Mandela e la battaglia (persa) contro l’Hiv

È morto Nelson Mandela. Lo abbiamo ricordato per la sua decennale lotta contro le ingiustizie e la segregazione razziale, che gli valse il premio Nobel per la pace nel 1993 e grazie alla quale riuscì a liberare il Sudafrica dall’odioso apartheid. Ma anche per il suo impegno nel campo della scienza e della salute, con il lancio dell’ambizioso progetto Nacosa, volto a migliorare educazione, prevenzione, counseling, salute, diritti umani e ricerca. E arginare quanto più possibile le epidemie di Aids. Purtroppo, in quest’ambito, le cose non andarono troppo bene. Tanto che, dopo il suo congedo, lo stesso Madiba dovette ammettere di aver commesso qualche errore nel calcolare i rischi di diffusione dell’Hiv.

Prima della liberazione dall’apartheid, all’inizio degli anni Novanta, la prevalenza di Hiv in Sudafrica era del 7,6% tra le donne che frequentavano le cliniche prenatali e dell’1,8% a livello nazionale. Avrebbe dovuto scattare un campanello d’allarme. “Ma tutto restò muto”, racconta Paul Zeitz su The Lancet, “lasciando la maggior parte della popolazione ignara della minaccia e i leader politici incapaci di comprendere la portata della crisi imminente”. Con l’ascesa al potere di Mandela, un momento di “grande speranza” per il popolo sudafricano, paradossalmente ci fu un’esplosione dell’epidemia. “La segregazione razziale, la disuguaglianza di genere e la disparità nella fornitura di istruzione e salute”, continua Zeitz, “furono i fattori principali che lasciarono la società sudafricana impreparata all’assalto del virus”. E la libertà di movimento seguita all’abolizione dei divieti di viaggiò accelerò la diffusione della malattia.

A quel punto, il governo Mandela si rese conto che urgeva fare qualcosa. Fu varato un piano quinquennale, il National Aids Plan, racconta Michael Vittori, “secondo il quale tutti i ministri erano chiamati a sviluppare dei programmi in base al proprio ambito di competenza; per la prima volta la lobby dei diritti umani si faceva preponderante, perché uno dei punti fondamentali del Plan affermava che le persone affette da Hiv/Aids non dovessero essere sottoposte ad alcuna forma di discriminazione”. Il piano, per quanto buono nelle intenzioni, non fu efficace, soprattutto a causa dei problemi ereditati dall’apartheid, tra cui un sistema sanitario estremamente frammentato e la totale mancanza di coordinamento tra i vari responsabili delle politiche sanitarie. Tant’è che, dopo soli due anni, il numero delle infezioni era raddoppiato, attestandosi al 14,2%.

Ad aggravare la situazione ci fu poi la diserzione di Mandela al World Aids Day del 1996 e, soprattutto, i cosiddetti Aids Scandals. Sempre nel 1996, il governo spese oltre un quinto del budget nazionale per l’Aids su un contratto con una compagnia teatrale per produrre un musical, Sarafina II, che avrebbe dovuto “diffondere l’educazione sull’Aids tra le masse”, soprattutto tra gli adolescenti. Ma, a parte la spesa eccessiva, “lo show conteneva messaggi opinabili sulla salute pubblica”, continua Zeitz. L’anno seguente scoppiò la controversa questione del Virodene P058. Thabo Mbeki, vice di Mandela, usò il suo ruolo istituzionale per fare pressioni affinché l’autorità regolatoria sudafricana per i farmaci approvasse l’uso di una sostanza – il Virodene, per l’appunto, un solvente testato nella cura contro il cancro – anche per la terapia contro l’Hiv. Il Medicines Countrol Council, comunque, bollò il farmaco come inefficace e persino tossico.

Nel 1998, infine, l’allora Ministro della Salute Zuma decise di rendere indisponibile la zidovudina, un antiretrovirale che si era rivelato efficace nella riduzione della cosiddetta mtct (Mother-to-Child Transmission) di circa il 50%, dichiarando che la cura era troppo costosa. In risposta nacque la Treatment Action Campaign (Tac), un’associazione di attivisti che fece pressioni sul governo e sulle case farmaceutiche “affinché rendessero i trattamenti maggiormente economici ed accessibili”.

Naturalmente, la questione è controversa. E c’è anche chi la pensa in modo diverso. Johnatan Klein, per esempio, co-fondatore e Ceo di Getty Images e direttore dei Friends of Global Fight Against Aids, Tuberculosis and Malaria, a settembre di quest’anno salutava Madiba dalle pagine di Forbes definendolo “una leggenda vivente nella lotta all’Hiv e all’Aids” e sottolineando che “la Nelson Mandela Foundation, ora Nelson Mandela Centre for Memory, ha educato e unito le persone per combattere l’Aids e l’Hiv, proprio come Mandela ha unito una nazione per sconfiggere l’apartheid. La campagna 46664 (così chiamata per il numero di matricola da detenuto di Mandela) ha lanciato una serie di concerti per catturare l’attenzione dei giovani e ispirare una nuova generazione interessata alla giustizia sociale e alla fine delle epidemie di Aids”. Inoltre, conclude Klein, le cose sono migliorate negli ultimi anni: “La copertura di antiretrovirali in Sudafrica è aumentata all’80%, la trasmissione di Hiv dalle madri ai figli si è ridotta a meno del 2%, e nel 2012 dei ricercatori sudafricani hanno annunciato di aver trovato dei punti deboli del virus, offrendo una nuova speranza per un vaccino”. Speriamo si continui così.

Via: Wired.it

Credits immagine: p_c_w/Flickr

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