naturalmente, fermarsi su questi soli aspetti del suo pensiero sarebbe unilaterale e ingiusto. Certo: le masse che, secondo Geymonat, “comprendono molto bene la forza dirompente della ragione, e proprio perciò esigono che tutti i problemi vengano affrontati e discussi con le più avanzate tecniche razionali senza ambigue concessioni, ai sentimenti, al dogma, alla tradizione” si sono rivelate un mero sogno filosofico. Tuttavia, Bellone e Mangione hanno gioco facile nel ricordarci che il progetto culturale di Geymonat non si esauriva certo nella sua fonte d’ispirazione leninista. Con il concorso di alcune circostanze favorevoli, benché spesso estranee al suo orientamento razionalistico-dialettico, quel progetto avrebbe, infatti, parimenti conseguito alcuni risultati indiscutibili e duraturi.

Cosl ben pochi oggi, anche in Italia, sembrano più dubitare della portata teoretico-conoscitiva del pensiero scientifico e dei suoi stretti rapporti con le altre dimensioni della cultura. Se questo è vero, ciò è in larga parte dovuto all’efficace e capillare influenza esercitata dall’opera geymonatiana su tutta la cultura italiana. Anche l’appello alla rigorosità formale e alla trasparenza metodologica, che Geymonat lanciò collocandosi nel solco del neo-empirismo, non è rimasto del tutto inascoltato.

Questo modo di affrontare il rapporto tra scienza e filosofia (frutto di una tradizione di pensiero antidogmatica e progressista sì, ma comunque estranea al marxismo), sembra anzi prossimo ad imporsi anche da noi, sebbene in forme che lo stesso Geymonat volle opportunamente riviste e corrette. Egli fu tra i primi, infatti, a riconoscere i limiti di qualsiasi metodologia astratta a fronte dei procedimenti effettivi di scoperta adottati dalle singole tradizioni di ricerca, e la necessità, quindi, d’inquadrare sempre il mutamento conoscitivo nel suo giusto contesto storico, intellettuale e culturale.

Certo: anche questi nuovi orientamenti epistemologici e storico-scientifici nacquero e si precisarono altrove, ossia nella tradizione filosofica anglosassone, dove alla crisi del neo- empirismo sopravvenne una “nuova filosofia della scienza”, poi qualificata come post-popperiana. Tuttavia in Italia essi trovarono un terreno assai fertile di coltura proprio negli studiosi di formazione geymonatiana, fino a tradursi in un’autentica koinè. Quest’ultima oggi s’è imposta in tutti i campi disciplinari, grazie all’adozione di un orientamento aperto e antidogmatico in campo scientifico ed epistemologico, il che giustifica a pieno la scelta pluralistica rivendicata dai nuovi curatori dell’opera. Scelta quanto mai opportuna, visto che il principale difetto dell’impostazione originale dell’opera era il trattamento a dir poco “unilaterale e compresso” di alcuni indirizzi, ottocenteschi e novecenteschi, filosoficamente assai rilevanti, ma divergenti rispetto agli obiettivi fondamentali dell’opera.

Detto questo, però, bisogna onestamente riconoscere che nei due volumi apparsi nell’estate scorsa il pluralismo risulta persino eccessivo.In primo luogo, c’è una vistosa discrepanza tra l’VIII volume, dedicato ad alcuni importanti sviluppi delle discipline scientifiche, nonché all’epistemologia, alla storia e alla politica della scienza, ed il IX, che tratta invece delle scienze umane e sociali, filosofia compresa. Ma, anche singolarmente presi, i due volumi risultano poco omogenei. Essi raccolgono infatti contributi che, sotto il profilo teorico-culturale, sono poco coordinati e, sotto quello stilistico-espositivo, nettamente difformi.

Questa duplice e spiacevole circostanza è stata già segnalata da altri recensori dell’opera. Cosl, ad esempio, Sandro Modeo, nella sua brillante recensione per la Rivista dei libri del febbraio 1997, vede nell’impostazione generale del secondo volume l’effetto di una vera e propria “rimozione collettiva” degli orientamenti filosofici più consoni alla costruzione di una nuova cultura scientifico-filosofica: kantismo e darwinismo. Da un’accusa simile, filosoficamente motivata, autori e curatori dell’opera potrebbero difendersi invocando le ragioni culturali dell’irrimediabile caduta dell’impianto teorico originale dell’opera e la conseguente necessità di trasformarla in un testo di consultazione largamente rappresentativo di (quasi) tutte le (diverse) tendenze del pensiero contemporaneo.
Non potrà dunque essere una colpa di chi si è limitato a fare storia delle idee se, nei filoni principali della filosofia continentale e italiana, risulta praticamente assente qualsiasi sintesi, compresa quella “kantiana e darwiniana” auspicata da Modeo.

Disgraziatamente, benché plausibilissima, questa difesa d’ufficio non regge ad un’analisi più circostanziata dei contenuti del secondo volume. Infatti, non tutti i capitoli di aggiornamento del secondo volume espongono davvero le tendenze più rilevanti del pensiero contemporaneo. In compenso, essi talvolta si contraddicono fra loro, senza quasi mai ricollegarsi agli sviluppi indicati nel primo volume.

Cosl, nel saggio di Carlo Sini che apre il volume col titolo “I nuovi scenari filosofici”, Quine non è citato nemmeno nella breve parte dedicata al neo-pragmatismo. Omissione quasi paradossale, se si pensa che il pensiero originale di Quine era stato solo parzialmente ed indirettamente esposto da Giulio Giorello nel precedente VII volume, nel contesto di uno studio dedicato alla crisi del popperismo e ai dibattiti che ne seguirono. Eppure, giusto a partire dagli anni Settanta, la naturalized epistemology di Quine è diventata un punto di riferimento quasi obbligato nella nuova “tradizione analitica”, entrata ormai da tempo in fase di profonda revisione.

Non stupisce dunque che la “naturalizzazione” dell’epistemologia venga menzionata verso la fine del saggio d’apertura del VIII volume, quello di Giovanni Boniolo su “Filosofia della scienza: la chiusura di un ciclo?”. Ma il pur meritorio accenno di Boniolo resta troppo isolato nel contesto di quel capitolo, sicché difficilmente il lettore potrà farsi un’idea dell’effettiva portata della proposta quineana, che sposta il centro della riflessione epistemologica dalla filosofia della fisica a quella della psicologia e della biologia. Per altro, ciò che accomuna maggiormente alcuni esponenti del neo- pragmatismo anglosassone illustrati da Sini (D. Davidson, H. Putnam, J. Searle e R. Rorty) a molti altri autori qui sottaciuti (come A. Goldman, H. Kornblith, N. Tennant, D. Papineau, la R. Millikan, fino allo stesso Bellone del Saggio naturalistico sulla teoria della conoscenza) è proprio il loro diverso modo di rapportarsi ad alcuni aspetti importanti di questa teoria di Quine: dalla concezione neo-comportamentistica del linguaggio, alla sintesi tra fisicalismo e darwinismo, per finire con la rinuncia ad ogni prospettiva normativa e fondazionale.

Tra i grandi assenti, che non figurano nemmeno una volta nell’indice dei nomi citati, c’è Michael Dummett, massimo studioso di Frege e dei problemi della verità e del significato. l’elenco delle omissioni si allunga con il contributo di Andrea Bonomi su “Sviluppi semantici nella filosofia del linguaggio”, che sembra scritto giusto venti anni fa perché è praticamente fermo a Kripke e a Montague, senza citare né la semantica cognitiva (letteralmente esplosa negli ultimi quindici anni), né la svolta chomskyana in direzione semanticista. Ma, chissà? Qualcuno potrebbe dire che si tratta di questioni troppo complesse e ancora troppo aperte per inserirle in una trattazione votata alla brevità e alla chiarezza. Cosl come, allo stato attuale dell’arte, potrebbe apparire un peccatuccio veniale la mancata menzione, nel capitolo di Gianni Carchia su “La ricerca estetica dal 1970 alla metà degli anni Novanta”, delle nuove ricerche (di J.-P. Changeux, C. Maffei e altri) sui rapporti tra estetica, psicologia della percezione e neuroscienze.

Qualcosa di ben più clamoroso capita invece nelle sezioni etico-politiche ed economiche del IX volume. Nel sesto capitolo su “Divenire del marxismo. Dalla fine del leninismo ai mille marxismi”, scritto da André Tosel nello stile di una appassionata relazione congressuale per gli anni 2000, si legge che “il marxismo italiano si è in gran parte suicidato per metamorfosi social-liberale e ha accettato il liberalismo delle teorie della giustizia ricavate da John Rawls, senza nemmeno conservare il senso delle aporie tragiche mantenute da Bobbio. Un esempio di questa evoluzione è il percorso di Salvatore Veca, che, partito da una risoluta difesa – à la Della Volpe – della scientificità di Marx (…) finisce per introdurre in Italia Rawls e il liberalismo della sinistra anglosassone”.
E’ appena il caso di ricordare che, nello stesso volume, il secondo capitolo, intitolato “La teoria politica e il paradigma della giustizia”, è scritto giusto da Veca, nello spirito denunciato da Tosel. Meraviglie del pluralismo!

Ma c’è di più. Poiché la posta in gioco è il liberalismo, sarebbe lecito attendersi una discussione approfondita delle sue radici novecentesche, che abbracciano l’etica, la politica, la teoria del diritto e dell’economia e che, a partire almeno dagli anni Settanta, hanno contribuito non poco all’abbandono del marxismo fra gli intellettuali. Radici, per altro, ben riconoscibili, visto che lo stesso Tosel, alla pagina 231 del suo saggio, dichiara che, in realtà, dietro i clamori suscitati dall’apparizione dei nouveax philosophes e dalla diffusione del pensiero di Popper, “è la grande ombra di Friedrich Hayek che domina la scena”.

Gli fa eco Salvatore Veca che, nel presentare il modello individualistico- liberale di Nozik, precisa che “sullo sfondo della teoria libertaria centrata sull’idea di stato minimo e di massima estensione del campo delle scelte individuali è fondamentale il riferimento alla grande e controversa costruzione economica, giuridica ed epistemologica del filosofo austriaco Friedrich A. von Hayek” (pag. 91). Peccato che lo dica solo per poi non parlarne affatto, dato che la versione hayekiana del liberalismo non sarebbe “coerente con il paradigma delle teorie della giustizia”.

Anche nell’undicesimo capitolo, che Giorgio Rodano ha dedicato alle “Tendenze del pensiero economico contemporaneo”, leggiamo che “i neoliberisti nutrivano una fiducia incondizionata nelle capacità del mercato di dar luogo a risultati ordinati e ottimali (…) sulla scia delle convinzioni ostinatamente predicate dal vecchio Hayek”, secondo le quali “persino il formarsi delle istituzioni e delle regole che assistono il funzionamento del mercato [dovrebbe] essere affidato all’interazione spontanea degli agenti individuali” (pag. 397).

Poiché anche per Rodano tanto basta e il discorso si chiude qui, il lettore attento sarà certamente indotto a chiedersi: “Hayek! Ma chi sarà costui?”. E non lo scoprirà mai, perchi, incredibile ma vero, in entrambi i volumi non c’è il minimo accenno ai contenuti del pensiero di Hayek (venticinque libri e oltre duecento articoli), la cui epistemologia si ricollega a quella di Popper e degli epistemologi evoluzionisti (di cui pure non si fa menzione), nonché al pensiero oggi assai discusso del neuroscienziato Gerald Edelman, mentre è in rotta di collisione con il pensiero di Keynes, Rawls e molti giusnaturalisti moderni a proposto di stato e mercato, diritti e ordinamento politico. Eppure, senza questi richiami, il neo-liberismo, che indubbiamente costituisce l’ideologia dominante delle classi sociali egemoni nell’attuale “sistema mondo” (di cui tutti parlano e nel quale rientra anche l’Italia), non lo si capisce davvero a fondo.

Date le premesse, era prevedibile che il quinto capitolo, scritto in collaborazione da Carlo Sini e Mauro Mocchi ed ambiziosamente intitolato “Problemi teorici della ricerca filosofica in Italia”, si traducesse in una compunta passeggiata tra i corridoi dell’accademia. Qui tutto sta a intendersi su cosa sia la filosofia teoretica. Dalla lettura dei paragrafi si evince che è qualcosa che comunque non ha nulla a che vedere con lo sviluppo né del pensiero scientifico, né di quello “strettamente logico ed epistemologico” (pag. 203), anche se “bisogna spendere almeno una parola per Antiseri e Agazzi” e, subito dopo, per Paolo Rossi e Sergio Moravia, “in riferimento ai problemi della scienza” (sic!). Agli altri tocca, come ha già segnalato Modeo, la più severa delle squalifiche.

Così nessuno saprà che Antiseri, nell’approfondire i suoi studi sul pensiero evoluzionistico di Popper e sulle fonti d’ispirazione di quest’ultimo, ha collaborato, anche a livello editoriale, con il principale artefice della introduzione in Italia delle filosofie d’ispirazione darwiniana, sintesi di biologia, etologia, psicologia e scienze sociali, che è Vittorio Somenzi. E’ ben noto, d’altronde, che dietro la svolta di Popper in direzione evoluzionistica c’erano i suoi rapporti sia con i membri del Theoretical Biology Club di Cambridge, sia con l’opera di K. Lorenz e con quella di D.T. Campbell, anch’essa introdotta in Italia per iniziativa di Somenzi. Ma leggendo queste pagine su Antiseri nessuno arriverà a saperlo, come nessuno saprà mai che, tra le fonti certe del popperismo dallo stesso Antiseri appassionatamente individuate, figura giusto quella Scuola Austriaca di Economia, anch’essa mai citata nemmeno nei volumi precedenti dell’opera, da cui scaturirono un certo Ludwig von Mises (ancora un altro Carneade) e il misterioso Friedrich A. von Hayek.

D’altronde, se di Sergio Moravia viene giustamente ricordato il suo interesse storico e teorico per il mind-body problem, sarebbe anche il caso di ricordare il clima culturale da cui esso scaturì. Allora, ossia nella seconda metà degli anni Ottanta, quel clima era ormai profondamente mutato grazie alla diffusione delle tematiche di filosofia della mente e filosofia delle macchine. Ebbene: queste tematiche, già negli anni Sessanta, Somenzi fu praticamente l’unico ad affrontarle, eccezion fatta per quell’altra figura “dimenticata” che risponde al nome di Silvio Ceccato.

Gli accenni sin qui fatti agli antecedenti e ai diversi campi d’applicazione dell’epistemologia evoluzionistica ci torneranno utili anche nella discussione dei capitoli dedicati alle scienze psicosociali. La loro pecca principale sembra essere, infatti, l’assoluta mancanza di un sia pur minimo riferimento allo scambio di modelli esplicativi che si è spesso verificato tra le scienze biologiche e quelle psicosociali, con grave danno per le possibilità di comprensione del lettore.

Prendiamo, ad esempio, un personaggio di primo piano come il sociologo N. Luhman. Dopo alcune rapide apparizioni in tre diversi capitoli (I, VI, IX), egli viene più distesamente presentato nel X capitolo, scritto da Serena Vicari. Scelta che non può stupire, dato che si sta parlando de “Le teorie sociologiche contemporanee”. Ebbene: sul libro di Luhman del 1984, Sistemi sociali. Fondamenti di una teoria generale, sono stati versati fiumi d’inchiostro. Perché? Perché lì, per la prima volta, venne applicata alla teoria sociale l’idea di “autopoiesi”, proposta nel 1973 da due medici e biologi cileni, H. Maturana e F. Varela. Nel capitolo sulla sociologia la cosa è fedelmente riferita – punto e basta. (Forse per questo il termine “autopoiesi”, che ricorre almeno due volte nel volume, non figura affatto nell’indice analitico.) L’omissione di ulteriori “dettagli” suscettibili di farci capire qualcosa a questo proposito, non sembra accidentale; basta leggere la parte conclusiva del saggio per rendersene conto. Seguendo Giddens, l’autrice vi parla di “doppia ermeneutica” tra “due quadri di significato, quello costituito dalle conoscenze degli attori [sociali] e quello del metalinguaggio dello scienziato sociale”.

Alla conseguenza più vistosa delle pratiche interdisciplinari che, da sempre, nel bene e nel male, consiste nella ricerca di modelli unitari, nessun cenno vien fatto – e, certo, non per distrazione. Le critiche e le risposte a Luhman sono state infatti numerosissime ed hanno coinvolto i suoi stessi ispiratori, Maturana e Varela, che si sono confrontati sulla legittimità o meno di estendere una teoria astratta dell’organismo (quale, appunto, l’autopoiesi vorrebbe essere) agli “organismi” sociali propriamente detti.

Il dibattito si è ben presto allargato, abbracciando l’intera problematica della complessità e della sua eventuale “riduzione”. Così, da anni, in biologia, in biofisica, in psicologia e nelle scienze sociali, i modelli basati sul concetto di autoorganizzazione hanno preso crescente slancio, sino a diventare terreno di scontro anche sulle pagine dei giornali. Non sempre è stato un bello spettacolo, ma passarlo del tutto sotto silenzio oggi mi pare eccessivo.

A interpretarlo, spesso con ruoli contrapposti, sono stati davvero tanti, compreso il nostro “fantasma di Banquo”, cioè il solito von Hayek. Quest’ultimo si è presentato come l’antesignano di tutta la recente letteratura neo- sistemica, autoorganizzazionale e autopoietica nel campo delle scienze dell’uomo e della società. In effetti, la sua teoria della formazione spontanea dell’”ordine esteso” (quello, per intenderci, del mercato capitalistico, della legge e del sistema politico liberale) richiede l’esistenza di un duplice meccanismo: autoorganizzativo e selettivo assieme. Lo stesso duplice meccanismo invocato da S. Kaufmann nel suo tanto discusso The Origins of Order, di cui parla Mauro Ceruti nel suo capitolo su “Evoluzione. Sviluppi del darwinismo e prospettive postdarwiniane”. Ceruti ne trae conclusioni ottimistiche su un possibile, anzi imminente superamento dei contrasti che a tutt’oggi dividono i fautori della selezione e dell’adattamento dai loro critici, che vanno dagli autopoietici ai sostenitori della “biologia della forma” e delle leggi di formazione dell’ordine spontaneo.

Tutti temi di grande interesse, anche se molto lavoro resta da fare prima che la sintesi prefigurata da Ceruti si realizzi davvero. Essi hanno ricadute notevoli anche sul piano psico- sociale, recentemente discusse dal padre della teoria dei quark, il fisico Murray Gell-Mann. Ma il poco che se ne dice resta confinato nel volume VIII. Quello successivo, giova ripeterlo, non tiene conto né di questi, né di analoghi rapporti tra scienze biologiche e scienze umane e sociali, come la teoria dei giochi, la sociobiologia, il “darwinismo universale” ed altro. Noblesse oblige! le scienze umane sono un’altra cosa.

Cosl il capitolo di Luciano Mecacci sugli “Orientamenti della psicologia contemporanea” verrà doverosamente inserito nel IX volume, e quindi staccato da altri che pure trattano questioni strettamente attinenti, come l’IA (Roberto Cordeschi) e le neuroscienze (Alberto Oliverio). Avvicinarli sarebbe stato invece quanto mai opportuno, perché il contributo di Mecacci non arriva a esporre certi sviluppi della psicanalisi e della psicoterapia che si rifanno direttamente a teorie neurobiologiche (come il darwinismo neurale di Edelman, recentemente adottato da A. Modell, che è citato sì, ma solo per i suoi primi lavori) o a teorie cognitive e relazionali. Eppure di Edelman e dell’importanza del suo modello selettivo, che egli ricavò dall’immunologia per riapplicarlo alle teorie del cervello, parla distesamente Gilberto Corbellini.

Sarebbe bastato quindi un buon raccordo redazionale tra i capitoli di Corbellini, Cordeschi, Mecacci e Oliverio per evitare molti di questi buchi. Che ciò non sia accaduto spiace ancor di più proprio perché, in tutti questi casi, si tratta di esposizioni che, nonostante la loro diversa ampiezza, risultano comunque ordinate, chiare e adeguate al compito che l’intera opera dovrebbe proporsi: orientare il “pubblico colto”, fornendo ai lettori le informazioni e i concetti necessari ad approfondire i loro specifici interessi. Dico dovrebbe perché, disgraziatamente, in entrambi i volumi manca un glossario, sicché alcuni contributi (in particolare, direi, quello sulla logica) risultano poco accessibili a chi non sia un laureando nella materia. Anche questo immagino si sarebbe potuto evitare irrobustendo l’apparato redazionale e specificando meglio gli standard espositivi. D’altronde, non è forse vero che, per merito degli autori, la maggior parte dei capitoli dell’VIII volume sono già più che soddisfacenti sotto questo profilo?

Questa positiva circostanza merita di essere a sua volta sottolineata. Essa si riallaccia alla parte migliore della tradizione geymonatiana, anzi la potenzia, perché, come e più di prima, nell’VIII volume la riflessione teorica viene portata direttamente all’interno degli sviluppi disciplinari. Qui la mancanza di sintesi pregiudiziali e di qualsiasi faziosità nella valutazione delle attuali linee di ricerca diventa esempio di vero pluralismo, confermando il fatto che, nella comunità scientifica, certe regole di stile (intellettuale, ancor prima che accademico) vengono tuttora fortunatamente seguite, a conforto degli appassionati appelli lanciati dai curatori e da Carlo Bernardini.

 

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