Giancarlo Sturloni
Le mele di Chernobyl sono buone. Mezzo secolo di rischio tecnologico
Sironi Editore, 2006
pp. 269, euro 16,00
In questo momento è il virus H5N1 dell’influenza aviaria. Poco prima, la Sars, le scorie radioattive di Scanzano Ionico, gli alimenti geneticamente modificati, i prioni responsabili della mucca pazza o l’Aids. Esattamente 20 anni fa, era la centrale nucleare di Chernobyl, e ancora dieci anni indietro la “fabbrica dei profumi” della vicenda Seveso. L’elenco potrebbe continuare così, fino al “peccato” originale della fisica: il rilascio delle bombe sulle città di Hiroshima e Nagasaki che palesarono in modo drammatico al mondo intero l’inizio dell’era atomica. Quello che hanno in comune i vari casi si può sintetizzare una parola: il rischio. Sono alcuni esempi fra quelli che questo libro racconta e riunisce (come nessun altro libro aveva finora fatto in Italia), episodi che rimandano a un rischio che non è più, come è stato in epoche passate, solo individuale: è un rischio collettivo, a carattere locale o globale, e persino intergenerazionale; investe la società intera, si ripercuote sull’ambiente naturale, chiama in causa scienza e tecnologia e costringe a fare i conti con nuove implicazioni di tipo etico, sociale, politico ed economico che queste hanno nella “società del rischio”, usando la definizione della nostra epoca data dal sociologo tedesco Ulrich Beck.
“Le mele di Chernobyl sono buone” non parla soltanto dei fatti che negli ultimi 50 anni hanno reso drammaticamente evidenti al mondo intero i rischi per l’ambiente e la salute connessi allo sviluppo tecnologico. È soprattutto un’analisi del gioco delle parti di chi si è trovato coinvolto, volente o nolente, nelle situazione di rischio, di chi ha gestito la comunicazione al pubblico, di chi ha deciso e di chi ha subito, di chi ha preso parte alla negoziazione delle scelte e di chi, invece, è stato deliberatamente tenuto fuori. In molti degli episodi narrati, i pareri e le valutazioni degli esperti, di tecnici e scienziati, non collimano con quelli del pubblico dei non esperti. La probabilità di morire del morbo di Creutzfeldt-Jakob mangiando bistecche è una su un milione, pari a quella di ammalarsi di cancro al polmone fumando una sola sigaretta in tutta la vita, affermarono personalità del mondo politico o medico durante la psicosi della mucca pazza per rassicurare il pubblico. Una campagna di informazione rassicurante e anti-allarmista che, come raccontano le cronache, ebbe esiti disastrosi e non fece che acuire ed estremizzare la reazione pubblica ai primi casi di decesso.
Il libro di Giancarlo Sturloni, responsabile del progetto del Master in Comunicazione della scienza della Sissa di Trieste e docente del corso di Comunicazione del rischio, procede su un doppio binario: quello degli eventi e quello delle idee, affiancando la ricostruzione storica, basata su fonti bibliografiche solide e ben documentate, all’evoluzione del pensiero e alla discussione teorica dei casi presi in esame. Il percorso cronologico dei fatti si intreccia quindi con quello, più dibattuto e meno lineare, dei diversi approcci alla gestione del rischio che si susseguono nel corso della storia: dal modello top-down degli anni Settanta fino alla consapevolezza che la percezione dei rischi e la loro accettabilità sociale sono questioni molto più complesse di quanto si possa ingenuamente affidare a cifre e calcoli statistici. I rischi legati alle tecnologie hanno sollevato controversie spesso sfociate nello scontro aperto e insanabile fra le parti interessate. Il caso della Val di Susa è solo l’ultimo esempio di una lunga lista. La prospettiva storica fornita nel libro e la riflessione che ne viene fuori potrebbero impedire di ripetere gli errori fatti in passato. Cinquanta anni di convivenza con il rischio hanno insegnato, infatti, almeno una cosa: che non è possibile sottrarsi al confronto e al dialogo, e non si può rinunciare alla partecipazione di tutti al tavolo delle decisioni.