Malati dietro le sbarre

“La Repubblica tutela il diritto alla salute come fondamentale diritto dell’individuo…”. Lo garantisce l’articolo 32 della Costituzione italiana. A tutti. Ma ad alcuni un po’ meno. Come a Carlo, detenuto del carcere di Como, 54 anni, un fisico intossicato da droga e tranquillanti, morto lo scorso 12 febbraio durante il trasferimento in ospedale, o a Mohammed, 36 anni tunisino, con gravi disturbi da disfunzioni ghiandolari, morto quasi alla fine della pena il 14 febbraio nella sua cella del carcere di Ivrea, oppure a M.G., 44 anni, detenuto di Rebibbia, malato terminale di Aids, scarcerato il 15 febbraio già in coma dopo l’ennesima richiesta negata. E’ la rassegna stampa dei casi di malasanità penitenziaria, che registra episodi a cadenza quasi quotidiana. Un volume che si aggiorna continuamente per colpa dei suicidi (20 volte superiori che tra le persone libere), degli atti di autolesionismo, dei problemi di sovraffollamento (nel Lazio risultano 5756 detenuti su 4673 posti regolarmente esistenti); grazie ai 500 detenuti affetti da disturbi psichici tra la popolazione carceraria della sola Sardegna (1800 individui in tutto). E grazie alle polemiche legate ad una riforma della medicina penitenziaria che stenta a decollare. Si tratta della legge 230/99, che prevede il passaggio della competenza sulla salute dei detenuti dal Ministero della Giustizia al Sistema sanitario nazionale, quindi al Ministero della Sanità, alle Regioni, alle Aziende sanitarie e al sistema delle autonomie locali. Con un principio “rivoluzionario” da far valere: stesse garanzie di cura dentro e fuori dal carcere.

Ma a cinque anni di distanza solo due funzioni, la prevenzione e le tossicodipendenze, sono passate alla competenza regionale. Perché questo ritardo? E quali sono le conseguenze per i detenuti? Se ne è discusso lo scorso 10 marzo nel primo “Forum nazionale per la tutela della salute dei detenuti e delle detenute” indetto da Legautonomie, a cui hanno partecipato amministratori locali e regionali, rappresentanti dei sindacati e delle associazioni di volontariato, operatori penitenziari e parlamentari. Vari interventi per raccontare un’unica drammatica realtà: la situazione attuale è disastrosa e il danno è vistoso e lacerante. “Le inadempienze dei Ministeri di Sanità e Giustizia, ma anche delle Regioni hanno impedito l’applicazione dei principi sacrosanti della legge 230”, afferma Leda Colombini, responsabile politiche sociali di Legautonomie. “E le responsabilità diventano ancora più gravi se pensiamo che nel 2001 è stato approvato il nuovo Titolo V della Costituzione che incarica le Regioni di legiferare sulla materia”.

Al momento, però, solo Toscana e Lombardia hanno approvato le leggi di applicazione della riforma. Certo non ha contribuito a migliorare una situazione già al collasso la continua riduzione di fondi destinati alla tutela della salute nelle carceri. Dai 115 milioni di euro del 1998 si è infatti passati agli 81 milioni del 2004. “Di questi tagli risente anche la qualità delle cure psichiatriche. Per cui la riduzione delle risorse rende difficile l’osservazione psichiatrica in carcere, con un conseguente ritorno ai modelli esclusivamente carcerari degli OPG (ospedali psichiatrici giudiziari, ndr.)”, dice Alessandro Margara della Fondazione G. Michelucci.

E’ opinione diffusa tra gli intervenuti al convegno che il governo attuale abbia interesse a riproporre un’idea esclusivamente punitiva della detenzione. Lo si deduce dalla mancanza di provvedimenti per la soluzione del sovraffollamento (indulto o amnistia), da proposte di legge come la ex-Cirielli, (che gli addetti ai lavoro chiamano anche “ammazza Gozzini”) che prevedono l’abolizione dei benefici ai recidivi (l’80% dell’attuale popolazione carceraria), dalla normativa sulle droghe. Così anche le resistenze alla riforma della medicina penitenziaria rientrerebbero in questo quadro ideologico. “E’ evidente il desiderio di impedire a ogni costo che un elemento estraneo al carcere, come le strutture sanitarie regionali, si introduca nel sistema. Mentre è proprio questo uno degli elementi di forza della riforma, che apre una prima breccia nel mondo penitenziario”, dice Stefano Anastasia presidente di Associazione Antigone. Ma la 230 presenta anche punti di debolezza: “E’ una normativa che pecca per eccesso di prudenza”, sostiene Patrizio Gonnella della Conferenza Volontariato Giustizia. “Certe riforme avrebbero bisogno di un pizzico di giacobinismo in più. L’estenuante sperimentazione concessa dalla legge infatti non permette di arrivare allo scopo in tempi ragionevoli. Il passaggio al Sistema Sanitario Nazionale della medicina penitenziaria dovrebbe essere più radicale, anche per consentire l’allineamento con il resto d’Europa”.

Per combattere la pigrizia istituzionale, avvallata anche da una legge troppo cauta, i rappresentanti del Forum hanno rivolto un appello ai futuri presidenti delle Regioni: presentare e far approvare nei primi cento giorni della nuova legislatura una legge regionale per l’organizzazione della sanità penitenziaria. Per rompere gli indugi e porre fine ad una situazione illegittima.

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