Lotte di copyright

Per la famiglia norvegese Johansen la longa manus della potentissima Motion Picture Association of America (Mpaa), l’associazione dei produttori cinematografici Usa, si è materializzata il 21 gennaio scorso. Il sedicenne Jon e suo padre sono stati fermati e interrogati a lungo dalla polizia che ha pure sequestrato ai due computer, dischetti e parecchio altro materiale. L’accusa: violazione del copyright su DeCSS, l’algoritmo di proprietà della Mpaa usato per proteggere i film registrati sui nuovi Digital Video Disc. In poche parole, l’associazione sostiene che Johansen junior ha sviluppato un programma che permette di duplicare i Dvd aggirando le protezioni per la tutela del copyright, mentre il papà ha diffuso il software attraverso il proprio sito web.

Il caso Johansen è solo l’ultimo episodio di un confronto iniziato ormai da qualche anno e che si fa sempre più aspro con l’avanzata via via più pervasiva e capillare delle nuove tecnologie. In sostanza, tutto ruota attorno alla tutela del copyright. Da una parte ci sono i tradizionali produttori e distributori di musica, film, libri e così via che la ritengono sacra, inviolabile. Chiunque ne metta in discussione la sicurezza è un nemico. Dall’altra, tutti coloro che vedono nelle nuove tecnologie l’opportunità di esplorare nuovi terreni, nuovi modelli di business e anche di liberare energie creative finora soffocate dai meccanismi della grande industria. Poter distribuire una canzone direttamente “dal produttore al consumatore” attraverso il web, forse danneggia i discografici, ma non è affatto detto che danneggi la musica. In mezzo, c’è un dato di fatto: l’era digitale è l’era della copia perfetta. Il copyright tradizionale è sempre più difficile da difendere e c’è una continua gara a “guardie e ladri” tra chi progetta meccanismi di protezione via via più raffinati e chi invece cerca di forzarli (e in genere riesce). Ma torniamo agli Johansen.

Analizzando il codice di un lettore Dvd per utenti Windows e Apple, lo scorso dicembre i due avevano scoperto una chiave elettronica lasciata inavvertitamente libera dagli autori del software. E quindi aveva pubblicato sul proprio sito web un programma che permette a chiunque l’estrazione di tale chiave e, in pratica, di copiare un Dvd. La Mpaa è subito corsa ai ripari, prima intimando la chiusura del sito, poi richiedendo l’intervento delle autorità contro gli Johansen. Negli Usa, ben due giudici hanno emesso sentenze che proibiscono ai siti statunitensi di distribuire il software. Ma nel frattempo le pagine che permettono il download del codice incriminato si sono moltiplicate in tutto il mondo, rendendo quantomeno dubbia l’utilità dell’azione legale.

La difesa degli Johansen (http://www.opendvd.org) si incentra su alcuni punti chiave. Primo. Il loro programma non è stato sviluppato per produrre copie pirata, ma per costruire un player Dvd per gli utenti di Linux (http://www.linux.org), un sistema operativo snobbato dalle case di software che hanno rivolto i loro prodotti solo agli utenti Apple e Windows. Oltretutto, precisano gli Johansen, il metodo utilizzato sarebbe perfettamente legale, anche in base al Digital Millenium Copyright Act, la normativa Usa che tutela i diritti d’autore e invocata dalla Mpaa per richiedere l’intervento giudiziario. Insomma: Jon e suo padre non hanno violato alcun copyright, ma solo sviluppato un loro software, muovendosi per di più nel mondo open-source di Linux.Il secondo punto è assai sottile. In realtà, sostengono i due, il contenuto di un Dvd protetto da copyright (cioè il film in se stesso) non è affatto criptato. Il meccanismo di DeCSS agisce solo in fase di riproduzione: impedisce, per esempio, che un dischetto americano venga letto da un riproduttore italiano ed è un modo per salvaguardare la politica di distribuzione dei film nelle varie regioni del mondo. Insomma, forzare DeCSS non significa affatto violare il copyright, ma solo intervenire su un meccanismo di riproduzione.

Intanto, mentre gli Johansen rispondevano ai poliziotti, la Recording Industry Association of America (Riaa), altra potentissima lobby che rappresenta le industrie discografiche, scatenava la sua offensiva legale. Nel mirino, questa volta, la Mp3.com, pioniere della distribuzione di musica on-line in formato mp3 e “colpevole” di aver lanciato un nuovo servizio per i suoi utenti. Mp3.com permette di ascoltare i brani dei propri Cd (regolarmente acquistati in un negozio virtuale o reale) attraverso Internet, scegliendone il titolo archiviato in una directory personale protetta da una password.

Il sistema funziona così: mentre siete in rete, il computer di Mp3.com vi chiederà di inserire nel vostro lettore il Cd che contiene il brano, in modo da accertare che possediate effettivamente una copia autorizzata della canzone. A questo punto, attenzione: nel vostro account protetto viene archiviato solo il titolo del brano e non un file con la canzone stessa. Quando avete voglia di ascoltare il brano, Mp3.com cercherà in un suo archivio proprio quella canzone. Secondo la Riaa il servizio una palese violazione dei diritti d’autore. Mp3.com, invece, ritiene l’accusa ridicola: l’utente ottiene un archivio di titoli di brani, niente più. E il consumatore ha tutto il diritto di usufruire come e dove meglio crede del prodotto che ha acquistato e su cui ha già pagato le royalties dovute. Tuttavia Mp3.com rischia grosso. Se i giudici daranno ragione alla Riaa, la società potrebbe dover pagare danni per miliardi di dollari.

E’ presto per dire come finiranno i casi degli Johansen e di Mp3.com. Per ora non si può fare a meno di notare come i grandi gruppi economici, pronti a puntare l’indice contro i pericoli delle tecnologie che violano i loro diritti e ledono i loro interessi, sono assai meno agitati quando le stesse tecnologie consentono loro di sfidare la privacy degli utenti, collezionare e scambiare i loro dati personali, catalogare e sfruttare le loro abitudini, gusti e intenzioni di acquisto.

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