“Meno mercato, più cooperazione”

Un ‘nuovo vento’ soffierà presto sulla Farnesina. Basteranno sei mesi – si vocifera nei corridoi di Montecitorio – per attuare la riforma della diplomazia italiana annunciata in questi giorni dal Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Come in politica, Berlusconi vuole favorire anche nella diplomazia la cultura economica, facendo diventare le attività commerciali una priorità per il corpo diplomatico italiano. Le dichiarazioni sul nuovo corso della rappresentanza italiana all’estero hanno suscitato critiche da parte delle organizzazioni non governative impegnate in progetti di sviluppo e solidarietà nei Paesi poveri. “La riforma dovrebbe riguardare piuttosto la legge sull’autonomia della cooperazione allo sviluppo dalla politica estera e lo stanziamento di maggiori fondi da destinare ai progetti”, ha raccontato a Galileo Rosario Lembo presidente del Cipsi, il Coordinamento di Iniziative Popolari di Solidarietà Internazionale, uno dei tre esistenti in Italia, che riunisce 30 Organizzazioni non governative, “oggi invece le Ong ricevono finanziamenti soprattutto per gli aiuti alle cosiddette emergenze”.

Rosario Lembo, cosa cambierà con la riforma annunciata da Silvio Berlusconi?

“Si trasformerà notevolmente il sistema della rappresentanza italiana all’estero. Nuovi poteri verrebbero conferiti ai diplomatici: oltre a quelli di tipo politico, avrebbero anche poteri economico-commerciali. Soprattutto riguardo all’esportazione dei prodotti made in Italy. Oggi la situazione è diversa. I diplomatici si occupano solo marginalmente di questi temi. Anche la cooperazione internazionale, finanziata dal Ministero degli Esteri, non si interessa direttamente di attività commerciali, ma gode di piena autonomia fatta eccezione, per esempio, per le forniture che servono per realizzare i progetti sul campo. In questo caso vengono privilegiate le aziende italiane”.

Perché, come si legge nel vostro comunicato, questa riforma potrebbe allontanarci dall’Europa?

“La nostra dichiarazione rispecchia una preoccupazione: questa riforma potrebbe invertire una tendenza che oggi si riscontra a livello europeo. Dopo l’unificazione della moneta, infatti, anche la cooperazione dovrebbe diventare sempre più comunitaria, trovando degli obiettivi comuni su cui lavorare: non bisogna dimenticare infatti che la maggior parte dei progetti realizzati dai diversi Paesi hanno un destinatario comune: il Sud del Mondo. Le nostre attività si fondano sulla solidarietà diretta con le popolazioni povere per promuovere la giustizia. Quello che manca oggi sono le risorse”.

Nei scorsi giorni Berlusconi ha dichiarato di voler importare in Italia un modello di stampo anglosassone. E’ l’unica alternativa possibile?

“No, soprattutto in tema di cooperazione internazionale. In Europa esistono degli Stati che non solo destinano maggiori finanziamenti ma hanno anche realizzato quello che, come Ong italiane, noi inseguiamo da anni. Cioè un sistema di gestione dei fondi e dei progetti più snello. Mi riferisco in particolare alle esperienze della Francia e dei Paesi scandinavi, dove esistono ministeri autonomi che si occupano di cooperazione internazionale. Tutt’altra natura ha il modello inseguito da Berlusconi: la solidarietà negli Stati Uniti è affidata alle donazioni dei privati. Questo sistema incide sulla stessa politica estera del Paese che generalmente affianca agli interventi uno specifico tornaconto. Non dobbiamo dimenticarci che questo sistema ha portato in alcuni casi al rifiuto di donazioni da parte degli stessi destinatari”.

Cosa vorreste invece dal governo in tema di cooperazione?

“Innanzitutto è necessario svincolare la cooperazione dalla politica estera. Proprio come previsto dalla legge n. 49 del 1987, che è rimbalzata tra Camera e Senato durante le precedenti legislature. E che adesso si è definitivamente arenata. L’attuale governo non ha dimostrato alcun interesse a far proseguire l’iter legislativo della legge. E naturalmente vorremmo maggiori finanziamenti non solo per i progetti che riguardano le emergenze umanitarie, come per esempio l’Afghanistan, ma anche per quelli destinati ai Paesi in cui si concentrano le maggiori sacche di povertà”.

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