Micromacchine batteriche

Sono macchine invisibili all’occhio nudo, così come è invisibile il loro motore. Eppur si muovono, alimentate per di più dalla luce: si tratta di batteri geneticamente modificati per essere utilizzati come propulsori la cui velocità di rotazione può essere regolata, per l’appunto, modulando opportunamente l’intensità della luce che li colpisce. A mettere a punto il bizzarro motore è stata un’équipe di scienziati del Nanotec – Consiglio nazionale delle ricerche e Sapienza Università di Roma: lo studio è stato pubblicato sulla rivista Nature communications.

Per comprendere come funziona il propulsore messo a punto dai ricercatori italiani bisogna fare un passo indietro, e guardare all’anatomia dei batteri. Molti dei quali – tra cui, per esempio, il famoso Escherichia coli – riescono a muoversi grazie all’azione di sottili filamenti elicoidali, detti flagelli, in grado di ruotare fino alla velocità di cento giri al secondo e che consentono di percorrere più di dieci volte la lunghezza del batterio stesso in un secondo.

In proporzione, dicono dal Cnr, la stessa velocità di un ghepardo. Un potentissimo motore alimentato, in natura, da un flusso di cariche elettriche accumulate dalla cellula nello spazio che circonda la membrana interna: tali batterie, di solito, vengono ricaricate mediante dei processi chimici in cui è coinvolto l’ossigeno. Di solito, per l’appunto: nel 2000, infatti, è stata scoperta una proteina, la proteorodopsina, in grado di inserirsi nella membrana cellulare e convertire l’energia della luce che colpisce la membrana per accumulare cariche elettriche all’interno della cellula, alimentando così i flagelli.

È proprio su questo meccanismo che hanno lavorato gli scienziati di Cnr e Sapienza: in particolare, i ricercatori hanno modificato geneticamente alcuni batteri, rendendoli in grado di produrre autonomamente proteorodopsina per alimentare i propri flagelli e fungere, così, da propulsori per micromacchine invisibili all’occhio umano. Per la precisione, il motore messo a punto dagli autori del lavoro si compone di due parti, una sintetica e l’altra naturale. “Abbiamo usato”, ci spiega Roberto Di Leonardo, professore al dipartimento di fisica della Sapienza e coordinatore del team, “una tecnica chiamata litografia a due fotoni, una sorta di stampa 3D su scala submicrometrica che consente, usando due fotoni emessi da un laser a femtosecondi nella lunghezza d’onda dell’infrarosso, di far solidificare un materiale con estrema precisione. Sostanzialmente, siamo capaci di costruire e assemblare microcubetti plastici: in questo modo abbiamo realizzato la parte statica del motore, in cui poi abbiamo alloggiato i batteri, che ne costituiscono la parte dinamica, cioè il propulsore”.

Gli scienziati hanno anche mostrato che illuminando i motori con luce di intensità variabile è possibile farli ruotare sia all’unisono, aumentandone la velocità e riducendone le fluttuazioni, che in modo indipendente. “Possiamo già produrre centinaia di rotori indipendentemente controllati”, dice ancora Di Leonardo, “che utilizzano luce come fonte primaria di energia e che, un giorno, potrebbero essere alla base di componenti dinamici per microrobot in grado di selezionare e trasportare singole cellule all’interno di laboratori biomedici miniaturizzati. Ma non solo: il lavoro ha anche un interesse dal punto di vista fisico e ingegneristico, dato che fino a questo momento non era stato possibile realizzare propulsioni su scale così piccole”.

Via: Wired.it

Sandro Iannaccone

Giornalista a Galileo, Giornale di Scienza dal 2012. È laureato in fisica teorica e collabora con le testate La Repubblica, Wired, L’Espresso, D-La Repubblica.

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